Indice
Introduzione………………………………………………………………………….……………………pag.2
Cap. 1 Presupposti teorici della ricerca
1.1 Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi……………………… pag.4
1.2 Cittadinanza e il nodo della rappresentanza.……………………………… pag.9
1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio……………………….pag.14
Cap. 2 La relazione tra la L. 328/2000 e il tavolo sull’ immigrazione
2.1 I principi,i valori e gli strumenti della L.328/2000……………………pag.20
2.2 Il tavolo permanente sull’ immigrazione……………………………………pag.26
Cap. 3 Gli stranieri immigrati nel tredicesimo Municipio
3.1 La presenza demografica delle comunità immigrate nel Municipio XIII……………………………………………………………………………………………………………pag.30
3.2 I bisogni e le risorse degli stranieri immigrati presenti nel Municipio XIII............................................................................. pag.31
Conclusioni………………………………………………………………………………………………..pag.35
Bibliografia………………………………………………………………………………………….…….pag.37
Sitografia……………………………………………………………………………………………….….pag.46
Allegato: Annuario Statistico 2012
Introduzione
La seguente ricerca è incentrata sul tema dell’immigrazione territoriale, con la finalità di scattare una fotografia dei bisogni, delle aspettative, delle risorse e delle relazioni (reti) delle persone straniere presenti sul territorio del Municipio XIII. Tale lavoro è frutto di un laboratorio di ricerca-azione-progettazione svolto da noi studenti del Master di Progettazione Sociale e gestione del territorio, in convenzione con il Municipio XIII, e l’Associazione P.M.T. (Progetto Mediazione e Territorio), basato sull’utilizzo di vari strumenti, come la raccolta delle “storie di vita” mediante interviste semistrutturate ai migranti, l’osservazione partecipata nei contesti urbani e sub-urbani, le interviste a testimoni privilegiati istituzionali e non istituzionali, la raccolta e l’ analisi di dati statistici ufficiali.
Nello specifico l’elaborato della sottoscritta, in primis, illustra i presupposti teorici della ricerca, poi passa ad un’analisi del legame tra quanto previsto dalla legge quadro 328/2000 e l’istituzione del tavolo sull’immigrazione, ovvero all’individuazione del collegamento tra i principi, i valori e gli strumenti caratterizzanti la Legge 328/2000 e la realizzazione da parte delle organizzazioni sindacali e del Municipio XIII del tavolo permanente sulla Immigrazione. La tesina si addentra nella descrizione delle funzioni e finalità del Tavolo Immigrazione, da cui trae origine la ricerca in oggetto.
Attraverso la lettura analitico-interpretativa, l’ analisi e il confronto di una serie di dati di carattere quantitativo forniti da svariati documenti (come il Piano Sociale Municipale 2011/2015 del Municipio XIII, il Dossier Statistico Immigrazione 2011 della Caritas/Migrantes, la Sintesi della popolazione straniera nel Municipio Roma XIII dell’Osservatorio, il Documento sintetico del Tavolo Immigrazione L. 328, etc), la ricerca vuole fornire un quadro che ritrae la presenza degli “stranieri” e degli immigrati e della relativa rete informale di relazioni, intraterritoriale ed extraterritoriale, in particolare indagando sulla gerarchia delle comunità straniere immigrate presenti nel Municipio XIII ed i loro bisogni di salute, di alloggio, di lavoro, di cultura e di socialità.
Ritengo importante sottolineare la difficoltà con cui i suddetti dati sono stati resi e condivisi da parte soprattutto delle istituzioni pubbliche, segno di un’incapacità a creare la “rete” tra i servizi e del mancato interesse a costruire e custodire una memoria del fenomeno oggetto di studio.
Capitolo 1
Presupposti teorici della ricerca
1.1 Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi.
Il disegno della presente ricerca viene inquadrato all'interno del più vasto panorama teorico della letteratura riguardante la modernità, la postmodernità e la fase di passaggio dalla prima alla seconda che ha costituito il momento di svolta per l’intero panorama delle scienze sociali, costrette a confrontarsi con la realtà della società contemporanea.
L’antropologia culturale ha superato la categorizzazione bipolare società moderna occidentale / società semplice (o primitiva) extra-occidentale e la connessa distinzione culture complesse / culture tradizionali che era propria della sua fase evoluzionista. «Oggi i processi di acculturazione e in genere di mutamento sempre più profondo e rapido, le migrazioni, le mescolanze etniche e culturali su scala planetaria, le dinamiche socio-economiche con i loro corollari sul piano culturale, hanno tolto quasi del tutto ogni consistenza ai vecchi presupposti valutativi, che pretendevano sceverare […] culture semplici da culture complesse»[1]. Non si ragiona più in termini di categorie, che vengono per lo più superate (la religione è una delle pochissime superstiti) ma confrontandosi con l’individuo altro. Vincent Crapanzano descrive l’incontro etnografico come «una complessa contrattazione nella quale i partecipanti tacitamente concordano una realtà di riferimento. Questa realtà non appartiene […] a nessuna delle parti in causa»[2]. L’approccio di lavoro proposto e le teorizzazioni che ne deriveranno segneranno il passaggio dalla società complicata alla società complessa per quello che concerne gli studi antropologici.
L’odierna società postmoderna è complessa in quanto figlia di un sistema non di tipo causale, espressione della “modernità” imperniata sulla conoscenza oggettiva del mondo, bensì di tipo casuale che è imperniato su due fattori: l’imprevedibilità e la velocità dei cambiamenti sia sincronici che diacronici. «Le società complesse interessano quasi la totalità delle società esistenti»[3] che si caratterizzano per la loro instabilità causata dalla presenza di un enorme numero di variabili che non sono né controllabili né prevedibili.
Finisce quindi la pretesa di dare un senso univoco e definitivo alla realtà che si definisce piuttosto in termini di differenza e molteplicità e in cui le differenze servono a determinare la propria diversità e, al contempo, la propria identità. Ne consegue che l’odierna società è molto frammentata anche a livello esistenziale, il che produce quello che Vattimo ha definito «complessivo effetto di “spaesamento” che accompagna il primo effetto di identificazione»[4] e si deve confrontare con la tendenza, di segno opposto, rappresentata dall’internalizzazione del consumo, delle informazioni e della produzione.
Nel libro “Antropologia come critica culturale”[5] gli antropologi Fisher e Marcus mostrano l’evoluzione dell’approccio utilizzato dalle discipline umanistiche e dalle scienze sociali che producono lo sforzo di fornire le loro rappresentazioni partendo dall’interno e valorizzando le differenze e le diversità di fronte alla più ampia consapevolezza di una crescente omologazione del mondo.
Il linguista e antropologo americano Edward Sapir nella sua analisi antropologica evidenzia la contrapposizione tra culture che definisce genuine e quelle spurie. La cultura genuina è quella in cui vi è armonia tra i bisogni della società e quelli dei propri singoli membri e in cui «le attività principali di un individuo devono soddisfare direttamente i suoi impulsi creativi e emotivi»[6]. Viceversa la società spuria è potenzialmente efficiente dal punto di vista economico ma incapace di esprimere una cultura genuina rispondente in modo organico alle aspirazioni degli individui che hanno smarrito la “spiritualità” nel proprio agire.
Oggi risulta sempre più difficile riuscire a rilevare un nesso stabile e coerente tra bisogno e soddisfacimento dello stesso e l’incertezza che ne deriva distingue gran parte delle società contemporanee caratterizzate da rapporti di tipo spurio, ossia casuale, nelle relazioni “bisogno-soddisfacimento” e che, quindi, non sono più indagabili con gli strumenti tradizionali.
Questa nuova condizione della società viene analizzata nell’opera di Bauman “Modernità liquida”, termine che ha assunto valore di neologismo e indica «una concezione sociologica che considera l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile».
