IRMAnet

Network di Alta Formazione


 

Master

Corsi

Pubblicazioni

Articoli

Istituto di Medicina del Soccorso


 

 
Ricerca nel sito:

 

 


 Nome Utente
 
 Password
 

 
Password dimenticata?

 

 



SOMMARIO

 

Introduzione: la legge 328 e il tavolo immigrazione.......................................

pag. 3

 

Cap. 1: Presupposti teorici della ricerca

1.1. Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi.....................................

1.2 Ciittadinanza e il nodo della rappresentanza.............................................

1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio.........................................

pag. 5

pag. 10

pag. 14

 

Cap. 2: Il diritto all'abitare

2.1 Introduzione: cosa significa abitare il territorio........................................

2.2 L'Istituzione: la realtà degli sfratti e i servizi di contrasto al disagio abitativo..........................................................................................................

2.3 Le diverse forme dell'abitare sul territorio dell'ex XIII Municipio........................................................................................................

2.3.1 Il fenomeno degli accampamenti...........................................................

2.3.2 Due realtà significative: il campo rom e il Vittorio occupato..........................................................................................................

2.3.3 L'house sharing dei migranti..................................................................

 

pag. 19

 

pag. 23

 

pag. 28

   pag. 29

 

   pag. 31

   pag. 36

 

Conclusioni.....................................................................................................

pag. 40

 

Bibliografia…………………………………………………………….........

pag. 43

 

 

 

 

Introduzione: la legge 328 e il tavolo immigrazione

La legge 8.11.2000 n. 328 svolge un’importante funzione nel riconoscere piena legittimità ai diritti sociali come diritti di cittadinanza; nel promuovere l’azione sociale a sistema integrato; nel prefigurare la costruzione di una rete di sicurezza e di protezione per cittadini e famiglie che si trovano in condizione di fragilità; nell’attribuire ruoli importanti a soggetti diversi, all’interno di una logica di forte integrazione e collaborazione.

Si tratta di una riforma profonda, che porta un sostanziale elemento d’innovazione tra le politiche sociali, tenendo altresì a favorire più alti livelli d’attenzione e d’innovazione, tanto nel merito dei problemi, quanto nei processi di programmazione e di progettazione.[1]

La legge 328 del 2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali nasce in risposta ad un contesto di “ambigua crisi del Welfare”, ovvero un Welfare pieno di punti deboli: dal persistere di radicate forme di particolarismo e frammentazione non solo geografiche, alla delega alla famiglia (e al suo interno alla donna) del lavoro di cura; dalla prevalenza di politiche di trasferimento monetario di tipo assistenzialistico al carico finanziario sbilanciato sul lavoro dipendente; dal carattere residuale della spesa sociale rispetto ai giganti della sanità e delle pensioni al prevalere di forme di tutela per le categorie più garantite. La legge quadro 328/2000 rappresenta un’occasione non per abbattere ma per rilanciare e sburocratizzare il nostro Welfare; vuole dar voce all’azione dei cittadini e delle comunità, come attivi protagonisti nella costruzione del benessere individuale, familiare, collettivo. Con l’approvazione della legge 328/2000 viene così sancito il principio della democrazia partecipata come strumento chiave della progettazione ed attuazione delle politiche sociali.[2]

 La riforma, inoltre, sostiene che le politiche sociali devono accompagnarsi con quelle sanitarie, del lavoro, dell’istruzione, della casa e rivendica l’importanza costituzionale di un quadro omogeneo di diritti di cittadinanza.

Sul piano degli obiettivi, la 328 non si limita a tentare di prevenire, ridurre, eliminare le condizioni di disabilità, bisogno e disagio, ma ha l’ambizione di promuovere la qualità della vita, insieme alle pari opportunità, alla non discriminazione e ai diritti di cittadinanza, alla solidarietà sociale e alla valorizzazione delle iniziative solidaristiche.

Essa s’inscrive in una nuova tipologia di politiche che si possono definire promozionali e integrative, e non solo preventivo-assistenziali, e vuole concorrere al miglioramento della qualità della vita intervenendo su alcune dimensioni sostanziali del benessere e delle relazioni sociali.[3]

La legge328/2000, infatti, è finalizzata ad un cambiamento delle politiche sociali con l’obiettivo principale della tutela globale della persona nella sua interezza, come condizione di benessere individuale e collettiva in tutte le dimensioni della vita umana: nelle persone, nelle famiglie, nelle comunità locali.

L’idea di istituire il tavolo permanente sull’immigrazione affonda le sue radici in quanto annunciato dalla L. 328/2000. Quest’ultima infatti, ha previsto un sistema amministrativo di tipo decentrato, più agile e capace di rispondere in tempo reale ai bisogni sociali, espressi localmente, partendo dal fondamentale principio di sussidiarietà secondo cui le istituzioni politiche locali, più vicine ai cittadini, sono chiamate a rispondere in prima istanza alle domande politiche espresse dal territorio. Nonché l’obbligo per l’ente pubblico di uscire da una logica di governo esclusivo dei processi, per entrare in una nuova idea di governance locale, con l’aumento del numero dei soggetti coinvolti nella pianificazione e l’allargamento degli spazi operativi e quindi la nascita di un nuovo tavolo di progettazione. Ciò riguarda uno degli aspetti della “sussidiarietà orizzontale”, in altre parole la creazione di uno spazio politico entro il quale l’ente locale assume il ruolo di regolatore e garante dei servizi e contemporaneamente si sforza di potenziare le capacità propulsive degli altri attori (stakeholders) del privato sociale e “non” presenti sul territorio. Quest’ultimo offre l’opportunità di ripensare sul senso delle politiche sociali, dal loro oggetto che è anche i bisogni della quotidianità non solo i bisogni normativamente riconosciuti, al fine di recuperare nel processo di costruzione del Piano sociale, le opinioni e le attese dei cittadini. Il Piano di Zona, quindi, assume un ruolo strategico di sintesi della programmazione partecipata a scala locale, rappresenta un’occasione per potenziare a livello locale nuove forme di regolazione dello sviluppo locale che favoriscono la partecipazione e il consenso tra gli attori locali, per realizzare un sistema di welfare comunitario, valorizzando culture di tipo partecipativo e di concertazione, sviluppando l’alleanza tra istituzioni e cittadini, così da tradurre in realtà il processo di governance locale.

 

 

 

CAPITOLO 1: Presupposti teorici della ricerca

 

1.1 Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi.

Il disegno della presente ricerca viene inquadrato all'interno del più vasto panorama teorico della letteratura riguardante la modernità, la postmodernità e la fase di passaggio dalla prima alla seconda che ha costituito il momento di svolta per l’intero panorama delle scienze sociali, costrette a confrontarsi con la realtà della società contemporanea.

L’antropologia culturale ha superato la categorizzazione bipolare società moderna occidentale / società semplice (o primitiva) extra-occidentale e la connessa distinzione culture complesse / culture tradizionali che era propria della sua fase evoluzionista. «Oggi i processi di acculturazione e in genere di mutamento sempre più profondo e rapido, le migrazioni, le mescolanze etniche e culturali su scala planetaria, le dinamiche socio-economiche con i loro corollari sul piano culturale, hanno tolto quasi del tutto ogni consistenza ai vecchi presupposti valutativi, che pretendevano sceverare […] culture semplici da culture complesse»[4]. Non si ragiona più in termini di categorie, che vengono per lo più superate (la religione è una delle pochissime superstiti) ma confrontandosi con l’individuo altro. Vincent Crapanzano descrive l’incontro etnografico come «una complessa contrattazione nella quale i partecipanti tacitamente concordano una realtà di riferimento. Questa realtà non appartiene […] a nessuna delle parti in causa»[5]. L’approccio di lavoro proposto e le teorizzazioni che ne deriveranno segneranno il passaggio dalla società complicata alla società complessa per quello che concerne gli studi antropologici.

L’odierna società postmoderna è complessa in quanto figlia di un sistema non di tipo causale, espressione della “modernità” imperniata sulla conoscenza oggettiva del mondo, bensì di tipo casuale che è imperniato su due fattori: l’imprevedibilità e la velocità dei cambiamenti sia sincronici che diacronici. «Le società complesse interessano quasi la totalità delle società esistenti»[6]  che si caratterizzano per la loro instabilità causata dalla presenza di un enorme numero di variabili che non sono né controllabili né prevedibili.

Finisce quindi la pretesa di dare un senso univoco e definitivo alla realtà che si definisce piuttosto in termini di differenza e molteplicità e in cui le differenze servono a determinare la propria diversità e, al contempo, la propria identità. Ne consegue che l’odierna società è molto frammentata anche a livello esistenziale, il che produce quello che Vattimo ha definito «complessivo effetto di “spaesamento” che accompagna il primo effetto di identificazione»[7] e si deve confrontare con la tendenza, di segno opposto, rappresentata dall’internalizzazione del consumo, delle informazioni e della produzione.

Nel libro “Antropologia come critica culturale”[8] gli antropologi Fisher e Marcus mostrano l’evoluzione dell’approccio utilizzato dalle discipline umanistiche e scienze sociali che producono lo sforzo di fornire le loro rappresentazioni partendo dall’interno e valorizzando le differenze e le diversità di fronte alla più ampia consapevolezza di una crescente omologazione del mondo.

Il linguista e antropologo americano Edward Sapir nella sua analisi antropologica evidenzia la contrapposizione tra culture che definisce genuine e quelle spurie. La cultura genuina è quella in cui vi è armonia tra i bisogni della società e quelli dei propri singoli membri e in cui «le attività principali di un individuo devono soddisfare direttamente i suoi impulsi creativi e emotivi»[9]. Viceversa la società spuria è potenzialmente efficiente dal punto di vista economico ma incapace di esprimere una cultura genuina rispondente in modo organico alle aspirazioni degli individui che hanno smarrito la “spiritualità” nel proprio agire.

Oggi risulta sempre più difficile riuscire a rilevare un nesso stabile e coerente tra bisogno e soddisfacimento dello stesso e l’incertezza che ne deriva distingue gran parte delle società contemporanee caratterizzate da rapporti di tipo spurio, ossia casuale, nelle relazioni “bisogno-soddisfacimento” e che, quindi, non sono più indagabili con gli strumenti tradizionali[10].

Questa nuova condizione della società viene analizzata nell’opera di Bauman “Modernità liquida”, termine che ha assunto valore di neologismo e indica «una concezione sociologica che considera l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile». 

La globalizzazione rompe i vincoli spazio-temporali, trasformando le relazioni economiche, sociali, produttive ed esistenziali ed inaugura l'avvento della società dei consumi, spazio virtualizzato in cui il luogo di produzione e di consumo non coincidono e in cui «capitale e conoscenza si sono entrambi emancipati dalla loro dimensione locale. La collocazione geografica dei loro possessori conta poco ora che il 90% delle transazioni finanziarie che producono ricchezza non è più vincolato al movimento delle merci materiali e ora che la circolazione delle informazioni avviene per lo più entro i confini del cyberspazio»[11]. Robertson ha coniato il termine “glocalizzazione” per sottolineare una peculiarità del  mondo contemporaneo nel quale la tendenza alla globalizzazione, del capitale e dell’informazione, agisce in modo correlato, e in evidente contraddizione, con la tendenza alla localizzazione in cui è arroccata la politica. Dunque «il potere, in quanto incarnazione della circolazione mondiale di capitali e informazioni, diventa sempre più extraterritoriale, mentre le istituzioni politiche esistenti continuano ad avere un carattere prettamente locale. Ciò porta inevitabilmente a una progressiva perdita di potere dello Stato nazionale che ha smesso di controllare i processi di integrazione sociale»[12]. Quest’ultimo compito, elemento distintivo e cardine dello Stato moderno, viene delegato ad altri soggetti che agiscono, spesso, potendo godere di larga autonomia e in qualche modo incontrollati.

            La postmodernità e la globalizzazione hanno innescato un processo di estraneazione dal territorio che è il principale responsabile della marginalità sociale. Il processo di marginalizzazione sociale ha perso la sua accezione culturale e non è più collegato all’occupazione bensì è diventato una condizione spontanea nella quale il lavoro non è più la discriminante di uno status sociale che, a sua volta, non è più collegabile in modo stringente al consumo. Se il reddito da lavoro non è più la garanzia di uno status sociale cala la fiducia nell’attività lavorativa, sempre più caratterizzata da precarietà e flessibilità, che diventa semplicemente uno dei tanti fattori (insieme al possesso o meno di una casa di proprietà, alla presenza o meno di forme di addebitamento come gli assegni di mantenimento per l’ex moglie, ecc..) che determinano la propria posizione nella società e le condizioni in cui poter vivere il territorio.

Analizziamo dunque il rapporto che intercorre tra status, lavoro e consumo per formulare delle considerazioni aggiuntive sulla dimensione dell’esclusione sociale. Prima dell’avvento della globalizzazione e della postmodernità il sistema si riproduceva grazie al ruolo centrale per la vita individuale e collettiva svolto dal lavoro in quella che, in epoca industriale, si definiva “società dei produttori”. Il passaggio alla “società dei consumi” e quindi l’avvento del consumatore ha condannato il lavoro a cedere la propria funzione di integrazione sociale al consumo sacrificando così la sua connotazione etica ed appropriandosi di una dimensione puramente estetica.