La globalizzazione rompe i vincoli spazio-temporali, trasformando le relazioni economiche, sociali, produttive ed esistenziali ed inaugura l'avvento della società dei consumi, spazio virtualizzato in cui il luogo di produzione e di consumo non coincidono e in cui «capitale e conoscenza si sono entrambi emancipati dalla loro dimensione locale. La collocazione geografica dei loro possessori conta poco ora che il 90% delle transazioni finanziarie che producono ricchezza non è più vincolato al movimento delle merci materiali e ora che la circolazione delle informazioni avviene per lo più entro i confini del cyberspazio»[7]. Robertson ha coniato il termine “glocalizzazione” per sottolineare una peculiarità del mondo contemporaneo nel quale la tendenza alla globalizzazione, del capitale e dell’informazione, agisce in modo correlato, e in evidente contraddizione, con la tendenza alla localizzazione in cui è arroccata la politica. Dunque «il potere, in quanto incarnazione della circolazione mondiale di capitali e informazioni, diventa sempre più extraterritoriale, mentre le istituzioni politiche esistenti continuano ad avere un carattere prettamente locale. Ciò porta inevitabilmente a una progressiva perdita di potere dello Stato nazionale che ha smesso di controllare i processi d’integrazione sociale»[8]. Quest’ultimo compito, elemento distintivo e cardine dello Stato moderno, viene delegato ad altri soggetti che agiscono, spesso, potendo godere di larga autonomia e in qualche modo incontrollati.
La postmodernità e la globalizzazione hanno innescato un processo di estraneazione dal territorio che è il principale responsabile della marginalità sociale. Il processo di marginalizzazione sociale ha perso la sua accezione culturale e non è più collegato all’occupazione bensì è diventato una condizione spontanea nella quale il lavoro non è più la discriminante di uno status sociale che, a sua volta, non è più collegabile in modo stringente al consumo. Se il reddito da lavoro non è più la garanzia di uno status sociale cala la fiducia nell’attività lavorativa, sempre più caratterizzata da precarietà e flessibilità, che diventa semplicemente uno dei tanti fattori (insieme al possesso o meno di una casa di proprietà, alla presenza o meno di forme di addebitamento come gli assegni di mantenimento per l’ex moglie, ecc..) che determinano la propria posizione nella società e le condizioni in cui poter vivere il territorio.
Analizziamo dunque il rapporto che intercorre tra status, lavoro e consumo per formulare delle considerazioni aggiuntive sulla dimensione dell’esclusione sociale. Prima dell’avvento della globalizzazione e della postmodernità il sistema si riproduceva grazie al ruolo centrale per la vita individuale e collettiva svolto dal lavoro in quella che, in epoca industriale, si definiva “società dei produttori”. Il passaggio alla “società dei consumi” e quindi l’avvento del consumatore ha condannato il lavoro a cedere la propria funzione di integrazione sociale al consumo sacrificando così la sua connotazione etica ed appropriandosi di una dimensione puramente estetica.
Il rischio insito nella società contemporanea, fa notare Bauman[9], non si limita alla produzione di forme di povertà classiche, quali l’indigenza economica e materiale o la sofferenza fisica, ma si moltiplicano anche situazioni di miseria dovute a condizioni sociali e psicologiche critiche. «Dietro la crescita del mercato e di burocrazie c’è un declino della comunità e di quel valore individuale del sé di cui la salute mentale non può fare a meno»[10]. Queste forme moderne di povertà ed emarginazione sono possibili effetti collaterali dell’incapacità di consumo che, nella società contemporanea, è considerata una grave colpa.
Oggi, maggiormente che nel passato, il rischio di esclusione sociale, ossia l’impossibilità materiale di poter usufruire delle risorse, è molto sviluppato e produce una marginalità urbana che assume forme diverse coinvolgendo differenti personalità: dall’immigrato irregolare al soggetto affetto da dipendenza, dal disoccupato al psichiatrico. Il processo di esclusione, che accelera nelle fasi di congiuntura economica negativa come quella attuale, e lo scollamento dal territorio, per effetto di processi di globalizzazione e dell’inadeguatezza delle istituzioni, rende i cittadini sostituibili e potenzialmente marginali. La marginalità è il riflesso della diseguaglianza sociale che, generalmente, è progressivamente aumentata negli ultimi decenni e che può essere letta come una degenerazione dovuta all’indebolimento dei valori e delle norme comuni.
Nella sua evoluzione la società ha quindi sacrificato, insieme al lavoro, l’obiettivo vitale dell’integrazione sociale per approdare ad una fase, senza ordine né ideologie, nella quale l’esistenza sociale perde la sua connotazione oggettiva. Secondo Giddens, che rifiuta il termine postmoderno e parla di profonda radicalizzazione nella modernità della società contemporanea, «il sapere gelosamente custodito è ora sostituito dal sapere degli esperti che dovrebbero fornire sempre maggiori certezze sul mondo, ma la stessa condizione di tale certezza, è il dubbio»[11]. Le certezze vengono dunque sostituite dal dubbio così come il rischio prende il posto della riproduzione dell’ordine. La paura e la percezione del pericolo in una realtà così complessa e virtualizzata ha sviluppi imprevedibili. Nella società contemporanea “l’altro” o “il diverso" (considerato il tema di questo testo possiamo far riferimento allo straniero) continua a rappresentare un rischio. Questa “visione” rappresenta un ostacolo nel percorso di integrazione sociale e, molte volte, genera forme di autoesclusione: il territorio perde la sua dimensione originaria, al suo interno si sviluppano molti confini immaginari al cui interno, più o meno volontariamente, ci si rifugia per un bisogno di sicurezza o di appartenenza come esiliati inconsapevoli.
Touraine, in questo panorama, denuncia «l’assenza del principio centrale di costruzione della vita sociale: l’utilità sociale, la razionalizzazione e la lotta di classe»[12] e, nell’affermare il fallimento del postmodernismo in funzione delle realtà sociali, aggiunge che «se accettiamo senza riserve il declino della politica non resterà che il mercato a regolare la vita collettiva»[13].
La società complessa sembra quindi aver cancellato molte certezze e punti di riferimento producendo un forte senso di smarrimento e un generale senso di insicurezza nelle persone. Il fenomeno della povertà e della marginalità va intesa dunque in un duplice aspetto: quello prettamente economico legato ai consumi e quello socio-psicologico legato a nuove forme di ansia e di paure collettive. La società contemporanea produce e riproduce situazioni di marginalità che si manifestano in termini di povertà economica, disoccupazione, abitazioni inadeguate, violenza, discriminazione etnica e sociale. Su questo scenario incide la perdita dei legami interpersonali, che rappresentavano una risorsa importante per contrastare questi fenomeni, e si intrecciano storie di uomini che vivono ai margini della società. L’”uomo marginale” per eccellenza «è lo straniero che rappresenta un uomo al margine di due culture e di due società, che non sono mai completamente compenetrate e fuse»[14].
Alla luce di tutte queste considerazioni appare evidente l’importanza di una riconciliazione col territorio sia da parte delle istituzioni sia da parte della cosiddetta società civile per ristabilire i legami sociali. Infatti questa “distanza”, sviluppatasi in modo progressivo negli ultimi anni, nasconde numerose insidie, per le cause illustrate precedentemente, e rischia di accelerare il preoccupante fenomeno dell’esclusione sociale.
1.2 Cittadinanza e il nodo della rappresentanza
L'assenza di confini certi del territorio e la suddetta distanza tra istituzioni e società civile apre un ragionamento complesso sul rapporto tra legittimazione, consenso e controllo sociale, in una relazione circolare e ricorsiva che spiega spesso la presenza o assenza di risposte a bisogni espressi o sommersi della popolazione che abita un determinato territorio.
La mancanza di confini definiti nella città contemporanea, l'assenza di centro e periferia, rende anche il concetto di cittadinanza sempre più fluido e sfuggente e dipendente dalle relazioni che si sviluppano all'interno della città, ovvero dalla possibilità di usufruire di servizi e di esercitare diritti (diritto alla casa, diritto agli spostamenti, diritto ad usufruire di servizi sociali e culturali).
La virtualizzazione progressiva della relazioni, iniziata già dagli anni '80, ci restituisce uno scenario dove sono gli stessi flussi comunicativi a cambiare le città e dove le categorie economiche governano gli spazi e le relazioni.
Benjamin[15] a tal proposito parla di “liberazione di uno sguardo” ovvero il venir meno dell'ordine degli sguardi nelle città contemporanee, a partire dagli anni ’80 con lo sviluppo di città multiculturali ed informatiche.