Il rischio insito nella società contemporanea, fa notare Bauman[13], non si limita alla produzione di forme di povertà classiche, quali l’indigenza economica e materiale o la sofferenza fisica, ma si moltiplicano anche situazioni di miseria dovute a condizioni sociali e psicologiche critiche. «Dietro la crescita del mercato e di burocrazie c’è un declino della comunità e di quel valore individuale del sé di cui la salute mentale non può fare a meno»[14]. Queste forme moderne di povertà ed emarginazione sono possibili effetti collaterali dell’incapacità di consumo che, nella società contemporanea, è considerata una grave colpa.

Oggi, maggiormente che nel passato, il rischio di esclusione sociale, ossia l’impossibilità materiale di poter usufruire delle risorse, è molto sviluppato e produce una marginalità urbana che assume forme diverse coinvolgendo differenti personalità: dall’immigrato irregolare al soggetto affetto da dipendenza, dal disoccupato al psichiatrico. Il processo di esclusione, che accelera nelle fasi di congiuntura economica negativa come quella attuale, e lo scollamento dal territorio, per effetto di processi di globalizzazione e dell’inadeguatezza delle istituzioni, rende i cittadini sostituibili e potenzialmente marginali. La marginalità è il riflesso della diseguaglianza sociale che, generalmente, è progressivamente aumentata negli ultimi decenni e che può essere letta come una degenerazione dovuta all’indebolimento dei valori e delle norme comuni.

Nella sua evoluzione la società ha quindi sacrificato, insieme al lavoro, l’obiettivo vitale dell’integrazione sociale per approdare ad una fase, senza ordine né ideologie, nella quale l’esistenza sociale perde la sua connotazione oggettiva. Secondo Giddens, che rifiuta il termine postmoderno e parla di profonda radicalizzazione nella modernità della società contemporanea, «il sapere gelosamente custodito è ora sostituito dal sapere degli esperti che dovrebbero fornire sempre maggiori certezze sul mondo, ma la stessa condizione di tale certezza, è il dubbio»[15]. Le certezze vengono dunque sostituite dal dubbio così come il rischio prende il posto della riproduzione dell’ordine. La paura e la percezione del pericolo in una realtà così complessa e virtualizzata ha sviluppi imprevedibili. Nella società contemporanea “l’altro” o “il diverso" (considerato il tema di questo testo possiamo far riferimento allo straniero) continua a rappresentare un rischio. Questa “visione” rappresenta un ostacolo nel percorso di integrazione sociale e, molte volte, genera forme di autoesclusione: il territorio perde la sua dimensione originaria, al suo interno si sviluppano molti confini immaginari al cui interno, più o meno volontariamente, ci si rifugia per un bisogno di sicurezza o di appartenenza come esiliati inconsapevoli.

Touraine, in questo panorama, denuncia «l’assenza del principio centrale di costruzione della vita sociale: l’utilità sociale, la razionalizzazione e la lotta di classe»[16] e, nell’affermare il fallimento del postmodernismo in funzione delle realtà sociali, aggiunge che «se accettiamo senza riserve il declino della politica non resterà che il mercato a regolare la vita collettiva»[17].

La società complessa sembra quindi aver cancellato molte certezze e punti di riferimento producendo un forte senso di smarrimento e un generale senso di insicurezza nelle persone. Il fenomeno della povertà e della marginalità va intesa dunque in un duplice aspetto: quello prettamente economico legato ai consumi e quello socio-psicologico legato a nuove forme di ansia e di paure collettive. La società contemporanea produce e riproduce situazioni di marginalità che si manifestano in termini di povertà economica, disoccupazione, abitazioni inadeguate, violenza, discriminazione etnica e sociale. Su questo scenario incide la perdita dei legami interpersonali, che rappresentavano una risorsa importante per contrastare questi fenomeni, e si intrecciano storie di uomini che vivono ai margini della società. L’”uomo marginale” per eccellenza «è lo straniero che rappresenta un uomo al margine di due culture e di due società, che non sono mai completamente compenetrate e fuse»[18]      

Alla luce di tutte queste considerazioni appare evidente l’importanza di una riconciliazione col territorio sia da parte delle istituzioni sia da parte della cosiddetta società civile per ristabilire i legami sociali. Infatti questa “distanza”, sviluppatasi in modo progressivo negli ultimi anni, nasconde numerose insidie, per le cause illustrate precedentemente, e rischia di accelerare il preoccupante fenomeno dell’esclusione sociale.

 

 

 

1.2 Ciittadinanza e il nodo della rappresentanza

L'assenza di confini certi del territorio e la suddetta distanza tra istituzioni e società civile apre un ragionamento complesso sul rapporto tra legittimazione, consenso e controllo sociale, in una relazione circolare e ricorsiva che spiega spesso la presenza o assenza di risposte a bisogni espressi o sommersi della popolazione che abita un determinato territorio.

La mancanza di confini definiti nella città contemporanea, l'assenza di centro e periferia, rende anche il concetto di cittadinanza sempre più fluido e sfuggente e dipendente dalle relazioni che si sviluppano all'interno della città, ovvero dalla possibilità di usufruire di servizi e di esercitare diritti (diritto alla casa, diritto agli spostamenti, diritto ad usufruire di servizi sociali e culturali).

La virtualizzazione progressiva della relazioni, iniziata già dagli anni '80, ci restituisce uno scenario dove sono gli stessi flussi comunicativi a cambiare le città e dove le categorie economiche governano gli spazi e le relazioni.

Benjamin[19] a tal proposito parla di “liberazione di uno sguardo” ovvero il venir meno dell'ordine degli sguardi nelle città contemporanee, a partire dagli anni ’80 con lo sviluppo di città multiculturali ed informatiche.

Lynch[20] a fine anni '80 individua come strumento di costruzione delle mappe urbane il vedere come la gente immagina la città. L'autore sostiene che le persone nei contesti urbani si orientano per mezzo di mappe mentali. Egli analizza tre città americane (Boston, Jersey City e Los Angeles) e guarda come le persone vi si orientano. Un concetto centrale è quello di leggibilità (anche chiamata figurabilità). Leggibilità esprime la misura in cui il paesaggio urbano può essere letto. Le persone che si muovono per la città ingaggiano un processo di individuazione del percorso. Hanno bisogno di essere in grado di riconoscere e organizzare degli elementi urbani in un modello coerente. Nel processo di individuazione del percorso, il collegamento strategico è l’immagine ambientale, l’immagine mentale generalizzata nel mondo fisico esterno che è posseduta da un individuo. Questa immagine è il prodotto sia di una sensazione immediata che il ricordo delle esperienze passate, ed è utilizzato per interpretare le informazioni e per orientare l’azione. L’illeggibilità della metropoli e l’intrico dei suoi elementi spaziali compromettono la percezione della città.

L’aumentata complessità spaziale sociale e culturale del tessuto urbano, a partire dal XX secolo, insieme alla velocità dei mezzi per attraversarlo ha sollevato parecchi problemi nuovi per la percezione.

 Lynch nota come risultino compromesse funzioni da sempre vitali per l’uomo, come l’identificazione dei luoghi, l’orientamento, la costruzione di una relazione individuo-spazio emotivamente sicura, la creazione di simboli comuni che legano il gruppo e permettono ai suoi membri di comunicare l’un l’altro.

In questa dimensione complessa, in cui ogni persona circola tra realtà differenti (contesto biografico, socio-politico, universo culturale, istituzioni, realtà quotidiana) si può generare quella che Farmer[21] definisce Violenza strutturale, ovvero la violenza come processo in cui le vittime occupano il posto più basso della scala sociale in società non egualitarie. Farmer invita ad analizzare i meccanismi sociali dell'oppressione che “sono tanto peccaminosi quanto apparentemente colpa di nessuno”.

La violenza strutturale è da lui definita come quella particolare violenza esercitata in modo indiretto, ovvero prodotta dall'organizzazione sociale stessa e dalle sue disuguaglianze e frutto di processi storici, politici ed economici. Tale violenza si esplica attraverso la limitazione della capacità di azione di soggetti che occupano la posizione più marginale in contesti segnati da profonde disuguaglianze sociali.

Anche Bauman facendo riferimento alla stratificata società dei consumi, dirà che «tutti noi siamo condannati ad una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere»[22].

Tale discorso è ancora più vero e drammatico se prendiamo in considerazione una delle categorie più marginali dei contesti urbani contemporanei, in particolare italiani e nello specifico del territorio di Roma che è oggetto di questa ricerca, ovvero l'immigrato.

Un’illustre studioso della condizione di sofferenza e ambiguità che caratterizza l’esperienza della migrazione “in generale” è Abdelmalek Sayad, il quale, considerato come “fondatore della scienza delle migrazioni”, ha ridefinito la condizione di ambiguità e ibridità a cui è costretto il migrante che, in quanto contemporaneamente immigrato ed emigrato, non è cittadino di pieno diritto né nella società di provenienza né in quella di approdo[23]; e così facendo ha ripreso il concetto di “erranza”  e rivisitato il fenomeno migratorio che la maggior parte delle scienze sociali è stata incapace di analizzare sotto il suo insito duplice profilo di immigrazione-emigrazione, soffermandosi solo sul primo lato della medaglia, in modo nettamente parziale ed etnocentrico. Oltre la  «questione apparentemente tecnica viene posto oggettivamente l'intero problema della legittimità dell'immigrazione, problema che tormenta tutti i discorsi di natura analoga. Non c'è pressoché alcun discorso sugli immigrati e sulla funzione dell'immigrazione, soprattutto quando è svolto esplicitamente e scientemente, come nel caso della "teoria economica dei costi e dei profitti comparati dell'immigrazione", che non consista ora nel legittimare ora nel denunciare l'illegittimità fondamentale dell'immigrazione»[24].

Bauman[25] è tra gli studiosi che hanno incentrato la propria riflessione sullo “straniero” come figura ambigua e “inclassificabile”, in quanto non compresa all’interno delle tradizionali opposizioni binarie tra amici- nemici (trasposizione a sua volta della dialettica tra interno- esterno), separazioni “asimmetriche”, dal momento in cui l’opposizione è il prodotto e la condizione del dominio narrativo degli amici e della narrativa degli amici come dominio. Lo straniero, invece, è portatore di una minaccia più pericolosa di quella del nemico, perché minaccia l’associazione stessa e, dato che l’opposizione è il fondamento su cui si basano la vita sociale e  le differenze che ne sono parte e la conservano, lo straniero mina le fondamenta della vita sociale stessa. E tutto questo perché lo straniero non è né un amico né un nemico: potrebbe essere entrambi. La sotto determinazione degli stranieri stessi è la loro potenza: poiché non sono niente essi potrebbero essere tutto. Essi mettono fine all’ordine del potere dell’opposizione. «Gli stranieri […] sono principalmente indefinibili. Sono quel “terzo elemento” che non ci dovrebbe essere. I veri ibridi, i mostri: non proprio inclassificati ma inclassificabili»[26].

Ne La società dell’incertezza Bauman associa la condizione generalizzata di incertezza che caratterizza l’assetto societario dal punto di vista strutturale, politico, economico, al carattere sempre più provvisorio che vanno assumendo le relazioni sociali e la stessa identità individuale, definita come “identità a palinsesto”[27], in quanto si configura come graduale assunzione di maschere sempre cangianti che ridefiniscono in modo fluttuante una personalità fragile e provvisoria, manifestazione più ovvia e immediata della nuova “libertà” che caratterizza la società postmoderna. Il principio di realtà su cui si fondava la società moderna viene, infatti, soppiantato dal principio del piacere e libertà, che si traduce però in un’assenza di punti di riferimento stabili su cui costruire i propri percorsi esistenziali ed identitari, e in corrispettiva nell’aumento dell’incertezza.

In questa condizione di precarietà, anonimato, solitudine del cittadino delle metropoli post-moderne, lo straniero diventa un essere trasparente, invisibile, privo di specificità particolari. Ed è proprio qui che si manifesta il suo carattere più ambivalente: se da un lato, infatti, lo straniero, al pari degli altri cittadini, recita nell’anonimato la sua parte “invisibile” di uomo alla ricerca di opportunità in cui esercitare la propria libertà, dall’altra diviene visibile e desta curiosità in quanto portatore di “differenza” e, quindi, esemplificazione di una possibilità reale di uscire dalla monotonia e di sperimentare forme di esistenza innovative e originali. Anche se, sottolinea Bauman, questa diversità è ambivalente essa stessa, in quanto sia risorsa, perché spinta al mutamento, che “condanna”, perché suscita un senso di minaccia e pericolo suscettibile di contaminare quel poco di certezza rimasta nella società, generando quindi sentimenti contrastanti di timore-curiosità, rifiuto-attrazione.

All'interno di queste dinamiche relazioni e di esercizio di potere e consenso, si sviluppa la cittadinanza.

Il nodo della rappresentanza indica il gap che si viene a creare tra cittadini/interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti. L'aspetto importante all'interno di queste dinamiche, infatti, non è tanto la rappresentanza, che indica un concetto generale, quanto il concetto operativo di  rilevanza di un attore sociale nei processi di partecipazione democratica, ovvero la sua capacità di avere peso nel policy making.