Lynch[16] a fine anni '80 individua come strumento di costruzione delle mappe urbane il vedere come la gente immagina la città. L'autore sostiene che le persone nei contesti urbani si orientano per mezzo di mappe mentali. Egli analizza tre città americane (Boston, Jersey City e Los Angeles) e guarda come le persone vi si orientano. Un concetto centrale è quello di leggibilità (anche chiamata figurabilità). Leggibilità esprime la misura in cui il paesaggio urbano può essere letto. Le persone che si muovono per la città ingaggiano un processo di individuazione del percorso. Hanno bisogno di essere in grado di riconoscere e organizzare degli elementi urbani in un modello coerente. Nel processo di individuazione del percorso, il collegamento strategico è l’immagine ambientale, l’immagine mentale generalizzata nel mondo fisico esterno che è posseduta da un individuo. Questa immagine è il prodotto sia di una sensazione immediata che il ricordo delle esperienze passate, ed è utilizzato per interpretare le informazioni e per orientare l’azione. L’illeggibilità della metropoli e l’intrico dei suoi elementi spaziali compromettono la percezione della città.
L’aumentata complessità spaziale sociale e culturale del tessuto urbano, a partire dal XX secolo, insieme alla velocità dei mezzi per attraversarlo ha sollevato parecchi problemi nuovi per la percezione.
Lynch nota come risultino compromesse funzioni da sempre vitali per l’uomo, come l’identificazione dei luoghi, l’orientamento, la costruzione di una relazione individuo-spazio emotivamente sicura, la creazione di simboli comuni che legano il gruppo e permettono ai suoi membri di comunicare l’un l’altro.
In questa dimensione complessa, in cui ogni persona circola tra realtà differenti (contesto biografico, socio-politico, universo culturale, istituzioni, realtà quotidiana) si può generare quella che Farmer[17] definisce Violenza strutturale, ovvero la violenza come processo in cui le vittime occupano il posto più basso della scala sociale in società non egualitarie. Farmer invita ad analizzare i meccanismi sociali dell'oppressione che “sono tanto peccaminosi quanto apparentemente colpa di nessuno”.
La violenza strutturale è da lui definita come quella particolare violenza esercitata in modo indiretto, ovvero prodotta dall'organizzazione sociale stessa e dalle sue disuguaglianze e frutto di processi storici, politici ed economici. Tale violenza si esplica attraverso la limitazione della capacità di azione di soggetti che occupano la posizione più marginale in contesti segnati da profonde disuguaglianze sociali.
Anche Bauman facendo riferimento alla stratificata società dei consumi, dirà che «tutti noi siamo condannati ad una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere»[18].
Tale discorso è ancora più vero e drammatico se prendiamo in considerazione una delle categorie più marginali dei contesti urbani contemporanei, in particolare italiani e nello specifico del territorio di Roma che è oggetto di questa ricerca, ovvero l'immigrato.
Un’illustre studioso della condizione di sofferenza e ambiguità che caratterizza l’esperienza della migrazione “in generale” è Abdelmalek Sayad, il quale, considerato come “fondatore della scienza delle migrazioni”, ha ridefinito la condizione di ambiguità e ibridità a cui è costretto il migrante che, in quanto contemporaneamente immigrato ed emigrato, non è cittadino di pieno diritto né nella società di provenienza né in quella di approdo[19]; e così facendo ha ripreso il concetto di “erranza” e rivisitato il fenomeno migratorio che la maggior parte delle scienze sociali è stata incapace di analizzare sotto il suo insito duplice profilo di immigrazione-emigrazione, soffermandosi solo sul primo lato della medaglia, in modo nettamente parziale ed etnocentrico. Oltre la «questione apparentemente tecnica viene posto oggettivamente l'intero problema della legittimità dell'immigrazione, problema che tormenta tutti i discorsi di natura analoga. Non c'è pressoché alcun discorso sugli immigrati e sulla funzione dell'immigrazione, soprattutto quando è svolto esplicitamente e scientemente, come nel caso della "teoria economica dei costi e dei profitti comparati dell'immigrazione", che non consista ora nel legittimare ora nel denunciare l'illegittimità fondamentale dell'immigrazione»[20].
Bauman[21] è tra gli studiosi che hanno incentrato la propria riflessione sullo “straniero” come figura ambigua e “inclassificabile”, in quanto non compresa all’interno delle tradizionali opposizioni binarie tra amici- nemici (trasposizione a sua volta della dialettica tra interno- esterno), separazioni “asimmetriche”, dal momento in cui l’opposizione è il prodotto e la condizione del dominio narrativo degli amici e della narrativa degli amici come dominio. Lo straniero, invece, è portatore di una minaccia più pericolosa di quella del nemico, perché minaccia l’associazione stessa e, dato che l’opposizione è il fondamento su cui si basano la vita sociale e le differenze che ne sono parte e la conservano, lo straniero mina le fondamenta della vita sociale stessa. E tutto questo perché lo straniero non è né un amico né un nemico: potrebbe essere entrambi. La sotto determinazione degli stranieri stessi è la loro potenza: poiché non sono niente essi potrebbero essere tutto. Essi mettono fine all’ordine del potere dell’opposizione. «Gli stranieri […] sono principalmente indefinibili. Sono quel “terzo elemento” che non ci dovrebbe essere. I veri ibridi, i mostri: non proprio inclassificati ma inclassificabili»[22].
Ne La società dell’incertezza Bauman associa la condizione generalizzata di incertezza che caratterizza l’assetto societario dal punto di vista strutturale, politico, economico, al carattere sempre più provvisorio che vanno assumendo le relazioni sociali e la stessa identità individuale, definita come “identità a palinsesto”[23], in quanto si configura come graduale assunzione di maschere sempre cangianti che ridefiniscono in modo fluttuante una personalità fragile e provvisoria, manifestazione più ovvia e immediata della nuova “libertà” che caratterizza la società postmoderna. Il principio di realtà su cui si fondava la società moderna viene, infatti, soppiantato dal principio del piacere e libertà, che si traduce però in un’assenza di punti di riferimento stabili su cui costruire i propri percorsi esistenziali ed identitari, e in corrispettiva nell’aumento dell’incertezza.
In questa condizione di precarietà, anonimato, solitudine del cittadino delle metropoli post-moderne, lo straniero diventa un essere trasparente, invisibile, privo di specificità particolari. Ed è proprio qui che si manifesta il suo carattere più ambivalente: se da un lato, infatti, lo straniero, al pari degli altri cittadini, recita nell’anonimato la sua parte “invisibile” di uomo alla ricerca di opportunità in cui esercitare la propria libertà, dall’altra diviene visibile e desta curiosità in quanto portatore di “differenza” e, quindi, esemplificazione di una possibilità reale di uscire dalla monotonia e di sperimentare forme di esistenza innovative e originali. Anche se, sottolinea Bauman, questa diversità è ambivalente essa stessa, in quanto sia risorsa, perché spinta al mutamento, che “condanna”, perché suscita un senso di minaccia e pericolo suscettibile di contaminare quel poco di certezza rimasta nella società, generando quindi sentimenti contrastanti di timore-curiosità, rifiuto-attrazione.
All'interno di queste dinamiche relazioni e di esercizio di potere e consenso, si sviluppa la cittadinanza.
Il nodo della rappresentanza indica il gap che si viene a creare tra cittadini/interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti. L'aspetto importante all'interno di queste dinamiche, infatti, non è tanto la rappresentanza, che indica un concetto generale, quanto il concetto operativo di rilevanza di un attore sociale nei processi di partecipazione democratica, ovvero la sua capacità di avere peso nel policy making.
I rapporti di forza politici vengono rispecchiati nel triangolo che si crea tra legittimazione-consenso e controllo sociale. Se da un lato, infatti, l'istituzione legittima il cittadino, in corrispondenza questi darà il suo consenso all'istituzione stessa, che esercita così un controllo sociale sulla medesima popolazione. Da questa dialettica complessa si sviluppa poi la governance.
Il meccanismo della governance che comprende al suo interno diversi livelli (istituzioni, terzo settore) cerca di rimediare al gap tra cittadini e interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti.
Lavorare sulla costruzione di un’ “Integrazione civica” significa avviare un processo di socializzazione alla cittadinanza attraverso la partecipazione a forme di cittadinanza attiva e quindi alla presenza nei processi di policy making al fine di tutelare diritti, curare beni comuni e rafforzare soggetti in difficoltà.
1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio.
Nell’avviarsi alle conclusioni di questa parte introduttiva si rende necessario riprendere due concetti sopra espressi per analizzare il contesto in cui si trova a lavorare chi fa progettazione sociale in un territorio urbano.
Non solo, abbiamo detto, ci troviamo di fronte a un territorio sempre più “liquido”, i cui cambiamenti si susseguono rapidamente e in maniera imprevedibile, ma, a causa di un rapporto sempre più virtuale delle persone con il proprio territorio, è inoltre aumentato oggi il rischio di cadere nella marginalità sociale, di essere esclusi dalla comunità e di perdere la possibilità di agire sulla realtà.
In questo contesto allora, fare progettazione sociale significa operare per ridurre queste marginalità e per ridistribuire il rischio di cadervi, ma significa farlo in un territorio in costante mutamento, dove spazi e relazioni sono continuamente rinegoziati e dove ad agire sono inevitabilmente relazioni di potere e gerarchie di valore.
Progettare e gestire un territorio è infatti compito delle Istituzioni e rientra nel sistema di consenso da queste messo in atto, ne è riproduzione di fatto e si inserisce in quel triangolo ricorsivo, di cui si parlava sopra, che genera forme di controllo sociale. Attraverso l’erogazione di bandi e la realizzazione di progetti le Istituzioni offrono legittimazione e ottengono il consenso di quella parte di società civile che di volta in volta risulta come destinataria delle sue attenzioni.
Progettare un territorio vuol dire agire politicamente su di esso ed inserirsi nelle dinamiche di delega e rappresentanza, consenso e legittimazione che caratterizzano le relazioni tra chi governa e chi abita una città.
Emerge, allora, la figura del progettatore sociale[24] come mediatore tra le istanze delle Istituzioni e quelle della società civile, impegnato a favorire l'incontro tra le prime e i bisogni dei cittadini, anche, o soprattutto, di quelli che, trovandosi in una condizione di marginalità tenderanno a non esprimere i propri bisogni, a lasciarli sommersi.
Presupposto della progettazione è dunque innanzitutto una conoscenza tanto del territorio e delle relazioni di forza che lo attraversano, quanto di quelle istanze che il progettatore si troverà a mediare.
Ma come fare a conoscere un territorio che abbiamo detto essere di per sé incerto e mutevole?
Una volta abbandonata, con il passaggio alla post-modernità, la pretesa di dare un significato univoco alla realtà, di considerare l’Universo come Uni –Verso [25], “l’epistemologia della certezza” ha lasciato il posto “all’epistemologia del dubbio”[26]. Ad essere messa in discussione è stata la conoscenza ontologica, ovvero la possibilità stessa di conoscere l’oggetto osservato, e l’idea conseguente che l’osservazione che si fa sia l’unica possibile.
Il ricercatore non potrà mai conoscere il territorio allora, ma solo formularne una mappa, consapevole del fatto che la sua sarà solo una delle infinite possibili interpretazioni e rappresentazioni di quel territorio e che ogni mappa precederà sempre nel tempo il territorio, che nel momento in cui viene rappresentato è già di nuovo mutato secondo variabili casuali.
La mappa è il territorio, sostiene Bateson[27] . Nell’indagare i processi mentali che portano alla conoscenza, l’antropologo americano sostiene che costruire mappe è l’unico strumento che il ricercatore ha a disposizione per conoscere il territorio, per farsene un’idea per approssimazione. Essendo dunque l’unico oggetto conoscibile, la mappa coincide con il territorio.
Entriamo infatti nel campo dell’epistemologia e la mappa che il ricercatore produce non comunicherà mai il territorio in sé, quanto la relazione che instaura con esso, l’esperienza che ne fa e che sola può trasformarsi in conoscenza.
Ma cosa possiamo conoscere allora di un territorio?
Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?. Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza […]. [28]
Il ricercatore di fatto non può che procedere per negazioni, costruendo delle euristiche, ed annotando sulla sua mappa la distanza tra ciò che non è la realtà e ciò che potrebbe essere, rintracciando informazioni a partire dagli “errori”, dalle differenze e dai mutamenti.
[…] la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza, e la percezione della differenza è sempre limitata da una soglia. Le differenze troppo lievi o presentate troppo lentamente non sono percettibili: non offrono alimento alla percezione.[29]
Ecco perché affidarsi ai dati quantitativo-statistici della ricerca sociologica non può essere sufficiente, ma è invece necessario servirsi di dati qualitativi che meglio riescano ad individuare ciò che si osserva (consapevoli che non è la realtà) e a fornirci informazioni sull’orientamento delle azioni e sulle tendenze della realtà.
Alla base di una buona mappatura ci sarà dunque quella che Clifford Geertz definisce “descrizione densa” (thick description), una descrizione che procede per formulazioni teoriche orientate sul punto di vista degli attori, sul contesto dell’azione e non solo attenta ad una registrazione tassonomica di quell’azione (descrizione esigua)[30]. Una descrizione, dunque, capace di cogliere e poi rendere “[…] la differenza tra un tic ed un ammiccamento, che per quanto non fotografabile, è grande, come sa chiunque sia abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro.”. [31]
In questo modo il ricercatore, attraverso un’indagine etnografica, potrà costruire degli indicatori cultorologici (attraverso l’uso di dati secondari- statistici e di dati qualitativi) in grado di rilevare la dinamica delle azioni, il loro orientamento e trend di mutamento, che sarà poi punto di partenza, ma anche di arrivo dell’attività di progettazione. Le fasi della ricerca sono infatti immanenti e si susseguono in un processo ricorsivo che fa della ricerca/progettazione un percorso continuo di apprendimento.[32]
Entriamo allora nell’ulteriore questione che si trova ad affrontare chi fa progettazione sociale: ogni epistemologia è sempre personale, per tornare a Bateson, e la ricerca/progettazione non può prescindere dalla presenza di una gerarchia di valori che rende impossibile la neutralità ed inevitabile il pregiudizio.
Dunque non è insito solamente il rischio che la gestione del territorio sia in mano alle scelte di chi governa una città, ma anche che il processo conoscitivo, di per sé partecipativo, veicoli la visione soggettiva della realtà del ricercatore/progettatore, che renda egemone la mappatura proposta.
Fare progettazione ha sempre una valenza etica, nel senso che ha sempre a che fare, come presupposto e come obiettivo, con la distribuzione dei valori in una società. Fare progettazione sociale, poi, come già accennato, ha l’ulteriore compito di ridistribuire questi valori affinché si riduca il rischio di esclusione e di marginalità in quella società, affinché l’accesso alle risorse di un territorio e ai diritti sia equamente distribuito e le persone riacquistino la capacità di agire sul contesto in cui vivono.
Negli ultimi anni la progettazione partecipata viene generalmente considerata la via da seguire per scongiungere i rischi di costruire mappe egemoni, il modo in cui generare percorsi di democrazia “dal basso” e riattivare sentimenti di appartenenza a una comunità e a un territorio. La legge 328/00, e prima la legge 285/97, sono i principali strumenti normativi ideati proprio per capovolgere le dinamiche di Governance in funzione di una sussidiarietà orizzontale, capace di delegare la gestione del territorio attraverso la compartecipazione di più soggetti.
In particolare, si è cominciato ad usare tecniche di progettazione partecipata in relazione alla progettazione sociale (ad es. con la costruzione dei Piani di Zona), dove il coinvolgimento dei cittadini/utenti diventa innanzitutto valorizzazione del loro ruolo di attori di cambiamento e promotori di sviluppo di comunità.