I rapporti di forza politici vengono rispecchiati nel triangolo che si crea tra legittimazione-consenso e controllo sociale. Se da un lato, infatti, l'istituzione legittima il cittadino, in corrispondenza questi darà il suo consenso all'istituzione stessa, che esercita così un controllo sociale sulla medesima popolazione. Da questa dialettica complessa si sviluppa poi la governance.

Il meccanismo della governance che comprende al suo interno diversi livelli (istituzioni, terzo settore) cerca di rimediare al gap tra cittadini e interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti.

Lavorare sulla costruzione di un’ “Integrazione civica” significa avviare un processo di socializzazione alla cittadinanza attraverso la partecipazione a forme di cittadinanza attiva e quindi alla presenza nei processi di policy making al fine di tutelare diritti, curare beni comuni e rafforzare soggetti in difficoltà.

 

1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio.

Nell’avviarsi alle conclusioni di questa parte introduttiva si rende necessario riprendere due concetti sopra espressi per analizzare il contesto in cui si trova a lavorare chi fa progettazione sociale in un territorio urbano.

Non solo, abbiamo detto, ci troviamo di fronte a un territorio sempre più “liquido”, i cui cambiamenti si susseguono rapidamente e in maniera imprevedibile, ma, a causa di un rapporto sempre più virtuale delle persone con il proprio territorio, è inoltre aumentato oggi il rischio di cadere nella marginalità sociale, di essere esclusi dalla comunità e di perdere la possibilità di agire sulla realtà.

In questo contesto allora, fare progettazione sociale significa operare per ridurre queste marginalità e per ridistribuire il rischio di cadervi, ma significa farlo in un territorio in costante mutamento, dove spazi e relazioni sono continuamente rinegoziati e dove ad agire sono inevitabilmente relazioni di potere e gerarchie di valore.

Progettare e gestire un territorio è infatti compito delle Istituzioni e rientra nel sistema di consenso da queste messo in atto, ne è riproduzione di fatto e si inserisce in quel triangolo ricorsivo, di cui si parlava sopra, che genera forme di controllo sociale. Attraverso l’erogazione di bandi e la realizzazione di progetti le Istituzioni offrono legittimazione e ottengono il consenso di quella parte di società civile che di volta in volta risulta come destinataria delle sue attenzioni.

        Progettare un territorio vuol dire agire politicamente su di esso ed inserirsi nelle dinamiche di delega e rappresentanza, consenso e legittimazione che caratterizzano le relazioni tra chi governa e chi abita una città.

Emerge, allora, la figura del progettatore sociale[28]come mediatore tra le istanze delle Istituzioni e quelle della società civile, impegnato a favorire l'incontro tra le prime e i bisogni dei cittadini, anche, o soprattutto, di quelli che, trovandosi in una condizione di marginalità tenderanno a non esprimere i propri bisogni, a lasciarli sommersi.

Presupposto della progettazione è dunque innanzitutto una conoscenza tanto del territorio e delle relazioni di forza che lo attraversano, quanto di quelle istanze che il progettatore si troverà a mediare.

 

Ma come fare a conoscere un territorio che abbiamo detto essere di per sé incerto e mutevole?

 

Una volta abbandonata, con il passaggio alla post-modernità, la pretesa di dare un significato univoco alla realtà, di considerare l’Universo come Uni –Verso[29], “l’epistemologia della certezza” ha lasciato il posto “all’epistemologia del dubbio”[30]. Ad essere messa in discussione è stata la conoscenza ontologica, ovvero la possibilità stessa di conoscere l’oggetto osservato, e l’idea conseguente che l’osservazione che si fa sia l’unica possibile.

 Il ricercatore non potrà mai conoscere il territorio allora, ma solo formularne una mappa, consapevole del fatto che la sua sarà solo una delle infinite possibili interpretazioni e rappresentazioni di quel territorio e che ogni mappa precederà sempre nel tempo il territorio, che nel momento in cui viene rappresentato è già di nuovo mutato secondo variabili casuali.

La mappa è il territorio, sostiene Bateson[31] . Nell’indagare i processi mentali che portano alla conoscenza, l’antropologo americano sostiene che costruire mappe è l’unico strumento che il ricercatore ha a disposizione per conoscere il territorio, per farsene un’idea per approssimazione. Essendo dunque l’unico oggetto conoscibile, la mappa coincide con il territorio.

Entriamo infatti nel campo dell’epistemologia e la mappa che il ricercatore produce non comunicherà mai il territorio in sé, quanto la relazione che instaura con esso, l’esperienza che ne fa e che sola può trasformarsi in conoscenza.

Ma cosa possiamo conoscere allora di un territorio?

 

Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?. Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza […]. [32]

 

Il ricercatore di fatto non può che procedere per negazioni, costruendo delle euristiche, ed annotando sulla sua mappa la distanza tra ciò che non è la realtà e ciò che potrebbe essere, rintracciando informazioni a partire dagli “errori”, dalle differenze e dai mutamenti.

 

[…] la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza, e la percezione della differenza è sempre limitata da una soglia. Le differenze troppo lievi o presentate troppo lentamente non sono percettibili: non offrono alimento alla percezione.[33]

 

Ecco perché affidarsi ai dati quantitativo-statistici della ricerca sociologica non può essere sufficiente, ma è invece necessario servirsi di dati qualitativi che meglio riescano ad individuare ciò che si osserva (consapevoli che non è la realtà) e a fornirci informazioni sull’orientamento delle azioni e sulle tendenze della realtà.

Alla base di una buona mappatura ci sarà dunque quella che Clifford Geertz definisce “descrizione densa” (thickdescription), una descrizione che procede per formulazioni teoriche orientate sul punto di vista degli attori, sul contesto dell’azione e non solo attenta ad una registrazione tassonomica di quell’azione (descrizione esigua)[34]. Una descrizione, dunque, capace di cogliere e poi rendere “[…] la differenza tra un tic ed un ammiccamento, che per quanto non fotografabile, è grande, come sa chiunque sia abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro.”. [35]

In questo modo il ricercatore, attraverso un’indagine etnografica, potrà costruire degli indicatori cultorologici (attraverso l’uso di dati secondari- statistici e di dati qualitativi) in grado di rilevare la dinamica delle azioni, il loro orientamento e trend di mutamento, che sarà poi punto di partenza, ma anche di arrivo dell’attività di progettazione. Le fasi della ricerca sono infatti immanenti e si susseguono  in un processo ricorsivo che fa della ricerca/progettazione un percorso continuo di apprendimento.[36]

 

Entriamo allora nell’ulteriore questione che si trova ad affrontare chi fa progettazione sociale: ogni epistemologia è sempre personale, per tornare a Bateson, e la ricerca/progettazione non può prescindere dalla presenza di una gerarchia di valori che rende impossibile la neutralità ed inevitabile il pregiudizio.

Dunque non è insito solamente il rischio che la gestione del territorio sia in mano alle scelte di chi governa una città, ma anche che il processo conoscitivo, di per sé partecipativo, veicoli la visione soggettiva della realtà del ricercatore/progettatore, che renda egemone la mappatura proposta.

Fare progettazione ha sempre una valenza etica, nel senso che ha sempre a che fare, come presupposto e come obiettivo, con la distribuzione dei valori in una società. Fare progettazione sociale, poi, come già accennato, ha l’ulteriore compito di ridistribuire questi valori affinché si riduca il rischio di esclusione e di marginalità in quella società, affinché l’accesso alle risorse di un territorio e ai diritti sia equamente distribuito e le persone riacquistino la capacità di agire sul contesto in cui vivono.

Negli ultimi anni la progettazione partecipata viene generalmente considerata la via da seguire per scongiungere i rischi di costruire mappe egemoni, il modo in cui generare percorsi di democrazia “dal basso” e riattivare sentimenti di appartenenza a una comunità e a un territorio. La legge 328/00, e prima la legge 285/97, sono i principali strumenti normativi ideati proprio per capovolgere le dinamiche di Governance in funzione di una sussidiarietà orizzontale, capace di delegare la gestione del territorio attraverso la compartecipazione di più soggetti.

In particolare, si è cominciato ad usare tecniche di progettazione partecipata in relazione alla progettazione sociale (ad es. con la costruzione dei Piani di Zona), dove il coinvolgimento dei cittadini/utenti diventa innanzitutto valorizzazione del loro ruolo di attori di cambiamento e promotori di sviluppo di comunità.

In tal senso la progettazione partecipata diventa processo educativo, in cui tutti gli attori prendono, e sono parte, di un mutamento reciproco; suppone e genera un approccio interculturale, infatti, capace di cogliere la dinamicità del contesto e delle relazioni, di coltivare una prospettiva critica e dialogica, mettendola in pratica nella trasformazione della realtà. Ecco allora che la conoscenza diventa azione e torna ancora conoscenza in un continuum ricorsivo proprio di ogni processo di apprendimento.

Nella pratica e nelle realtà territoriali, però, la funzionalità di questo strumento si scontra con notevoli difficoltà e paradossi, di cui prima, in relazione al Tavolo Immigrazione, si è dato qualche accenno e che la presente ricerca si propone di indagare.

Attorno a un tavolo di progettazione si siederanno infatti persone e realtà portatrici di interessi specifici, più o meno forti: la pubblica amministrazione e le Istituzioni, la grande o piccola Associazione, il singolo cittadino, ed il rischio che l’effettiva partecipazione di tutti sia compromessa, sminuita o, ancor peggio, strumentalizzata è reale.

Fare progettazione partecipata significa fare un lavoro molto complesso di contrattazione e il progettatore, nel ruolo di mediatore ed animatore, non dovrà solamente suscitare la condivisione di informazioni, esigenze e percezioni tra gli attori interessati e coinvolti, ma condividere innanzitutto con loro la mappa, la visione del territorio e dei bisogni di chi lo abita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 2: Il diritto all'abitare

 

2.1 Introduzione: cosa significa abitare il territorio

In questo capitolo ci concentreremo sulla tematica dell’abitare. Dopo alcune considerazioni introduttive sul significato del termine e del suo valore simbolico, facendo dei riferimenti storici sul territorio romano, daremo ampio spazio alla ricerca che abbiamo svolto sul campo e ai risultati che essa ha prodotto. Utilizzando il metodo deduttivo illustreremo da principio la dimensione più istituzionale del fenomeno, quella dei servizi offerti sul territorio ricostruendo dei parametri che, per la natura del tema, hanno una complessità di fondo e richiedono un’attenta lettura e pazienti comparazioni. In una seconda fase mostreremo le forme diverse e alternative dell’abitare che segnano e caratterizzano oggi il territorio dell’ex XIII Municipio dandone un’immagine molto variegata. Ci soffermeremo infine su alcune considerazioni legate alle politiche, al territorio, alle opportunità e alle prospettive di una realtà in continuo movimento.

Per interrogarsi sul significato dell’abitare è necessario partire dalla definizione di città.

Sobrero[37] analizza le teorizzazioni di alcuni antropologi sulle tre nozioni di densità urbana (demografica, sociale e culturale) riuscendo a superare il dualismo società semplici / società complesse. La società moderna si caratterizza per una produzione numerosa di ruoli che sono condizionati da regole e producono relazioni le quali, in un ambiente urbano, sono difficili da cogliere e quantificare. In questo contesto la città rappresenta un insediamento che assume il ruolo di mediazione di una rete di relazioni tra entità territoriali e istituzionali e in cui la sua struttura a “cellula aperta” è funzionale all’apertura verso l’esterno, a congiungere zona centrale e periferia e alla creazione di reti con altri insediamenti.

Si perde dunque l’opposizione spazio rurale e spazio urbano in quanto quest’ultimo ha smarrito i suoi confini geografici mentre i limiti simbolici che lo definivano nel passato non hanno più alcun senso. Lo spazio urbano diventa la sede della società urbana che si riconosce sulla base della cultura urbana espressa da valori, norme e rapporti sociali accomunati da determinate specificità storiche e proprie logiche di organizzazione e trasformazione. L’elemento culturale come traino dell’ambiente urbano viene spiegata da Wirth nella sua ricerca sul ghetto ebraico quando giunge alla conclusione che «le diverse aree che compongono la comunità urbana attraggono quel tipo di popolazione la cui posizione economica e la cui tradizione culturale sono maggiormente adatte alle caratteristiche fisiche e sociali che si trovano in ciascuna di esse»[38].

               La parola “abitare” deriva dal latino “habeo” che significa “continuare ad avere” il che denota un carattere di consuetudine che proietta il soggetto dell’abitare in un tempo cronologicamente lungo, potenzialmente di carattere permanente. In termini linguistici è immediato il raffronto con il verbo “risiedere”, legato alla residenza, (tematica che affronteremo in seguito), traducibile in “sedersi temporaneamente in un luogo”, che fa riferimento, viceversa, ad un tempo limitato.

Zutt dà una significazione antropologica dell’abitare che va oltre il possedimento materiale di un’abitazione bensì consiste nell’«essere in uno spazio personale adatto alla propria profonda natura»[39]. Il filosofo tedesco Bauen rivela la stretta connessione tra i concetti “costruire” ed “abitare”, che riflette la dinamicità di quest’ultimo, mentre Heidegger si spinge oltre e mette in stretta relazione “abitare” ed “essere”: l’essenza dell’uomo è quella dell’abitante, l’abitare è il modo in cui siamo sulla terra e, nel suo essere, l’uomo è vincolato non solo alla sua presenza nello spazio ma al possesso di uno spazio vitale.

La storia ci ha insegnato che l’abitare non ha avuto sempre una connotazione di fissità e stabilità e ancora oggi esistono eccezioni a questo assunto. E’ il caso delle popolazioni nomadi o semi-nomadi, come di certe etnie rom che praticano il nomadismo e si arrangiano con abitazioni che possono trasportare o con “baracche” pensate per avere una durata limitata. Le tipologie abitative sono quindi numerose e la loro scelta è spesso dettata da fattori diversi, che si aggiungono a quello imprescindibile della sussistenza.

In questo senso è essenziale rifarsi alla prospettiva “soggettiva”[40] per comprendere l’agire delle persone, in particolare di coloro che emigrano nel nostro paese e sono portatori di culture, modelli, forme di pensiero diverse dalle nostre e da cui vengono orientate anche in termini di bisogni e desideri. Proprio questi due ultimi aspetti, insieme al fattore comportamentale, sono l’oggetto di indagine della prospettiva “soggettiva” che si realizza tramite uno studio psicologico e sociale. Difatti, in riferimento al rapporto tra persona e ambiente (inteso come agglomerato urbano o semplice abitazione), questo metodo di lavoro non può prescindere dalla componente “aspirazioni” che incide sull’organizzazione dello spazio in un quadro generale nel quale ogni soggetto mira alla liberazione, intesa come libertà di scelta e di azione.

Il concetto di abitazione si lega in modo imprescindibile a quello di famiglia. Chombart de Lawue[41] arriva a far corrispondere l’unità spaziale (l’abitazione) a quella sociale (la famiglia). Precisiamo che esistono diverse forme di famiglia: si passa da quella più comune, la famiglia coniugale o ristretta, a quella allargata a parenti e amici fino alla cosiddetta comunità familiare formata da più famiglie coniugali imparentate tra loro. Dunque lo studio sull’abitazione può seguire la prospettiva oggettiva che pone l’oggetto, l’abitazione, in relazione con l’abitato e l’insieme delle strutture sociali o affidarsi alla prospettiva soggettiva che tende a compiere una lettura sulla vita sociale dall’interno analizzando i comportamenti e le relazioni che intercorrono tra i componenti della famiglia.

            Nella società dei consumi in cui viviamo la casa rappresenta uno dei beni più importanti ma la sua funzione non si esaurisce col suo "consumo".

La casa rappresenta un bisogno che non è solamente materiale ma ha una valenza simbolica estremamente importante perché fornisce un orizzonte culturale nel quale la persona può riscoprire e riconoscere i valori che l’hanno guidata nel passato. Il bisogno abitativo ci accompagna fin da piccoli, quando l’abitazione rappresenta il riferimento di un ambiente spaziale delimitato e personalizzato in cui si svolge l’esistenza, e matura nel tempo facendo emergere un bisogno di auto-rappresentazione che, nella società contemporanea, risulta sempre più cruciale. Le esperienze abitative delle persone acquisiscono un senso non solo in quanto memoria storica ma anche nei termini di costruzione dell’identità.

Queste considerazioni dimostrano il dinamismo dell’immagine dell’abitazione e costringono gli antropologi dello spazio abitativo a superare l’impostazione descrittiva per analizzare la casa e la funzione abitativa nella sua accezione più profonda. Ciò può consentirci di comprendere meglio la complessità della società contemporanea che è tale per la ricchezza di simbolismi che derivano dal modo in cui l’uomo vive lo spazio che lo circonda, modellandolo e organizzandolo, comunicando con gli altri attraverso codici complessi che andrebbero indagati a livello urbano e abitativo: è il passaggio dall’antropologia dell’abitazione all'antropologia della percezione dello spazio abitativo auspicato dall'antropologa Lucilla Rami Ceci nel testo “La città, la casa, il valore”.

Tali premesse ci permettono di affermare che la conoscenza dell'altro passa anche per il suo processo di evoluzione del bisogno abitativo che va studiato e che richiama tre concetti importanti: solidità, certezza, continuità.

Nel passato lo status delle classi elevate era rilevato dall’abitazione mentre «oggi il processo di differenziazione non è innescato dal possesso o meno di uno o più beni bensì dal sistemi dei beni per come si combinano nei progetti esistenziali individuali e degli schemi simbolici di riferimento di ognuno»[42]

           Prima di addentrarci nella mappatura del XIII Municipio in relazione alla dimensione abitativa compiuta con la ricerca sul campo compiamo un brevissimo excursus storico della città di Roma in funzione del processo urbanistico.

Nella capitale è mancato per diversi secoli un centro che fosse ben definito e facilmente localizzabile finché nel XX secolo sono state aperte le grandi arterie che riversandosi sul nucleo storico hanno avviato un processo di centralizzazione, in netta controtendenza rispetto a quello delle altre capitali europee. Questa fu una delle conseguenze del piano fascista di risanamento che si concretizzò con demolizioni integrali che svuotarono alcuni quartieri popolari con le loro baracche e le case fatiscenti per far posto all’espansione dei quartieri signorili. Gli abitanti, spesso in modo coatto, si trovarono costretti ad emigrare fuori dalla città: è l'avvento delle borgate e la prima a nascere fu quella di Acilia. Le borgate si distinguevano dai vecchi quartieri per il carattere di improvvisazione sia dal punto di vista edilizio, le case erano costruite con grande rapidità, utilizzando materiali che non garantivano una buona solidità, sia per la mancanza di un’organizzazione che permettesse uno sviluppo organico. Tutto ciò si accompagnava all’assenza totale di una pianificazione urbanistica.

Tale piano di risanamento promosso dal regime fascista non ha peraltro prodotto gli effetti annunciati se pensiamo che le statistiche ufficiali del ’68 parlano di 62.351 persone che vivono nei 57 baraccamenti periferici[43] registrando un trend in aumento rispetto alla situazione di 10 anni prima. La cifra sarebbe inoltre sottostimata visto che si calcola che tra il ’68 e il ’70 i baraccati avessero raggiunto quota 70.000.

Il fenomeno dell’abusivismo a Roma non si esaurisce con i baraccamenti, anzi, il dato più inquietante è quello relativo alle case abusive presenti sul territorio capitolino che sfiora il 20% e dove, alla fine degli anni ’70, vivevano più di 400.000 persone. I quartieri completamente abusivi (come l’agglomerazione di Acque Rosse) e le vaste aree di lottizzazioni abusive (63 ettari tra Acilia e Dragona), senza contare gli abusi sparsi, riflettono una realtà di illegalità diffusa e di sfruttamento (la grave assenza di una pianificazione urbanistica) che incide negativamente sul processo di integrazione e sulle forme di radicamento territoriale. Tutto questo grava sulle spalle della società civile e in particolare danneggia le fasce più deboli della popolazione.

«Cento ani fa si soffocò Roma costruendo tutto intorno al nucleo antico, distruggendo le grandi ville; oggi si continua a soffocarla costruendo la mostruosa ininterrotta periferia della speculazione e dell’abusivismo»[44]

 

2.2 L'Istituzione: la realtà degli sfratti e i servizi di contrasto al disagio abitativo          

            Andiamo ora ad approfondire il ruolo delle istituzioni nel panorama odierno dell'ex XIII Municipio per quel che concerne le questioni direttamente o indirettamente legate alle situazioni di emergenza abitativa. Verificheremo i tipi di intervento previsti per supportare le fasce più deboli della popolazione, sia di quelli di prevenzione che quelli in emergenza, le soluzioni predisposte al fine di evitare l'acutizzarsi di forme di marginalità urbana facendo delle considerazioni finali sui dati a nostra disposizione.

I primi risultati del 2011 raccolti dall'Istat su scala nazionale mostrano che in Italia vi sono più di 73 mila famiglie che risiedono in altri tipi di alloggio (ad esempio, baracche, roulotte, tende eccetera). Il rapporto di incidenza rispetto alle abitazioni occupate da residenti è nella media nazionale pari al 3,1 per mille, oscillando dal massimo di 3,5 per mille nell’Italia centrale al minimo di 2,6 per mille nell’Italia nordorientale. Il fenomeno ha subito nel corso del decennio un notevole incremento: gli altri tipi di alloggio occupati da residenti erano 23.336 nel 2001 e sono risultati essere 73.550 nel 2011[45]

            Basandoci sul rapporto del Dossier Statistico 2011[46] diamo un primo sguardo generale al territorio per come viene raccontato dai dati ufficiali.

Oltre 1/3 degli immigrati vive in condizioni di disagio abitativo che si accentua nelle grandi aree metropolitane come Roma dove sono costretti a soluzioni abitative marginali (occupazioni, campi nomadi..). A dispetto del 72% delle famiglie italiane solo il 23% degli stranieri alloggia in case di proprietà, quasi il 60% paga l’affitto e per la restante parte si tratta di alloggi a uso gratuito o usufrutto, concesso molte volte dal datore di lavoro. Ragioniamo inoltre in un contesto, quello romano, in cui i costi abitativi pesano fortemente sulle finanze degli immigrati: i canoni di affitto sono sempre più alti e costituiscono un onere finanziario elevato, anche in rapporto al livello medio degli stipendi, mentre le restrizioni creditizie effettuate dalle banche rendono difficile l’accesso al mutuo.

 

            Il servizio sociale dell'ex XIII Municipio, situato a via dei Passeroni, si suddivide in due livelli che, a loro volta, si strutturano in diverse aree di intervento. Per quel che concerne la questione alloggiativa, che affrontiamo in questo capitolo, il servizio sociale di primo livello ha il mandato per l'emergenza abitativa, in seguito alla delibera 163/97 che prevede un fondo ad hoc, e si attiva per trovare risoluzioni alle situazioni già compromesse nelle quali è necessario un intervento immediato. Gli utenti sono tutti quei cittadini residenti nel Municipio che, a causa della loro condizione di senza fissa dimora o di disagio economico, richiedono l'inserimento presso centri di accoglienza notturni o un aiuto di natura economica.

Già da alcuni anni il Servizio sociale, d'intesa con Associazioni che operano sul territorio Municipale, offre un servizio di accoglienza, durante le ore notturne, e per far fronte alle avverse condizioni climatiche, dal 1° dicembre al 15 marzo, si predispone un ampliamento di tale servizio  per l'intera durata della cosiddetta "Emergenza Freddo".

            Una delle realtà più drammatiche dell'emergenza abitativa è rappresentata dalla dimensione degli sfratti: sono sempre di più infatti le persone che non sono in grado di pagare l'affitto e devono lasciare l'appartamento per insolvenza nei confronti dei proprietari che fanno valere i propri diritti. La crisi e la perdita del lavoro sono i responsabili di una situazione che negli ultimi anni è andata peggiorando e le segnalazioni all'Ufficio Sfratti della Questura di Ostia sono aumentate notevolmente[47]. Coloro che si trovano nell'impossibilità di ottemperare al pagamento del canone di locazione sono sia italiani che stranieri e nel complesso si registra un'elevata incidenza di nuclei familiari, spesso con minori.

La segnalazione dell'avvenuto sfratto può pervenire al Servizio Sociale da varie fonti: Tribunale, Polizia Municipale, gli stessi ex inquilini che hanno subito comunicazione di sfratto, da un avvocato o da altri fonti formali o informali. La prima segnalazione dovrebbe arrivare al primo livello in quanto lo sfratto rappresenta un'emergenza e successivamente la comunicazione dovrebbe passare “internamente” tra il primo al secondo livello.

Teoricamente l'intervento del II livello, che ha un carattere specialistico, viene richiesto quando la particolare situazione di disagio è già conosciuta sul territorio da altri soggetti (carabinieri, associazioni..) o comunque dal I livello. A volte però può accadere che alcuni assistenti sociali del II livello ricevano comunicazione direttamente perché si stanno occupando, ad esempio, di un nucleo su cui hanno un mandato e il loro compito diventa quello di trovare le giuste strategie per contenere le situazioni di disagio "facendo rete" e coinvolgendo anche l'Ufficio Politiche Abitative del Comune di Roma.

Per evitare lo sfratto, agendo di anticipo, il servizio sociale di I livello stanzia dei fondi a coloro che, rientrando in determinati parametri prestabiliti, non sono in condizione di pagare l'affitto, in modo tale da evitare che incorrano in questa procedura. Facciamo riferimento al contributo straordinario per far fronte agli arretrati, che ha una durata media di 2-3 mesi, e al buono per l’affitto che consiste in media a 200 euro al mese per l’anno interessato (che di norma arrivano l’anno successivo) e a cui si accede ogni anno per graduatoria tramite bando comunale.

Una volta che il Tribunale ha emesso una sentenza di sfratto esecutivo il Servizio Sociale si trova a fronteggiare una situazione di emergenza e deve valutare con attenzione caso per caso. In circostanze particolari, ovvero in presenza di minori, è possibile ottenere una proroga agendo in rete con l'ufficio politiche abitative e/o tramite un lavoro di mediazione che vede coinvolti uffici giudiziari, avvocati e proprietari della casa.