In tal senso la progettazione partecipata diventa processo educativo, in cui tutti gli attori prendono, e sono parte, di un mutamento reciproco; suppone e genera un approccio interculturale, infatti, capace di cogliere la dinamicità del contesto e delle relazioni, di coltivare una prospettiva critica e dialogica, mettendola in pratica nella trasformazione della realtà. Ecco allora che la conoscenza diventa azione e torna ancora conoscenza in un continuum ricorsivo proprio di ogni processo di apprendimento.
Nella pratica e nelle realtà territoriali, però, la funzionalità di questo strumento si scontra con notevoli difficoltà e paradossi, di cui prima, in relazione al Tavolo Immigrazione, si è dato qualche accenno e che la presente ricerca si propone di indagare.
Attorno a un tavolo di progettazione si siederanno infatti persone e realtà portatrici di interessi specifici, più o meno forti: la pubblica amministrazione e le Istituzioni, la grande o piccola Associazione, il singolo cittadino, ed il rischio che l’effettiva partecipazione di tutti sia compromessa, sminuita o, ancor peggio, strumentalizzata è reale.
Fare progettazione partecipata significa fare un lavoro molto complesso di contrattazione e il progettatore, nel ruolo di mediatore ed animatore, non dovrà solamente suscitare la condivisione di informazioni, esigenze e percezioni tra gli attori interessati e coinvolti, ma condividere innanzitutto con loro la mappa, la visione del territorio e dei bisogni di chi lo abita.
Capitolo 2
La relazione tra la L. 328/2000 e il tavolo sulla immigrazione
2.1 I principi,i valori e gli strumenti della L.328/2000
La legge 8.11.2000 n. 328 svolge un’importante funzione nel riconoscere piena legittimità ai diritti sociali come diritti di cittadinanza; nel promuovere l’azione sociale a sistema integrato; nel prefigurare la costruzione di una rete di sicurezza e di protezione per cittadini e famiglie che si trovano in condizione di fragilità; nell’attribuire ruoli importanti a soggetti diversi, all’interno di una logica di forte integrazione e collaborazione.
Si tratta di una riforma profonda, che porta un sostanziale elemento d’innovazione tra le politiche sociali, tenendo altresì a favorire più alti livelli d’attenzione e d’innovazione, tanto nel merito dei problemi, quanto nei processi di programmazione e di progettazione.
La legge 328 del 2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali nasce in risposta ad un contesto di “ambigua crisi del Welfare”, ovvero un Welfare pieno di punti deboli: dal persistere di radicate forme di particolarismo e frammentazione non solo geografiche, alla delega alla famiglia (e al suo interno alla donna) del lavoro di cura; dalla prevalenza di politiche di trasferimento monetario di tipo assistenzialistico al carico finanziario sbilanciato sul lavoro dipendente; dal carattere residuale della spesa sociale rispetto ai giganti della sanità e delle pensioni al prevalere di forme di tutela per le categorie più garantite. La legge quadro 328/2000 rappresenta un’occasione non per abbattere ma per rilanciare e sburocratizzare il nostro Welfare; vuole dar voce all’azione dei cittadini e delle comunità, come attivi protagonisti nella costruzione del benessere individuale, familiare, collettivo. Con l’approvazione della legge 328/2000 viene così sancito il principio della democrazia partecipata come strumento chiave della progettazione ed attuazione delle politiche sociali.
La riforma, inoltre, sostiene che le politiche sociali devono accompagnarsi con quelle sanitarie, del lavoro, dell’istruzione, della casa e rivendica l’importanza costituzionale di un quadro omogeneo di diritti di cittadinanza.
Sul piano degli obiettivi, la 328 non si limita a tentare di prevenire, ridurre, eliminare le condizioni di disabilità, bisogno e disagio, ma ha l’ambizione di promuovere la qualità della vita, insieme alle pari opportunità, alla non discriminazione e ai diritti di cittadinanza, alla solidarietà sociale e alla valorizzazione delle iniziative solidaristiche.
Essa s’inscrive in una nuova tipologia di politiche che si possono definire promozionali e integrative, e non solo preventivo-assistenziali, e vuole concorrere al miglioramento della qualità della vita intervenendo su alcune dimensioni sostanziali del benessere e delle relazioni sociali.
La legge328/2000, infatti, è finalizzata ad un cambiamento delle politiche sociali con l’obiettivo principale della tutela globale della persona nella sua interezza, come condizione di benessere individuale e collettiva in tutte le dimensioni della vita umana: nelle persone, nelle famiglie, nelle comunità locali.
Tre sono i tratti essenziali che segnano la novità d’impostazione e la trasformazione operata dalla legge n. 328 e che non possono non essere esposti.
Il primo, riguarda lo stacco che la legge 328 ha fatto rispetto alla legislazione per categorie di soggetti o per settore d’interventi che era stata fino ad ora dominante. La legge ha mirato, infatti, a realizzare, com’è detto nel suo stesso titolo, un’integrazione dei servizi e degli interventi: un sistema integrato, che è integrato appunto perché è in funzione della realtà e dei bisogni di vita e di sviluppo delle singole persone nella concretezza delle condizioni di ambiente in cui si possono ritrovare.
Il secondo tratto da richiamare: la legge n. 328 nel delineare un sistema funzionalmente così integrato e finalizzato ha previsto poi una nuova e aggiornata distribuzione dei ruoli e delle responsabilità delle diverse istituzioni pubbliche: dallo Stato, alle Regioni, ai Comuni.
La legge 328 si è mossa in un rapporto di continuità con il quadro costituzionale e con quello legislativo esistente secondo uno schema di decentramento dei ruoli che dal ruolo statale di legislazione e di programmazione in sede nazionale sia delle prestazioni che delle risorse finanziarie discende verso il ruolo di programmazione e di coordinamento specifico sul territorio della Regione per poi concretizzarsi nel ruolo organizzativo e gestionale dei Comuni. Nello stesso tempo però la legge 328 ospita una prospettiva diversa, quella della sussidiarietà istituzionale secondo cui il sistema amministrativo pubblico andava riconsiderato e ricostruito dal basso verso l’alto come in un moto ascendente, partendo dalle istituzioni di base, dai Comuni per poi risalire alle istituzioni di livello superiore. È un sistema che, d’altronde, trova la sua ragione più profonda nell’intento di coniugare da un lato l’universalità e dall’altro l’individualità della persona stessa, da cui scaturisce quindi la duplice esigenza di una unitarietà di quadro e di sistema e insieme di differenziazione dei modi e delle forme di intervento.
Il terzo tratto di novità, di discontinuità segnato dalla legge 328, in un sistema così finalizzato e funzionalmente integrato è: l’aver coinvolto non solo soggetti pubblici ma la stessa società nel suo insieme, i singoli soggetti espressione della società, aventi come fine della loro attività il perseguimento degli stesi scopi di aiuto e di solidarietà per l’attuazione del diritto all’assistenza sociale.
La legge 328 è la prima norma che contiene, nel vivo e nel concreto della disciplina di un settore o di una materia d’intervento pubblico, un riconoscimento ampio e ripetuto del principio di sussidiarietà sociale come modalità ordinaria per la cura e il perseguimento di finalità d’interesse pubblico.
Nel disegno d’organizzazione sociale che si poggia sul principio di sussidiarietà, le istituzioni pubbliche e i soggetti privati, singoli associati, concorrono in modo attivo e responsabile a tali fini. Il ruolo dei soggetti privati che operano con finalità pubbliche o di interesse generale appare non ausiliario, ma costitutivo del sistema amministrativo, del sistema pubblico, al pari di quello delle istituzioni pubbliche in senso soggettivo. Sono le istituzioni pubbliche piuttosto a svolgere un ruolo sussidiario per quanto spetti a loro il coordinamento e la responsabilità ultima di governo del sistema stesso.
La legge vuole ridefinire il profilo globale delle politiche sociali, per superare il tradizionale concetto passivo e risarcitorio dell’assistenza e muovere verso un sistema di protezione sociale attiva, capace di offrire vere opportunità di autonomia e sviluppo ai cittadini che si vengono a trovare in stato di bisogno. La legge è finalizzata alla costruzione di un sistema integrato di servizi e prestazioni, che veda coinvolti soggetti istituzionali e della solidarietà, e caratterizzato da livelli essenziali di prestazioni, accessibili a tutti.