Coloro che hanno già subito uno sfratto esecutivo hanno l’opportunità, rivolgendosi ai Servizi Sociali, di richiedere un aiuto. In primis riportiamo le forme di contributo economico a cui possono accedere, nello specifico:        

·         un sussidio straordinario della somma di tre mensilità sulla base di un nuovo contratto per far fronte alle spese di caparra e del primo mese.

·         un contributo per l'assistenza alloggiativa chiamato “contributo di sostegno al canone” stabilito dalla delibera 163 del '97. Le domande pervenute vengono esaminate da una commissione istituita ad hoc e, in caso di esito positivo, vengono erogati contributi mensili per un massimo di 4 anni.

Per ottenere e continuare a riscuotere tale contributo è necessario, come detto, essere in possesso del verbale di sfratto esecutivo o di sgombero e del nuovo contratto di locazione e rientrare in una soglia di reddito che non può essere superata, calcolata sulla base del numero di componenti del nucleo familiare. A quel punto spetta al Servizio sociale accogliere le richieste e  individuare il contributo per il singolo in funzione della disponibilità di bilancio. Il contributo può essere sospeso qualora non vengano presentate le fatture di pagamento del canone richieste ogni due mesi o per avvenuto incremento reddituale superiore al 10% del reddito di partenza.

Analizziamo ora la situazione dei contributi per l'anno in corso soffermandoci sulla dimensione degli immigrati stranieri. Nell'anno in corso sono stati erogati contributi a 53 persone (che solitamente fanno riferimento ad altrettanti nuclei), di cui il 62% sono italiani (33 persone) e il 38% stranieri (20 persone); sul totale 5 hanno raggiunto il periodo massimo di 4 anni mentre 8 di loro (6 italiani e 2 stranieri) sono incorsi nella procedura di sospensione. La media dei versamenti è di circa 700 euro a persona a bimestre (nucleo), ossia 350 euro al mese che corrisponde al 50% dell'importo totale del canone d'affitto.

Compariamo questi dati con quelli relativi ai due anni precedenti (2011 e 2012), in cui ritroviamo molte persone inserite nell'elenco del 2013, avendo il contributo durata di 4 anni, e proviamo a delineare un trend. La percentuale degli stranieri che ha goduto del sovvenzionamento sul totale delle richieste accolte si attesta nel 2011 e ne 2012 a un livello leggermente inferiore, rispettivamente al 34% e al 35%, rispetto al livello raggiunto nel 2013 (38%). La media del contributo è aumentata nel corso degli anni in linea con il crescere dei canoni d'affitto: 656 euro nel 2011, 664 nel 2012 e, come abbiamo visto, 694 nel 2013.

Dovendo contenere le spese per evitare di incorrere in disavanzi di bilancio si prevede che nell'immediato futuro i fondi a disposizione di questo servizio non copriranno oltre la cinquantina di persone, come è accaduto negli ultimi 3 anni.

Tale sistema di sostegno economico è stato pensato per coloro che si trovavano, per la perdita di lavoro o altro, in una condizione di temporanea indigenza e potessero con un aiuto da parte delle istituzioni a rimettersi in piedi e tornare autonomi. “Il rischio”, ci spiega la dott.ssa Trova dell'Ufficio Minori e contrasto alla povertà, “è che si inneschi un circolo vizioso piuttosto che virtuoso” in quanto, soprattutto in un momento di crisi diffusa economica e lavorativa come quella attuale, questo tipo di sostegno può assumere la forma di puro assistenzialismo se le persone si adagiano confidando nel sostegno dello stato, ritrovandosi così in un circuito dal quale, a volte, non riescono o non vogliono più uscire. 

La crescita costante dell'emergenza casa è affrontata in modo centralizzato dal Dipartimento Politiche Abitative che non presenta sedi distaccate ed autonome nei vari municipi. Le sue funzioni principali sono: l'acquisto e la costruzione di alloggi di Erp e di housing sociale e le attività connesse alla gestione dei Residence.

I bandi di assegnazione delle case popolari sono due: il primo risale a 10 anni fa ed è stato sospeso, anche se la graduatoria è ancora attiva, perché assegnava il massimo del punteggio (10 punti) a coloro che avevano subito uno sfratto senza andare ad indagare altri elementi, il che ha prodotto un numero elevatissimo di aventi titolo all'alloggio popolare senza che ci fossero sufficienti strutture per assorbire tale richiesta. Nel 2012 è così uscito un nuovo bando che differenzia maggiormente il punteggio sulla base, oltre che dello sfratto, anche di altri fattori: il tipo di sfratto, esecutivo o meno, la presenza di disabili, anziani, ecc., e che produrrà un'altra graduatoria attesa per novembre 2013. A quel punto le case popolari verranno assegnate basandosi sugli iscritti ad entrambe le graduatorie, in modo alternato.

La gestione integrata del patrimonio immobiliare dell'edilizia residenziale pubblica della capitale è stata affidata alla Romeo Gestioni insieme all'azienda Territoriale per l'Edilizia Residenziale Pubblica (ATER). Per motivi di tutela della privacy non possiamo ottenere informazioni sul fenomeno delle case popolari in rapporto alla presenza straniera.

Marco Noli, assistente sociale dei Servizi Sociali di I livello, ci spiega che ”salvo rari casi di assegnazione di nuovi complessi di case popolari, le politiche abitative assegnano, ufficialmente secondo graduatoria, gli “ alloggi di risulta”: appartamenti che nel tempo si liberano di norma per il decesso del precedente inquilino e non vengono subito “occupati” da altri. Ad oggi per chi occupa senza assegnazione scatta la denuncia ma normalmente davanti al giudice, diversi mesi dopo, dimostrando di aver agito in “stato di necessità” il procedimento si blocca e spesso accorre in aiuto la sanatoria che viene riproposta ogni 5-7 anni”.

L'altra opportunità che si intendeva offrire a chi fosse in situazione di disagio alloggiativo in seguito ad uno sfratto (anche se non si erano raggiunti i 10 punti) è quella dei residence. Uno schema riepilogativo fornitoci dai Servizi Sociali del XIII ci da un'immagine complessiva della situazione attuale e del recente passato.    

I residence sparsi per tutto il territorio romano sono 19 e 8 di questi sono stati presi in locazione dalla Domus Caritate (ex Arciconfraternita) che, in convenzione col Dipartimento del Comune,  gestisce molti Residence strutturati in monolocali che accolgono principalmente mamme coi bambini.     

Nel corso degli anni a partire dal 2005 i numeri di nuclei familiari accolti presso queste strutture raggiunge quota 1308 a cui si aggiungono 231 individui singoli, tutti rifugiati politici. Tutte queste persone provenivano da situazioni di disagio abitativo di diversa natura: molti sono coloro che hanno subito sgomberi da strutture crollate, inagibili o in cui vivevano irregolarmente in seguito ad occupazioni (strutture pubbliche o alberghiere private), altri stavano per strada, c'è chi aveva subito uno sfratto, chi pernottava in centri di accoglienza o era stato trasferito da un altro residence. Mantenendo l'attenzione sul territorio dell’ex XIII ci accorgiamo che sono state accolte in questi residence numerose persone e nuclei sgomberati dalla pineta di Castel Fusano, dall'Idroscalo (principalmente a seguito dell'allagamento del 2008), e si contano anche alcuni nuclei nomadi sgomberati da campi rom non autorizzati sparsi sul territorio.

Purtroppo la mancanza di una statistica sulle nazionalità non ci permette di fare considerazioni ulteriori sul grado in cui questa forma abitativa coinvolga le comunità immigrate.

I residence nascono come strutture temporanee e la loro gestione doveva essere funzionale ad un successivo trasferimento presso le case popolari o all’abbandono per avvenuta risoluzione delle problematiche economiche. Con il protrarsi dei tempi e l'allungarsi delle graduatorie delle case popolari, i residence hanno acquisito man mano un carattere permanente ed è mancato il ricambio necessario per rispondere alle crescenti esigenze delle persone in situazione di disagio abitativo.

Anche alla luce dei costi elevati del servizio “residence” (dai 2000 ai 3000 euro mensili per nucleo familiare) la Giunta Marino sta valutando di eliminarli e creare un fondo che permetta di concedere dai 500 ai 700 euro alle famiglie come contributo per l'affitto.

 

2.3 Le diverse forme dell'abitare sul territorio dell'ex XIII Municipio

            In questo paragrafo andiamo ad analizzare le forme alternative dell'abitare che vengono praticate dagli immigrati le quali a volte sfuggono alle statistiche ufficiali e ciò si verifica talvolta perché la presenza di queste persone sul territorio è irregolare e in altri casi perché non hanno un contratto di locazione registrato. Costoro non hanno diritto ad ottenere la residenza che è il requisito richiesto per accedere ad alcuni dei servizi di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo. In questo senso si può parlare di "invisibili" che vivono quotidianamente il territorio, modificandolo, senza però che la loro presenza venga riconosciuta.

Ci sono diverse realtà abitative difficili da indagare proprio per le caratteristiche dell'alloggio dal momento che questo non figura nei canoni standard riconosciuti dalle istituzioni; facciamo riferimento agli affitti in nero senza regolare contratto, alle occupazioni di locali pubblici e privati senza autorizzazione, agli accampamenti abusivi e alle situazioni di sovraffollamento di alcuni appartamenti "multifamiliari".

In questa ricerca non riusciremo a dare un'immagine esaustiva di questo fenomeno che richiede tempi e risorse consistenti ma tenteremo comunque di fornire degli incipit e riportare dei casi significativi di un territorio complesso e in continuo mutamento come quello dell'ex XIII Municipio che possano risultare utili per successivi approfondimenti.

 

2.3.1 Il fenomeno degli accampamenti

            Nel territorio dell'ex XIII Municipio sono presenti numerosi insediamenti abusivi che vengono regolarmente monitorati dal Nucleo assistenza emarginati (Nae) che si occupa di contrastare il disagio sociale tutelando e sostenendo le fasce più deboli della popolazione. Rispetto al tema da noi trattato sottolineiamo il loro lavoro di prevenzione, controllo e di intervento nelle situazioni di emergenza rivolto ai senza fissa dimora, ai rom dei campi nomadi e ai minori che sono oggetto di violenza o vivono in situazioni d'abbandono. Il Nae svolge la sua attività di prevenzione insieme al Servizio Sociale, alle Associazioni di Volontariato e ai Comitati di Quartiere; inoltre collabora con le Forze dell'Ordine per contrastare lo sfruttamento degli immigrati e le violazioni degli obblighi scolastici.

Con il termine "insediamenti abusivi" facciamo riferimento a determinate aree in cui sono state costruite con materiali di fortuna delle baracche o sono state montate delle tende che costituiscono l'abitazione di singoli individui o nuclei familiari con minori.

            Ci soffermiamo ad esaminare i dati relativi a queste realtà abitative basandoci sul numero di presenze, distinte per sesso, nazionalità ed età (minorenni/maggiorenni) relative all'anno 2012 fornitoci dai rapporti stilati/redatti dal Nae per far emergere alcune peculiarità di tale fenomeno e il suo trend evolutivo nel corso dell'anno.

            L'area municipale dell'ex XIII[48] è molto vasta, misura 15.064 ettari, e una componente rilevante è costituita dalla Riserva del Litorale che comprende il Parco del Litorale romano e il Parco urbano Pineta di Castelfusano. Consultando l’Annuario Statistico[49] stilato da Roma Capitale riferito al 31 dicembre 2011 la comunità rumena conta 4.254 presenze sul territorio dell’ex XIII su un totale di 12.457 stranieri e costituisce quindi oltre un terzo del volume migratorio. Sottolineiamo come queste statistiche rimandano ai cittadini stranieri regolarmente iscritti in anagrafe e quindi non colgono la dimensione reale che comprende anche tutte le persone che soggiornano in modo irregolare sul territorio, spesso in condizioni di disagio e marginalità.

Ci sono 14 insediamenti abusivi principali, sparsi tra Ostia, Acilia, Infernetto e Casal Palocco, nei quali si registra una presenza costante di persone nell'arco dell'intero anno seppur in quantità variabile. Da maggio si evidenzia un incremento significativo del numero di accampamenti che raggiunge quota 38 nel mese di agosto per poi calare gradualmente fino a dicembre.

Questo trend di diffusione sul territorio si accompagna ad un incremento di uomini e donne accampati che, se fino ad aprile si attesta intorno alle 110 unità totali, cresce durante l'estate raggiungendo le 148 unità nel mese di agosto. Il dato si sgonfia nei mesi successivi e a dicembre 2012, in coincidenza con l'Emergenza Freddo, viene raggiunto la quota minima dell'anno: 59 persone.

            Tra gli insediamenti che registrano il maggior numero totale di presenze primeggia il Borghetto dei Pescatori con 28 persone tra italiani e rumeni. Qui si concentra anche il maggior numero di minori (11) che scompaiono dalle statistiche a settembre spesso a seguito dell'avvenuta segnalazione da parte del Nae e della conseguente presa in carico da parte di strutture idonee. La Pineta di Castelfusano è un altro degli insediamenti principali in cui convivono nelle baracche italiani, polacchi, rumeni e ucraini. Dall'inizio dell'anno fino a settembre erano in 25, tra uomini e donne, poi sono rimasti solo in 6. Altri insediamenti sono quelli di: Via dell'Idroscalo, Via delle Cave, la Pineta di Castel Porziano, Via Ostiense, Ostia Antica. Accenniamo poi alla presenza di un accampamento rilevante numericamente all'interno del parco delle Acque Rosse che non è censito nel rapporto Nae ma dove interviene la Caritas con Don Franco per aiutare gli abitanti di questa bidonville distribuendo loro cibo e coperte.

            I rumeni sono la comunità più rappresentativa di questa dimensione abitativa, dato che in parte si spiega con l'elevata presenza sul territorio rispetto a tutte le altre comunità.  Anche il numero di insediamenti in cui sono dislocati è molto alto visto che, nel corso dell'anno, variano dagli 8 agli 11 mentre polacchi, ucraini e italiani si concentrano in 2, massimo 3 zone di accampamento.

La comunità albanese, che registra una presenza rilevante, dimostra una buona propensione all'unità infatti leggendo i numeri si nota come fino a giugno si stabilizzino nell'area vicino a via dei Gezi per poi spostarsi insieme per tutta la durata dell'estate presso la Pineta Procopi.

Il dott. Carlo di Rienzo del Nae delinea per sommi capi questa fetta di popolazione che vive in condizioni di marginalità senza una fissa dimora: "sono in generale rumeni che vengono in Italia per lavorare ma non possono pagare un affitto o sono nuclei familiari che non si vogliono dividere nei diversi centri della Sala Operativa Sociale, per cui rispondono all'emergenza alloggiativa utilizzando le baracche". I nuclei, una volta individuati dal Nae, vengono segnalati e sostenuti dalle associazioni presenti sul territorio, che si occupano di soddisfare i bisogni primari (cibo, vestiti, salute).

Da quanto descritto fin qui la forma abitativa degli accampamenti abusivi appare prerogativa quasi esclusiva degli immigrati dall'Europa dell'Est. A fare eccezione, oltre a qualche italiano, si rileva la presenza sporadica di alcuni marocchini per il periodo estivo e i casi isolati di 1 bengalese e di 1 iraniano. E' significativo non aver incontrato dalle ricognizioni del Nae nel corso dell'intero anno esponenti di comunità molto presenti sul territorio come quella srilankese, quella polacca e, eccezione a parte, quella bengalese. 

 

2.3.2 Due realtà significative: il campo rom e il Vittorio occupato

            Nel corso del nostro lavoro di ricerca sulla popolazione immigrata e sulle diverse forme di abitare una delle esperienze più interessanti e formative è stata senz'altro la visita la campo rom di viale Ortolani 263 ad Acilia. Si tratta di uno dei due campi rom autorizzati (l'autorizzazione risale al '94 per delibera della Giunta Rutelli) insieme a quello dei Sinti giostrai di via di Saponara, nel quartiere San Giorgio, dove vive una piccola comunità composta da alcuni nuclei familiari che alloggiano in roulotte e abitazioni monoblocco e si sostengono economicamente gestendo le giostre presso il parco pubblico o lavorando nei traslochi, trasporto materiali..

            Arriviamo al crepuscolo e siamo accolti da Mihaela, la compagna di Dragan, capofamiglia e leader del campo, che è il protagonista del libro "Storia di Dragan - Rom di Roma"[50] finanziato dall'ex XIII Municipio nell'ambito del Piano Sociale Municipale.

Ad attenderci insieme a Mihaela ci sono alcuni dei tanti bambini che vivono nel campo e che riescono subito ad attirare la nostra attenzione con la loro simpatia, il loro dinamismo e la loro spiccata autonomia nel giocare e nel rapportarsi con noi. Uno di loro è figlio di Dragan mentre altri tre sono nipoti che Mihaela ha avuto in affidamento dal Tribunale Civile. Seduti intorno ad un tavolo con sedie improvvisate Mihaela, un po' imbarazzata, ci racconta la storia del campo, i rapporti instaurati con gli altri cittadini del quartiere, risponde alle nostre domande e parla di timori e prospettive future.

I suoi figli e quelli delle poche altre famiglie rimaste a vivere nel campo frequentano le due scuole del quartiere che raggiungono con un pulmino in convenzione col municipio. Mihaela è consapevole dell'importanza di dare un'istruzione a questi bambini e si dichiara soddisfatta del livello di integrazione raggiunto con gli abitanti del quartiere e con gli altri genitori italiani che, racconta, portano i loro figli al campo per farli giocare e studiare insieme. Nel 2008 è stato costruito un locale adibito a biblioteca per iniziativa dell'assistente sociale Mario Amendola e di altri volontari e sono state organizzate varie feste ed iniziative grazie all'impegno di diverse associazioni, tra cui la Domus Caritate (ex Arciconfraternita) che si è occupata di aiutare i bambini con i compiti di scuola. Mihaela ricorda inoltre con piacere il lavoro che hanno svolto volontariamente per bonificare l'area ai lati del viadotto Zelia Nuttal che era stato a lungo utilizzata come discarica. Proprio da quel viadotto sono stati lanciati, qualche giorno prima della nostra visita, sassi e massi contro le baracche, un episodio di intolleranza che preoccupa e rivela i limiti di una convivenza ancora difficile tra culture diverse.

            In Italia gran parte della popolazione rom è stanziale e le famiglie vivono in contesti abitativi diversi: case popolari, case di proprietà o in affitto, in campi nomadi, autorizzati o abusivi, costituiti da roulotte, tende, baracche o container. Nella scelta del posto in cui fermarsi la comunità rom tende sempre a privilegiare l'unità familiare, intesa come famiglia estesa, mantenendo una certa distanza dalle altre comunità, con le dovute eccezioni.

            Mihaela ci accompagna all'interno della sua dimora, una baracca con pareti di legno e il tetto di lamiera. E' stata ampliata nel tempo ed è la più grande del campo come vuole una consuetudine rom secondo cui le figure più importanti del gruppo familiare debbano vivere nella casa più grande e più centrale del campo. Mentre i bambini preparano gli zaini per la scuola del giorno dopo attraversiamo la cucina dove è posizionata una stufa a legno, arriviamo nel salone trasformato nella zona notte dei bimbi, un piccolo corridoio ci conduce ad altre due stanze ed un bagno. Se da un lato la struttura della baracca trasmette un senso di precarietà dall'altro l'interno della casa è accogliente, si presenta ordinato e ammobiliato con cura.

La storia e la quotidianità del campo rom di viale Ortolani parla di un'integrazione possibile, di uno spazio in cui usi e costumi diversi diventano occasione di confronto e di una volontà di essere riconosciute da parte di queste famiglie che riescono a mettere in discussioni i pregiudizi e luoghi comuni che accompagnano la popolazione rom da molto tempo.

 

            La pratica delle occupazioni è una realtà in forte espansione e che ha un impatto considerevole sull'organizzazione sociale. Il fenomeno si è sviluppato considerevolmente in gran parte della capitale grazie a ragazzi e ragazze della società civile che si sono organizzati e hanno dato vita a movimenti per la casa come "Action - diritti in movimento" che si battono per il diritto all'abitare.

Occupare palazzi vuoti ed edifici abbandonati può essere la soluzione all'emergenza casa? 

Da un lato si solleva la questione legalità che pone le Istituzioni nelle condizioni, in alcuni casi, di dover procedere con gli sgomberi dei locali occupati, dall'altro i movimenti pongono la questione diritti e cercano di sovvertire la logica occupanti illegali proponendo delle soluzioni alternative che non trovano riscontro sui libri del codice civile ma richiederebbero un confronto serio.

Rimandiamo il discorso complesso delle occupazioni e l'evolversi del movimento di lotta per la casa a futuri approfondimenti per soffermarci su uno dei casi più conosciuti di occupazione nel territorio del XIII Municipio: il Vittorio occupato

L'ex colonia marina Vittorio Emanuele III, nota a Ostia come il "Vittorio occupato" (vedi foto pag.36), è stata costruita sul lungomare Paolo Toscanelli nel 1916 e ampliata nel 1925 per far fronte ad un’emergenza tubercolosi. Al 1932 risale l’inaugurazione ufficiale della struttura che venne parzialmente distrutta nel 1943 dai tedeschi. Solo nei primi anni ’50 venne ricostruita e adibita a collegio per ospitare i figli delle famiglie indigenti romane, fino al 1983. Attualmente l’intero comprensorio comprende un dormitorio che ospita numerosi stranieri che hanno occupato l'intero stabile; vicino alla struttura c’è la mensa della Caritas, la biblioteca Elsa Morante e il teatro del Lido.

Il Vittorio è stato occupato tra il 1999 e il 2000 dopo lunghe lotte e forte tensioni che hanno visto la mobilitazione della società civile e di alcune associazioni, Sciacazulo in prima fila, perché la struttura restasse sede dedicata a realtà sociali. Al tempo era quasi abbandonata fino all’ingresso di profughi eritrei ed etiopi che precedentemente vivevano accampati in un campeggio. Al momento della ristrutturazione Sciacazulo si è impegnato a gestire il posto come un centro di prima accoglienza ma col tempo la permanenza ha assunto un carattere di continuità. Accanto al Vittorio Occupato c’era un altro edificio, anch’esso vuoto e inutilizzato, che una volta occupato venne sgomberato dopo pochi mesi.

            Per tentare di comprendere la vita all’interno del Vittorio occupato mantenendo un approccio antropologico decidiamo come gruppo di ricerca di visitare la struttura accompagnati da un ragazzo che da molti anni vive lì e, successivamente, ponendo delle domande in un incontro informale ad un altro ragazzo della Costa d’Avorio che ha vissuto per 10 anni nel Vittorio occupato. Testimonianze di soggetti istituzionali parlano di “nuclei che sfuggono” riferendosi agli occupanti quindi cerchiamo di comprendere meglio questa definizione con la nostra indagine.  

Nei primi anni di occupazione il Vittorio era una realtà molto organizzata e aperta verso l’esterno. C’era un’aula riservata a riunioni con cadenza settimanale che venivano programmate dall’associazione Sciacazulo e che registravano una larga partecipazione da parte degli immigrati e in cui si stabilivano le iniziative e le problematiche da affrontare insieme. Veniva fornito agli immigrati in modo gratuito il servizio legale, grazie ad alcuni avvocati che volontariamente si impegnavano a sbrigare le pratiche per i documenti, e un servizio di formazione linguistica grazie al professore volontario Mario che da sempre si è occupato di alfabetizzare i ragazzi del Vittorio. Gli spazi erano ben suddivisi infatti c’era quello adibito a cucina dove le varie comunità si alternavano nella preparazione dei pasti e lo spazio lavanderia dove 4 lavatrici erano a disposizione di tutti.

La partecipazione a questa realtà era considerevole: per la scuola di italiano l’affluenza era molto alta e arrivavano molti immigrati anche da Roma, inoltre sia italiani che stranieri partecipavano numerosi ogni domenica alle cene africane in cui si mangiavano i cibi tipici, si tenevano concerti e si ballava fino a tardi: erano numerose le occasioni di socializzazione tra le comunità straniere.

Col tempo però l'attenzione nei confronti del Vittorio occupato è calata gradualmente, alcune associazioni si sono defilate e il processo di integrazione si è arrestato. "La visibilità che avevamo nel 2002 si è persa" spiega Abu, e i rapporti con i residenti italiani e tra le diverse comunità che convivono all'interno del Vittorio occupato sono diventati sempre più sporadici: "oggi ognuno pensa per sè". Anche la semplice pianificazione della quotidianità è stata compromessa: la cucina è stata abbandonata per l'incuria prolungata, la mancanza di pulizia e di manutenzione, diventando l’ennesima stanza dove dormire; le lavatrici si sono rotte tutte e si è tornati a lavare i panni a mano. I numerosi servizi e le iniziative promosse all'interno della struttura sono scomparse ad eccezione della scuola d'italiano grazie all'impegno e alla costanza del professor Mario. 