Il sistema integrato d’interventi e servizi sociali previsto dalla legge ha carattere di universalità, infatti, attua il principio che postula l’universale fruizione dei servizi alla persona da parte di chi si trova in stato di bisogno. È significativo che l’art. I della legge-quadro esiga che per << interventi e servizi sociali >> si intendano tutte quelle azioni volte a produrre o ad erogare servizi o prestazioni economiche destinate a rimuovere o superare le situazioni di bisogno e difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse quelle che devono essere assicurate dalle attività previdenziali, sanitarie e giudiziarie. Queste definizioni fatte proprie dalla legge-quadro inscrivono tra le attività d’attuazione dei compiti della Repubblica di rimozione degli ostacoli, i servizi alla persona volti alla rimozione di quegli ostacoli in particolare che sono le situazioni di bisogno e di difficoltà. Le norme della legge-quadro sono quindi apportatrici di un principio universalistico nel settore socio-assistenziale e costituiscono una traduzione di settore del principio d’eguaglianza formale e sostanziale.
Il testo legislativo presenta come principi fondamentali: l’integrazione, la cooperazione e la sussidiarietà.
L’integrazione si esprime a diversi livelli e ad ognuno di essi va affrontata:
1. integrazione istituzionale, che si basa sulla necessità di promuovere collaborazione fra istituzioni diverse, in particolare amministrazioni comunali, province, aziende sanitarie e terzo settore, i quali si organizzano per conseguire obiettivi comuni di programmazione sociale. Può avvalersi di un’ampia dotazione di strumenti giuridici a partire dall’Accordo di Programma e dalle convenzioni;
2. integrazione gestionale, che si colloca a livello di struttura operativa: in modo unitario nell’ambito e in modo specifico nei diversi servizi che lo compongono, individuando configurazioni organizzative e meccanismi di coordinamento atti a garantire l’efficace svolgimento delle attività, dei processi e delle prestazioni;
3. integrazione operativa – funzionale, che richiede: il lavorare per progetti, la capacità di incontro nel processo operativo di più operatori e di più professionalità, la capacità di condivisione, la conoscenza e il rispetto delle altrui competenze;
4. integrazione socio – sanitaria, che costituisce un preciso obiettivo prima della legge 229/99 e poi della legge 328.
La << cooperazione >> non è intesa come un auspicio, ma come un principio organizzativo da introdurre nell’ordinamento pubblico che comporta la non esclusiva e gelosa difesa delle proprie competenze da parte d’istituzioni e amministrazioni settoriali a favore della creazione di una rete interorganizzativa di più ampie proporzioni e complesse funzioni.
Il principio di sussidiarietà si distingue tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale. La prima forma, rafforzata dalla modifica del Titolo V della Costituzione, ricalca il concetto espresso dalla Carta Europea, art. 4: “L’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle autorità più vicine ai cittadini”, così che lo Stato riveste solo competenze d’indirizzo delle politiche sociali, mentre alle Regioni è demandato il ruolo di protagoniste, chiamate a svolgere compiti di programmazione, di promozione, d’indirizzo e di coordinamento. Invece, per sussidiarietà orizzontale s’intende il riconoscimento della parità fra soggetti pubblici e privati nell’esercizio della funzione di produzione d’interventi e servizi, sottolineando che anche ai soggetti del privato sociale e ai privati va identificato un ruolo attivo non solo nella realizzazione, ma anche nella progettazione concreta degli interventi; pertanto il principio di sussidiarietà orizzontale mira a favorire la pluralità di offerta di servizi, garantendo al cittadino il diritto dei scelta fra gli stessi servizi (art. 3).
La legge 328 per la realizzazione dell’integrazione degli interventi e dei servizi sociali propone il metodo della programmazione, dell’operatività per progetti, della verifica dei risultati in termini di qualità ed efficacia. Gli enti locali, le Regioni, lo Stato, devono provvedere, secondo le loro competenze, alla programmazione degli interventi secondo i principi di coordinamento ed integrazione, concertazione e cooperazione. Devono, inoltre, promuovere azioni per favorire la pluralità d’offerta dei servizi. Per quanto riguarda i riferimenti teorico–organizzativi si insiste sulla programmazione partecipata, la promozione dei diritti di cittadinanza, ma anche delle responsabilità, mentre si mantiene il bisogno come criterio di accesso ai servizi che forniscono specifiche prestazioni.
La legge-quadro gioca inoltre su una doppia tipologia di termini nella coppia “sistema-rete” e in quella “servizi-interventi”. Il concetto di sistema rimanda ad un principio d’ordine, sintesi, d’articolazione funzionale, mentre quello di rete allude ad una situazione di pluralismo, di differenziazione, di autonomia e di connessione delle parti. L’orientamento della legge è quello della costituzione di una macroorganizzazione unitaria articolata funzionalmente e gestionalmente, riconoscendo tuttavia un’autonomia alle parti costituenti. L’art. 3, infatti, specifica che i soggetti partecipanti concorrono alla programmazione secondo i due principi, che corrispondono a gradi di strutturazione organizzativa distinti: si parla di “coordinamento e integrazione” per i soggetti istituzionali primari (sanità, istruzione, formazione), mentre si parla di “concertazione e cooperazione”, ossia di partecipazione alla realizzazione della rete, sia per i rapporti tra i diversi livelli istituzionali (Comuni, Regioni, Stato), sia tra questi e i soggetti di terzo settore.
2.2 Il tavolo permanente sull’ immigrazione
L’idea di istituire il tavolo permanente sull’immigrazione affonda le sue radici in quanto annunciato dalla L. 328/2000. Quest’ultima infatti, ha previsto un sistema amministrativo di tipo decentrato, più agile e capace di rispondere in tempo reale ai bisogni sociali, espressi localmente, partendo dal fondamentale principio di sussidiarietà secondo cui le istituzioni politiche locali, più vicine ai cittadini, sono chiamate a rispondere in prima istanza alle domande politiche espresse dal territorio. Nonché l’obbligo per l’ente pubblico di uscire da una logica di governo esclusivo dei processi, per entrare in una nuova idea di governance locale, con l’aumento del numero dei soggetti coinvolti nella pianificazione e l’allargamento degli spazi operativi e quindi la nascita di un nuovo tavolo di progettazione. Ciò riguarda uno degli aspetti della “sussidiarietà orizzontale”, in altre parole la creazione di uno spazio politico entro il quale l’ente locale assume il ruolo di regolatore e garante dei servizi e contemporaneamente si sforza di potenziare le capacità propulsive degli altri attori (stakeholders) del privato sociale e “non” presenti sul territorio. Quest’ultimo offre l’opportunità di ripensare sul senso delle politiche sociali, dal loro oggetto che è anche i bisogni della quotidianità non solo i bisogni normativamente riconosciuti, al fine di recuperare nel processo di costruzione del Piano sociale, le opinioni e le attese dei cittadini. Il Piano di Zona, quindi, assume un ruolo strategico di sintesi della programmazione partecipata a scala locale, rappresenta un’occasione per potenziare a livello locale nuove forme di regolazione dello sviluppo locale che favoriscono la partecipazione e il consenso tra gli attori locali, per realizzare un sistema di welfare comunitario, valorizzando culture di tipo partecipativo e di concertazione, sviluppando l’alleanza tra istituzioni e cittadini, così da tradurre in realtà il processo di governance locale.
Il tavolo permanente sulla immigrazione nel XIII Municipio è stato istituito nel 2009 attraverso un protocollo d’intesa, che è stato siglato da diverse Organizzazioni Sindacali Territoriali (CGIL Roma Ovest, CISL Zona Litoranea, UIL Ovest, UGL Sei) e dal Municipio XIII di Roma Capitale. Tale accordo, risponde a quanto enunciato dalla L. 328/2000 all’art 1 ovvero “gli enti locali nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, operanti nel settore della programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Questo tavolo insieme ad altri sette tavoli tematici (di solito corrispondenti ciascuno ad un’area di intervento) sono stati creati, nell’ambito della programmazione degli interventi e dei servizi sociali al fine di predisporre il Piano Regolatore Sociale (frutto appunto di una programmazione partecipata).
Il tavolo attraverso l’attivazione di una rete di collaborazione tra vari soggetti pubblici e non, serve a:
- facilitare la comunicazione e l’integrazione tra i diversi soggetti operanti sul territorio;
- favorire la rilevazione dei bisogni emergenti;
- formulare proposte e collaborare alla costruzione della programmazione triennale del Piano di Zona.
Inoltre successivamente alla programmazione il Tavolo assume ulteriori compiti di monitoraggio e verifica dell’effettiva realizzazione delle azioni previste.
In particolare il Tavolo permanente sulla Immigrazione nel Municipio XIII è risultato necessario come occasione di approfondimento e confronto sul tema dell’immigrazione, nonché come opportunità per lo svolgimento di un’attenta analisi della condizione sociale e per la pianificazione di azioni ed interventi tesi all’integrazione sociale del territorio suddetto.
Il Tavolo sulla Immigrazione nel Municipio XIII ha prodotto:
- due progetti, che sono stati supportati dal Servizio Sociale, dalle Organizzazioni Sindacali e da due scuole, che avevano come obiettivo: la realizzazione di una rete con alcune scuole del territorio, la valorizzazione della collaborazione con le parrocchie coinvolte, il sostegno scolastico ed extrascolastico per minori immigrati extracomunitari e di seconda generazione, la creazione di uno spazio di confronto tra le scuole per la diffusione di un’educazione a favore dell’intercultura;
- Un Progetto Borse Lavoro dell’A.I.S.F. (rivolto anche a persone senza fissa dimora) con l’obiettivo di promuovere l’educazione al lavoro ed in particolare al lavoro regolarizzato; accompagnato dall’attivazione di un corso di abilità sociali, di tirocini lavorativi nel settore del commercio e di corsi per assistenti familiari regionali e comunali
- Sportelli itineranti di incontro nel territorio in collaborazione con sindacati e ASL, gestiti da un psicologo consulente per due ore alla settimana al fine di informare ed orientare cittadini stranieri, comunitari ed italiani su temi dell’immigrazione quali ad esempio il rinnovo del permesso di soggiorno.
- Un Progetto intitolato “Accanto agli immigrati e ai ROM”, gestito dal Municipio in collaborazione con i sindacati, attuato attraverso uno sportello immigrazione presso il segretariato sociale e una serie di incontri organizzati presso la scuola di italiano per stranieri Effathà e la Caritas, volto ad approfondire le tematiche inerenti l’immigrazione ed orientare le persone immigrate, che spesso trovano difficoltà nell’accedere ai servizi pubblici e si chiudono dentro le proprie reti culturali, nel contesto sociale di riferimento;
- La Pubblicazione del libro Dragan Rom di Roma e la realizzazione di un murales con i bimbi rom;
- Progetti per l’ integr-azione di giovani comunitari ed extracomunitari.
Ad oggi il lavoro del Tavolo interistituzionale relativo all’Immigrazione del Municipio XIII prosegue, in primis come antenna sociale volta a mappare tutti i bisogni, le fragilità ma anche le risorse che caratterizzano il suddetto territorio in tema di immigrazione e a seguito con la progettazione di interventi e servizi per l’inclusione degli stranieri immigrati. Il tutto attraverso un welfare society una struttura reticolare ed integrata dell’organizzazione dei servizi sociali in cui il comune “fa rete”, valorizzando le risorse della comunità locale, l’integrazione dei soggetti, il coordinamento delle risposte integrate ai bisogni sociali.
Capitolo 3
Gli stranieri immigrati nel tredicesimo Municipio
3.1 La presenza demografica delle comunità immigrate
nel Municipio XIII
Il Municipio XIII è situato a sud del centro storico di Roma e si affaccia verso il mar Tirreno. Questo ha un territorio vasto che si estende per 150,643 Km, infatti, è per estensione il terzo municipio romano dopo il XX e il XII. Mentre la popolazione è pari a 226.084 ed è una delle più basse del Comune di Roma, essendo il Municipio XIII costituito per gran parte della superficie del territorio dalla Riserva del Litorale.
Sul totale dei 226.084 abitanti iscritti presso il l’anagrafe del Municipio, 203.456 sono cittadini italiani, mentre il restante 22.628 sono persone di altre nazionalità. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione del XIII Municipio, sebbene influisca in modo forte sui nuovi iscritti in anagrafe, è pari al 10,3% ed è quindi relativamente bassa, se si considera la media dell’intero Comune di Roma ovvero il 12% corrispondente ad un totale di 345 mila stranieri.
Gli stranieri residenti nel Municipio XIII provengono per la maggior parte dall’Europa, a seguire dall’Asia, dall’Africa, ed infine dall’America, quasi per nulla dall’Oceania.
In particolare le dieci nazionalità straniere più presenti ad oggi nel XIII Municipio sono: Romania con circa 8.000 presenze, Polonia, Egitto, Srilanka, Ucraina, Filippine, Moldavia, Perù, Regno Unito, Albania. (vedi allegato n.1, pag. 28, “Annuario Statistico 2012 di Roma Capitale”).
A differenza della popolazione straniera romana quella presente presso il Municipio XIII è maggiormente maschile (sebbene le donne siano pari al 51% della popolazione straniera). Nello specifico gli uomini sono più numerosi delle donne in due fasce d’età: la prima che va da 0 a 20 anni e la seconda che parte da 55 anni a salire, mentre le donne sono numericamente superiori agli uomini nel target d’età compresa tra i 20 e i 55 anni (da notare l’aumento della popolazione straniera anziana nel territorio in oggetto).
Si tratta per la maggior parte di soggetti celibi/nubili, anche se il numero degli stranieri coniugati è maggiore rispetto al resto della città. Nel tredicesimo Municipio vi è, infatti, una popolazione straniera più tendente a sposarsi e a fare figli rispetto a Roma. D’altra parte quest’ultimo dato indica però di pari passo la presenza di una popolazione più soggetta all’instabilità familiare, problema che ha creato un’alta incidenza di donne madri sole con almeno due figli.
La popolazione straniera del Municipio XIII, come accennato, negli ultimi anni è diventata meno femminile che negli altri Municipi e questo ha comportato una diminuzione del contributo alla crescita naturale e quindi una riduzione del tasso di natalità.
Per quanto riguarda le iscrizioni all’anagrafe è possibile notare dai dati del Documento Sintetico del Tavolo Immigrazione che il boom delle iscrizioni secondo un excursus storico c’è stato nel 2003, per poi tornare a crescere negli anni 2007-2008; con un’iscrizione all’anagrafe sempre maggiore di femmine rispetto ai maschi.
L’attività delle donne straniere si concentra sul lavoro di cura femminile, si pensi alla figura della badante, così come nel terziario turistico e nel settore commerciale. Mentre quella degli uomini stranieri convoglia per la maggior parte nel settore operaio, commerciale e dei servizi.
3.2 I bisogni e le risorse degli stranieri immigrati presenti nel Municipio XIII
Gli stranieri presenti nel territorio del tredicesimo Municipio, in condizione di difficoltà, fanno principalmente riferimento al servizio della Caritas, di cui rappresentano l’utenza maggiore (circa il 90%) rispetto agli italiani. In particolare fondamentali risultano essere i CdA, ossia i centri di ascolto parrocchiali, realtà volte ad integrare quanto le istituzioni pubbliche fanno in favore delle persone bisognose di aiuto, nuove povertà di cui si avverte la presenza ma con cui nessun soggetto istituzionale entra facilmente in contatto.
I CdA presenti nel tredicesimo Municipio hanno una presenza prevalente di stranieri 66%, per la maggior parte di sesso femminile ed un’età compresa tra i trenta e i quaranta anni, la cui carriera di povertà ha avuto inizio a partire dalla perdita del lavoro. L’utenza straniera che si rivolge in modo più preponderante al servizio è di nazionalità rumena (44%), trattandosi d'altronde della prima nazionalità presente nel XIII Municipio. Mentre una nazionalità che, pur essendo numerosamente presente nel territorio in oggetto, non si rivolge ai servizi della Caritas è quella Polacca. Quest’ultima, infatti, è l’unica comunità che è riuscita a creare uno sportello in grado di dare informazioni di ordine giuridico, sociale e burocratico e culturale per tutte le esigenze di vita a tutti gli immigrati al fine di favorire l’integrazione nel tessuto sociale. Mentre, a seguire le altre nazionalità che si rivolgono maggiormente alla Caritas sono: la Moldavia, l’Ucraina, il Perù e lo Sri Lanka.