Quando arriviamo al Vittorio ci attende un ragazzo ivoriano che ci guida all'interno del centro. Partiamo dall'aula dedicata alle lezioni di lingua al pianterreno e saliamo delle scale impervie in fila indiana raggiungendo l'ultimo piano dove, sul terrazzo, ci fermiamo a parlare circondati da panni stesi ad asciugare. La sensazione comune è quella di un totale abbandono e si percepisce nettamente un senso di provvisorietà. Nei diversi livelli sono distribuite quasi un centinaio di stanze, generalmente di piccole dimensioni, dove vivono all'incirca 300 persone, metà delle quali di origine asiatica e per metà africane. Le nazionalità più rappresentative sono, per il continente asiatico, i pakistani, da sempre i più numerosi, seguiti dai bengalesi che sono  in costante aumento, specie negli ultimi anni, mentre il continente africano registra una presenza più variegata: Costa d'Avorio, Mali, Niger e paesi del Nord Africa (Egitto, Tunisia, Marocco). Alla massiccia presenza di africani ed asiatici si aggiungono tre italiani (una coppia ed un uomo) ed una famiglia rom. In larga maggioranza gli occupanti del Vittorio sono uomini immigrati che scappano dai loro paesi per sfuggire a condizioni di estrema povertà o di pericolo, alla ricerca di un lavoro e spesso lasciandosi indietro una moglie e dei figli, ma si contano anche alcuni nuclei familiari composti da minori, tra cui bambini piccoli. L'obiettivo di molti è quello di lavorare per mandare le rimesse ai familiari rimasti in patria o sperare, in un futuro, di portarli in Italia o in un altro paese Europeo

Rispetto alla loro condizione giuridica Abu ci spiega che la situazione degli africani è in genere più complicata rispetto a quella degli asiatici e in particolare dei bengalesi i quali possono contare su una rete comunitaria estesa ed efficiente che li supporta nell'ottenimento del visto lavorativo: "loro sono quasi tutti regolari". Tra gli africani che dimorano al Vittorio ci sono numerosi irregolari e molti sono anche i richiedenti asilo in attesa del riconoscimento che, secondo la legge italiana, non possono avere un contratto di lavoro per i primi sei mesi a partire dalla data in cui hanno formulato la richiesta di protezione internazionale.

Nei quasi 10 anni trascorsi al Vittorio occupato Abu ha visto passare per quelle mura centinaia di immigrati e sottolinea quanto sia elevato l'indice di ricambio, specialmente in riferimento agli africani che appena possono, in genere quando ottengono il permesso di soggiorno, partono per la Francia, la destinazione preferita da molti, o per un altro paese europeo lasciando un posto vacante che viene immediatamente occupato da un altro connazionale o conoscente. Secondo il nostro interlocutore questo bisogno di lasciare l'Italia per un altro paese, l'incapacità di investire idealmente nel nostro paese deriva da un doppio problema: il lavoro, che a causa della crisi è diminuito sensibilmente e che impedisce di radicarsi realmente sul territorio, e il razzismo ancora dilagante, come dimostrano le sue parole "dopo 10 anni è fastidioso.. dovrei sentirmi a casa ma per il modo in cui mi guarda negli occhi la gente mi fa continuamente ricordare da dove vengo".

Foto: il Vittorio occupato visto dal lungomare Paolo Toscanelli

 

2.3.3 L'house sharing dei migranti

            Concludiamo la nostra parziale rassegna sulle diverse forme dell'abitare parlando di quella più comune che coinvolge in modo più o meno sporadico la gran parte degli immigrati che vengono a vivere a Roma, e nello specifico nell'ex XIII Municipio: l'house sharing.

Nel corso della nostra ricerca abbiamo conosciuto diverse persone referenti di alcune delle comunità più rappresentative del ex XIII Municipio e abbiamo provato a indagare quali fossero le strategie praticate da loro e dai connazionali per sopperire al bisogno d'alloggio.

            Iniziamo con la comunità più rappresentata e rappresentativa di Roma e del Municipio ex XIII, quella rumena.

Siamo invitati ad entrare in un appartamento dove convivono due nuclei familiari rumeni: una coppia e una famiglia composta da marito e moglie con i loro due figli, di 13 e 5 anni. C'è un solo bagno, due stanze da letto e una cucina dove dorme su un materasso il ragazzino più grande e, mancando lo spazio, per mangiare si fa a turni.

Intervistiamo Loredana, la madre dei due ragazzi, che ci racconta del suo arrivo in Italia, a Ostia, nel 2002 e di come confidasse di regolarizzarsi in tempi brevi grazie alla sanatoria. La sua prima esperienza abitativa è stata la convivenza in una camerata insieme al suo ex ragazzo e altre 5 persone e nonostante pagassero 200 euro a testa nessuno di loro aveva il contratto. Anche dal punto di vista lavorativo era irregolare infatti faceva l'aiuto cameriera in nero in un ristorante di Ostia e, con i primi stipendi, ha potuto trovare un appartamento in affitto. Loredana denuncia una situazione degli alloggi che è drammatica a causa dei prezzi elevati che, in un momento di crisi come quello attuale, esclude molti rumeni dalla possibilità di acquistare una casa condannandoli a rinunciare all'idea di possedere una casa a Roma. Questa situazione è legata alla diffusa irregolarità dei lavoratori rumeni impiegati come operai (il marito è fabbro) a cui viene negato un contratto regolare senza il quale le banche non concedono i mutui.

            Il tema della casa e del suo possesso dipende ovviamente dalle condizioni economiche ma è anche strettamente connesso alla dimensione personale dell'individuo in relazione al futuro e al territorio, ossia alla sua progettazione in uno spazio fisico e in un tempo condiviso. Possedere una casa di proprietà permette di mettere radici, significa investire la propria esistenza in un determinato luogo e produce un senso di appartenenza (lavorativa, culturale, socio-affettiva) nei confronti di quel determinato territorio.

Anche l'altro inquilino della casa, Petre, vive dal 2002 in Italia e si dimostra molto "drastico" rispetto a questo discorso con le sue affermazioni "solo il 2-3% degli immigrati rumeni vuole realmente restare a vivere in Italia, in particolare le coppie miste (italiano/rumena e viceversa) e i moldavi, per la situazione di estrema povertà da cui provengono, ma per la gran parte il progetto migratorio è volto a mandare i soldi risparmiati in Romania e con questi comprarsi o costruirsi la casa lì".

La compagna di Petre fa le pulizie domestiche da diversi anni a casa di una signora e non è mai stata regolarizzata con un contratto come, dice, "succede al 20% delle mie conoscenti badanti". La questione abitativa per la comunità rumena e moldava femminile si caratterizza proprio in funzione di un settore lavorativo, quello della cura alla persona, per il quale il lavoro coincide spesso con l'abitazione. L'emergenza abitativa sorge quando a seguito del decesso del "datore di lavoro" o per altri motivi, in mancanza di un contratto lavorativo, le suddette lavoratrici si ritrovano senza stipendio né indennità di disoccupazione e senza una dimora.. quanto riesce la rete comunitaria a sopperire a questa situazione?

Consultando alcuni giornali on-line[51] scopriamo che tre anni fa 35 famiglie che risiedevano all'Idroscalo sono state sgomberate dalle proprie baracche, prontamente demolite, ufficialmente per motivi di sicurezza, e spostate nei residence. Da una parte le organizzazioni della società civile continuano a battersi per la riqualificazione dell'Idroscalo e per garantire il diritto all'abitare di quei nuclei che da anni vivono lì e dall'altra le Istituzioni agiscono rifacendosi alla legge e con obiettivi che mutano insieme ai cambi di giunta.

Quando è giunto a Ostia Petre ha vissuto per due anni all'Idroscalo a Ostia in una condizione alloggiativa precaria trattandosi di un'abitazione sovraffollata e a costante rischio esondazione per la sua posizione vicino al mare.  Negli ultimi anni Petre è divenuto un punto di riferimento per molti connazionali rumeni che hanno approfittato spesso della sua ospitalità fermandosi a dormire nella sua stanza anche per diversi mesi. Interrogato sulla condizione dei rumeni senza fissa dimora che dormono all'addiaccio il nostro interlocutore dice di averne conosciuti alcuni, soprattutto quelli che si accampavano a Castel Fusano e che, alcuni anni fa, erano molto più numerosi, quasi 200. A tal proposito racconta del suo amico Constantin che, a causa della crisi nel settore edile, s'è ritrovato a lavorare solo per pochi giorni al mese ma ha comunque deciso di restare a Roma accampandosi nel parco di Castel Fusano e mangiando a pranzo alla mensa Caritas di Ostia perché, gli spiegava, nella sua città d'origine il lavoro non c'è e comunque gli stipendi sono molto bassi.

            L'elevata presenza di rumeni che si costruiscono baracche o che si accampano nella pineta (rif. dati Nae) getta sulla comunità rumena l’immagine di una comunità slegata, dispersa e poco integrata con gli italiani e allo stesso tempo anche tra loro. Rivolgendo questa osservazione agli stessi rumeni c'è chi dimostra diffidenza rispetto alla solidarietà praticata dalle altre comunità "i bangalesi non aiutano. Sfruttano. Guarda quelli che affittano una stanza a 10 persone con i letti a castello" e chi spiega determinate situazioni di emergenza abitativa dicendo "quelli sono gli zingari dell'Idroscalo".

In un incontro avvenuto presso il suo studio medico Alessandro Belocchi, responsabile del CSI del Municipio XIII per 10 anni ed attualmente consulente per il Progetto di incontri itineranti attivato dal Tavolo Immigrazione, conferma questa disunione nella comunità rumena che imputa alla forte mobilità degli immigrati rumeni nel nostro paese.   

            Il peso della rete comunitaria appare quindi rilevante ai fini del percorso dell'immigrato sul territorio in termini lavorativi, sociali e appunto abitativi. Andiamo ad approfondire questa considerazione, nello specifico sulla dimensione abitativa, grazie alle occasioni di confronto avute con altri testimoni diretti di altre nazionalità molto presenti: quella bengalese e quella pakistana.

            In occasione dei tavoli immigrazione della 328 conosciamo Mustafazir Rahman, detto Babu, un esponente della comunità bengalese che è diventato consigliere aggiunto dell’ex XIII Municipio. E’ partito dal Bangladesh ed è arrivato in Italia da "clandestino" nel 1993 e per i primi anni ha lavorato come lavavetri, giardiniere e ai distributori di benzina adattandosi a dormire in un garage. Grazie alle sue competenze in marketing e i contatti che si è procurato è riuscito, negli anni, ad aprire alcune attività commerciali di cui parleremo nei prossimi capitoli. Oggi vive ad Acilia, dove inizialmente aveva sede il negozio, con i suoi tre figli, che hanno tra i 4 e i 15 anni, e interrogato su dove immagina il futuro della sua famiglia dice che potrebbe concretizzarsi in Italia ma si vedrà. Nei suoi racconti parla di una comunità, quella bengalese, molto stretta, di una rete solida e organizzata gestita da alcune figure leader su cui poter far affidamento per le questioni più diverse. "L'elemento di forza è l'unità", dice Babu, "infatti non capiterà mai che un bengalese dorma per strada". Al momento dell'intervista sta ospitando a casa sua tre connazionali.

In una successiva visita al suo alimentari di Acilia conosciamo suo cugino che ci racconta della sua lunga esperienza di clandestinità durante la quale vendeva ombrelli per strada e si appoggiava a dormire da conoscenti. In Bangladesh ha lasciato la moglie e una figlia piccola che non vede dal giorno della sua partenza, quasi 5 anni fa. Ora che lavora per Babu è ospite a casa sua ed è felice perché ha appena ottenuto il cedolino per il permesso di soggiorno.

            Un altro contributo importante ci viene data da Jawed, un signore del Pakistan che vive da molti anni nel XIII Municipio e la cui testimonianza, che riporteremo fedelmente, sembra accomunare molto la comunità pakistana a quella bengalese rispetto alle modalità di vivere l’abitazione e alla condivisione degli spazi.

            "Per quanto mi riguarda è un misto di occidentale e orientale, cioè ognuno ha la sua camera da letto ma quando ci sono ospiti si lascia volentieri la camera più idonea agli ospiti e si fa "stanza sharing" tra gli altri della famiglia senza alcun problema. La casa è a totale disposizione degli ospiti per la durata della loro permanenza, per cui cucina open, lavatrice a disposizione ecc. ecc. Quando possiamo facciamo da cicerone agli ospiti per Roma ma anche in Italia.

Specialmente all'inizio c'è gente che fa casa sharing con altri del proprio paese fin quando non si riesce a sistemarsi meglio. Questo può durare anche vari anni. Ciò serve anche a risparmiare e fare rimesse agli paesi d'origine".

 

Conclusioni

Alla luce di quanto detto fin qui rispetto al tema dell’abitare riportiamo in conclusione delle considerazioni di carattere generale che possano delineare a grandi linee il quadro mutevole dell’ex XIII Municipio.

Una premessa necessaria è quella relativa al contesto socio-economico di riferimento che è caratterizzato da una generalizzata crisi lavorativa e produttiva, fortemente percepita degli immigrati così come dagli italiani intervistati, e che incide notevolmente in ambito sociale su diverse tematiche, tra cui il diritto alla casa, senza fare distinzione tra stranieri e autoctoni. Ciò dimostra come non si possa affrontare il problema degli alloggi, come di altre questioni cruciali di impatto sociale, con interventi univoci bensì serve un approccio che sia integrato, in modo da valutare ed affrontare i problemi nella loro complessità, e consultivo, che promuova cioè una partecipazione maggiore della popolazione che vive il territorio.

Gli immigrati sono uno dei volti della precarietà abitativa che, nel loro caso, può determinare una doppia instabilità in quanto per ottenere il contratto di soggiorno (o rinnovare il permesso di soggiorno) lo straniero deve dimostrare di avere una sistemazione alloggiativa idonea oltre ad un contratto di lavoro.