I soggetti stranieri che si rivolgono alla Caritas sono principalmente uomini, sui trent’anni, con un titolo di studio superiore a quello degli assistiti italiani (di solito di scuola superiore). Quest’ultimi presentano una maggiore vulnerabilità rispetto alle donne, che di solito hanno maggiori capacità di costruire reti di aiuto e solidarietà più articolate e durevoli, di resistere ad eventi traumatici fisici e psichici nonché di mettere in atto strategie di impiego del proprio capitale umano e formativo.
In generale le richieste presentate ai servizi della Caritas riguardano tre categorie di bisogni: 1) bisogno materiale ed emergenziale “vitto e alloggio”; 2) bisogni connessi alla necessità dell’utente di esercitare i propri diritti di cittadinanza ed integrazione socioculturale (richieste che tendono a ripresentarsi raramente nel tempo; 3) bisogni residuali che riguardano la sfera personale dell’utente come la necessità di un sostegno psicologico e relazionale, di ricostruzione del sistema familiare ed affettivo della persona in difficoltà. Nel caso degli utenti stranieri, supportati spesso esclusivamente dalle reti di auto sostegno della propria comunità, i bisogni presentati sono di tipo abitativo, alimentare e soprattutto di carattere linguistico. A questi si aggiunge l’esigenza di bisogni sanitari spesso legati più che altro alla difficoltà d’accesso della popolazione straniera al sistema sanitario. A tal proposito l’azienda ospedaliera della Regione Lazio prevede che i cittadini stranieri non in regola con le norme di ingresso e di soggiorno debbano rivolgersi agli ambulatori per stranieri (a disposizione per visite mediche generali, prescrizioni di farmaci e per ogni informazione sanitaria). Gli stranieri che non hanno diritto all’iscrizione al SSN, hanno comunque diritto alle prestazioni di assistenza e di medicina preventiva dopo il rilascio di un documento sanitario, chiamato tesserino STP per i cittadini extracomunitari e ENI per i cittadini comunitari.
Il tallone d’Achille per gli stranieri è soprattutto rappresentato dalla perdita del lavoro, legata alla fragilità nel mercato del lavoro connessa all’essere stranieri, che spesso porta ad un processo di progressivo cedimento strutturale della personalità che può sfociare in disturbi patologici come l’alcolismo e la depressione. L’immigrato presenta una particolar fragilità economica legata all’assenza di un’abitazione dignitosa e di un guadagnato adeguato, talvolta al vincolo della restituzione del debito contratto per il viaggio o alla necessità di inviare parte del guadagno al paese d’origine, per mantenere la famiglia.
Dai dati del Servizio informativo Sociale della Caritas si evince che gli stranieri registrati dai CdA sono per il 53% regolari. La maggior parte degli utenti stranieri sono trentenni, coniugati e vivono con altre persone parenti e non. (La famiglia di coloro che sono qui non accompagnati da parenti è quasi sempre all’estero e non in altra parte d’Italia). Un utente su dieci vive in strada, in auto, una bassissima percentuale vive in una casa con un affitto regolare, la maggioranza vive in alloggi con affitto scaduto o in stabili occupati abusivamente. In particolare si rammenda la presenza presso il territorio del tredicesimo Municipio della popolazione zingara di etnia Rom, Korakanè e Sinta per cui è stato istituito dal Servizio Sociale l’Ufficio Nomadi allo scopo di favorire l’integrazione.
Per quanto riguarda la situazione economica degli utenti stranieri dei CdA risulta che solo tre su dieci abbiano un reddito da lavoro derivante da contratti temporanei, mentre il resto dichiara di ricevere denaro da amici, famigliari o elemosine. Inoltre il 23% degli utenti è privo di qualsiasi forma di reddito, vive solo, in luoghi di fortuna e non ha lavoro.
La richiesta che prevale da parte degli utenti stranieri oltre l’ascolto è il lavoro, infatti, quest’ultimi senza differenza di status fanno della ricerca di lavoro una priorità da perseguire incessantemente.
Tra le risorse dei cittadini stranieri c’è senz’altro un ruolo fondamentale svolto dalla comunità interna di appartenenza, una rete utile, di grande supporto sia per il problema alloggio quanto per l’inserimento lavorativo degli stranieri che arrivano in Italia. Basti pensare alla comunità Bengalese o dello Sri Lanka, molto solida ed organizzata.
Inoltre i cittadini stranieri si caratterizzano, a differenza degli italiani, per un grande dinamismo e un’ampia capacità di adattamento al mondo del lavoro, come testimonia l’aumento negli ultimi quattro anni del fenomeno dell’imprenditoria immigrata.
Conclusioni
L’Italia, da paese di emigrazione, a partire dagli anni 90’ è diventata una terra di immigrazione, che ha accolto milioni di stranieri (nel 2011 risultavano 4.650.000 gli stranieri residenti). Negli ultimi dieci anni, nonostante la crisi economica, il bilancio migratorio in Italia è rimasto positivo, il flusso di immigrati maggiore si è registrato dai paesi dell’Est Europa (Romania ed Albania), seguiti da paesi dell’Europa non comunitaria (come Moldavia, Russia e Ucraina) e dal continente asiatico con l’India , il Bangladesh e il Pakistan.
Nello specifico i cinque gruppi più numerosi, che rappresentano in gran parte la presenza straniera in Italia sono: i romeni, i marocchini, gli albanesi, i cinesi e gli ucraini.
Il Comune di Roma, in particolare, è primo a livello nazionale per numero di immigrati: sono presenti 345 mila stranieri provenienti da 183 paesi.
Purtroppo, però, l’Italia pur essendo diventata una società multiculturale, è rimasta legata a normative e politiche in tema di immigrazione fortemente rigide. Basti pensare alla precarietà dei permessi di soggiorno, alla caotica burocrazia per l’accesso ai servizi ed ai rigidi e lunghi requisiti per l’acquisizione della cittadinanza, tutti ostacoli all’inclusione sociale delle persone straniere nella nostra nazione.
Una situazione, questa, paradossale in cui al principio di libera circolazione sostenuto dall’accordo di Schengen si riflette la rigidità della nostra normativa nazionale sul tema dell’immigrazione.
Dunque, bisogna curare l’inadeguatezza delle politiche sull’immigrazione che impediscono la realizzazione di percorsi di vera integrazione. Da un lato sarebbe necessario, adattare al contesto italiano politiche europee in materia di immigrazione che hanno dimostrato la loro validità, dall’altro lato agevolare l’accesso alla cittadinanza in modo da innescare un senso di appartenenza dello straniero.
Si prendano a modello paesi come la Danimarca e la Finlandia, che attraverso il programma sviluppo “Danimarca 2020” il primo e il provvedimento “Promozione dell’integrazione” il secondo, hanno dimostrato una particolare attenzione alla questione immigrazione, soprattutto di qualità.
Pertanto, l’approccio utilizzato nei confronti degli immigrati deve divenire organico e non può più essere prettamente emergenziale.
Si deve promuovere l’inclusione e puntare su un’immigrazione di qualità invece di limitarsi al contrasto dell’immigrazione irregolare; educare all’interculturalità e lavorare sull’integrazione.
Per concludere, l’Italia, per migliorare sul campo dell’integrazione degli immigrati, deve lavorare su tre strade da seguire a livello europeo, ossia:
- sviluppare canali di immigrazione regolare;
- predisporre strategie ed attività volte a migliorare le competenze degli immigrati andando così a scommettere sull’immigrazione di qualità;
- ideare e promuovere campagne di sensibilizzazione ed informazione così da fornire all’opinione pubblica un quadro rispondente della complessità del fenomeno migratorio evitando, nello stesso tempo, il diffondersi di comportamenti devianti (es. razzismo).
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