I servizi sociali (e le istituzioni in genere) offrono a coloro che vivono in prima persona forme di disagio abitativo un sostegno di natura economica, come abbiamo visto nel paragrafo 2.2, ma si dimostrano carenti, per una questione di risorse ma non solo, nella progettazione degli interventi. Per sovvertire il dilagare dell’esclusione sociale serve una capacità di intervento tempestiva che si predispone non solo, come quasi sempre accade, nel momento in cui la situazione di emergenza abitativa (es. sfratto) è già conclamata: “per noi sarebbe utile fare prevenzione..conoscere quanti sono le persone in emergenza abitativa e sapere prima cosa sta accadendo” ci viene spiegato dall'assistente sociale dell’ex XIII Municipio Mario Amendola. Per riuscire in questi intenti servirebbe un “piano casa” che preveda la partecipazione attiva di tutti gli stakeholder responsabili, più o meno direttamente, delle politiche abitative.

La complessità del fenomeno limita l’azione delle istituzioni che offrono servizi i quali, talvolta, rischiano di assumere forme di sterile assistenzialismo producendo circuiti “viziosi” invece che virtuosi.

Il nodo da sciogliere più urgente da parte del Comune rimane quello relativo all’edilizia sociale, dove paghiamo forti ritardi rispetto agli altri paesi europei, anche per dare una risposta e porre un’alternativa seria e credibile al diffondersi di una forma abitativa, quella dell’occupazione, che rimanda a polemiche sulla legalità che niente dovrebbero avere a che fare col diritto alla casa. E' stata la Corte Costituzionale a stabilire che l'abitazione è un diritto fondamentale e, nel caso degli immigrati, rappresenta una linea di demarcazione tra un processo di inclusione e di esclusione sociale in un paese. Una buona pratica di politica abitativa adottata dal nostro paese è la social housing[52] di unità immobiliari da destinare ad uso abitativo che si basa su un progetto di autocostruzione e autorecupero, ossia la riqualificazione di uno stabile pubblico da trasformare in abitazione sociale per contrastare l’emergenza abitativa. Gli aspetti positivi sono numerosi: con l’autorecupero si abbattono i costi, in fase di progettazione e di realizzazione i residenti sono direttamente coinvolti e si presta attenzione al risparmio energetico sviluppando progetti in bioedilizia di qualità.

            A nostro avviso ogni intervento dovrebbe essere preceduto dall’individuazione del problema e ciò richiede una ricerca sul campo per avvicinarci a quel territorio e conoscere meglio la realtà che lo determina. Solo in questo modo si potrebbe far emergere la presenza silenziosa ma pulsante di uomini e donne, il più delle volte immigrati, che vivono da invisibili. Costoro non hanno la residenza, sono disoccupati e vivono di espedienti o di lavori in nero, non hanno un’abitazione o comunque vivono in alloggi di fortuna e quindi non rientrano nelle statistiche ufficiali: sono dei fantasmi agli occhi delle istituzioni. Nonostante questo sono anch’essi espressione di bisogni e diritti che vanno considerati e tutelati e, ancor prima, andrebbero riconosciuti e indagati.

            Nel corso della nostra ricerca abbiamo conosciuto e parlato con un gran numero di immigrati provenienti da paesi più o meno lontani. Generalizzando possiamo dire che tutte le comunità straniere, con modalità diverse, attivano le proprie reti informali per provvedere alla risoluzione di situazioni di emergenza alloggiativa saltando molte volte il percorso previsto dalle Istituzioni e dalle loro reti formali. Questo si verifica perché le reti informali si attivano con tempi più veloci rispetto a quelli richiesti dalle reti formali ma anche perché c'è una scarsa comunicazione tra le Istituzioni e gli stranieri che vivono il territorio tutti i giorni. Altre motivazioni possono essere ricercate in fattori di tipo culturale e personale.

Sintetizzando quanto raccontato precedentemente sulla base della nostra osservazione su alcune delle nazionalità che vivono il territorio dell'ex XIII diciamo che coloro che appartengono alle comunità del continente asiatico (bengalesi, pakistani, srilankesi..) dimostrano un’elevata capacità di organizzazione e di collaborazione interna volta alla ricerca di una condizione di maggiore stabilità nel nostro paese. Lo stesso non si può dire di altre comunità: quella rumena segue una logica di sviluppo sul territorio ad espansione diffusa, che fa perdere il riferimento degli insediamenti originali, dimostra un carattere di autonomia e mobilità, di scarsa coesione interna, e pare orientata ad un ritorno in patria nel lungo periodo. Gli immigrati dall’Africa, invece, considerano l’Italia sempre più, a causa della difficoltà a trovare lavoro e/o per motivi legati a una convivenza sociale difficile e a un processo di integrazione in forte ritardo,  una tappa di passaggio e guardano con sempre maggiore attenzione al resto d’Europa, Francia in primis.

Tirare conclusioni tout court sulle comunità straniere presenti nell’ex XIII Municipio è un esercizio discutibile e forzatamente approssimativo. Per giungere ad osservazioni più veritiere nel lavoro di indagine bisognerebbe valutare diversi fattori che vanno ad incidere, tra l’altro, sulla dimensione abitativa dell’immigrato. Forse il passo più importante sarebbe ricostruire quella rete familiare che accomuna le diverse comunità straniere e che influenza le scelte e orienta i bisogni di ciascuno. A questo aspetto è legato la pratica delle rimesse che fornisce indicazioni interessanti rispetto a quello che è il progetto migratorio.

            Il bisogno abitativo ci accomuna tutti quanti e non va letto esclusivamente nella sua accezione formale o strutturale. Esso rappresenta il cardine di un progetto di vita su un determinato territorio e rappresenta una necessità imprescindibile che, in funzione di una società multiculturale verso la quale siamo proiettati e che già ci condiziona, va affrontata con urgenza cercando soluzioni innovative ed efficaci.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Volumi

·         Touraine A., Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Milano, Il Saggiatore, 1998

·         Manghi S., Brunello S., Longo G., Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998

·         Ferrarotti F., Macioti M., Periferie: da problema a risorsa, Roma, Collana Historos, 2009

·         Sartori G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei: saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli, 2000

·         Bauman Z., La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000

·         Bauman Z., Voglia di comunità, Roma, Laterza, 2001

·         Rami Ceci L., La città, la casa, il valore. Borghesia e modello di vita urbano, Roma, Armando Editore, 1996

·         Sobrero A., Antropologia della città, Carocci editore, Roma, 1992

·         Bauman Z., Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta edizioni, 2004

·         Vattimo G., La società trasparente, Garzanti Libri, Milano, 2011

·         Marcus G., Fischer J., Antropologia come critica culturale, Meltemi Editore, 1998

·         Sapir E., “Spurius and genuine culture” in Selected Writings of Edward Sapir in Language, Culture and Personality, University of California Press, 1985

·         Giddens A., Ulrich B., Modernizzazione riflessiva, Asterios, 1999, pag.136

·         Pollini G., Scidà G., Sociologia delle migrazioni e della società multietnica, Roma, Franco Angeli, 2002, Pag. 62

·         Wirth L., The ghetto, University of Chicago Press, Chicago, 1928, tr. it., Il Ghetto, Comunità, Milano, 1968

·         Rami Ceci L., La città, la casa, il valore. Borghesia e modello di vita urbano, Armando editore, Roma, 2000

·         Borgna E., Nei luoghi perduti della follia, Feltrinelli, Milano, 2008

·         Insolera I., Roma moderna, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962, p.322

·         Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2011. 21° Rapporto, Roma, 2011

·         Amendola M., Storia di Dragan. “Rom di Roma”, Roma, 2013

·         Tentori T., Il rischio della certezza, Roma, Studium, 1987

·         Tentori T., Antropologia culturale, Roma, Studium, 1990

·         Bassanini G., Tracce silenziose dell'abitare, Milano, Angeli, 1990

·         Hannerz U., La diversità culturale, Il Mulino, Bologna, 2001

·         Ranci Ortigosa E., La riforma dei servizi sociali in Italia, Carocci, 2004

·         Magistrali G., Il futuro delle politiche sociali in Italia, Franco Angeli, Roma, 2003

·         Benjamin W., Agamben G., Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940, Einaudi Editore, Roma, 1986.

·         Kevin Lynch, L'immagine della città, Marsilio Editore, Venezia, 2006

·         Farmer P., Antropologia Medica, Cortina Editore, Milano, 2006

·         Bauman Z., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma, 2001

·         Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze  dell'immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

·         Featherstone M., Cultura globale, nazionalismo, globalizzazione e modernità, SEAM, Milano, 1996

·         Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999

·         Callari Galli M., Pievani T., Ceruti M., Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma, 1998

·         Bateson, G. Mente e Natura, Adelphi, Milano, 1999

·         Geertz, C., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1988.

 

 

Siti internet

·         www.aterroma.it - Azienda territoriale per l'edilizia territoriale

·         www.laboratorioroma.it - Rapporto Municipio 13

·         www.regione.lazio.it - Regione Lazio

·         www.comune.roma.it - dati e informazioni su Comune di Roma e singoli Municipi (Carta del Servizio Sociale) 

·         www.Istat.it - statistiche su popolazione e censimenti (Annuario statistico)

·         www.repubblica.it - Quotidiano La Repubblica

·         www.programmaintegra.it - Portale dei servizi territoriali per i rifugiati e i migranti

·         www.ilfaroonline.itQQQuotidiano di informazione del litorale laziale



[1]              Ranci Ortigosa E., “ I temi e lo scenario”, La riforma dei servizi sociali in Italia, 2004, pp. 21-30.

[2]              Pirola M., “La legge 328/2000: verso le nuove politiche per i servizi socio assistenziali”, Il futuro delle politiche sociali in Italia, 2003, pp. 59-69.

[3]              Ingrosso M., “Crisi del benessere sociale e ruolo delle politiche di comunità: una valutazione della 328/2000”, Il futuro delle politiche sociali in Italia, 2003, pp. 41-57.

[4]              Tentori T., Antropologia delle società complesse, Armando Editore, Roma, 1999, pag.56-57

[5]              Crapanzano V., Thuami, pag.15.

[6]              Tentori T., Antropologia delle società complesse, pag. 18

[7] Vattimo G., La società trasparente, Garzanti Libri, Milano, 2011

[8] Marcus G., Fischer J., Antropologia come critica culturale, Meltemi Editore, 1998

[9] Sapir E., “Spurius and genuine culture” in Selected Writings of Edward Sapir in Language, Culture and Personality, University of California Press, 1985  

[10] Lezione del Prof. Pistolese, “Antropologia culturale delle società complesse”, II Modulo, 8 settembre 2012

[11] Bauman Z., La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, pag. 126

[12] Bauman Z., Voglia di comunità, Roma, Laterza, 2001, pag.95

[13] Bauman Z., Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta edizioni, 2004

[14] Marcus G., Fischer J., Antropologia come critica culturale, Meltemi Editore, 1998, p.204

[15] Giddens A., Ulrich B., Modernizzazione riflessiva, Asterios, 1999, pag.136

[16] Touraine A., Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Milano, Il Saggiatore, 1998, Pag.153

[17] Touraine A., Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Milano, Il Saggiatore, 1998, Pag.17

[18] Pollini G., Scidà G., Sociologia delle migrazioni e della società multietnica, Roma, Franco Angeli, 2002, Pag. 62

[19] Walter Benjamin, Giorgio Agamben (a cura di), Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940, traduzione di Gianni Carchia, Massimo De Carolis, Antonella Moscati, Francesco Porzio, Giuseppe Russo, Renato Solmi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1986.

 

[20] Kevin Lynch, “L'immagine della città”, 2006, Marsilio Editore

[21] Farmer, Paul (2006: 265-300 e VII) “Sofferenza e violenza strutturale. Diritti sociali ed economici nell’era globale”, in Antropologia Medica, a cura di Ivo Quaranta, Raffaello Cortina Editore Milano

[22] Bauman Z., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (op. orig.: Globalization. The Human Consequences, 1998),  p. 96.

[23] Sayad Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze   dell'immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002 (La double absence, Paris, Editions du Seuil, 1999)

[24] Ibidem, p.108

[25] Bauman Z., Modernità e ambivalenza, in Featherstone M. (a cura di), Cultura globale, nazionalismo, globalizzazione e modernità (op. orig. : Global culture. Nationalism, Globalization and Modernity, 1990 ), trad. it. Di Mazzi F., SEAM, Milano, 1996, pp. 43-71;

[26] Bauman Z., La società dell’incertezza trad. it. Di Marchisio R. e Neirotti S., Il Mulino, Bologna, 1999. pp-8-9.

[27] Ibidem, p. 66.

[28] Si distingua il progettatore sociale, nell’accezione che gli stiamo dando, dal “progettista”, da intendersi come colui che tecnicamente scrive un formulario di progetto.

[29]Callari Galli M. Pievani T., Ceruti M., Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma, 1998

[30] Tentori, T.Il rischio della certezza,Studium, Roma, 1987

[31]  Cfr. Bateson, G., Verso un’ecologia della mente (ed.or 1977)e Mente e natura (ed.or. 1979).

 

[32]Bateson, G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2001, pg, 492

[33]Bateson, G. Mente e Natura, Adelphi, Milano, 1999, pg.42

[34]Geertz, C., (ed.or 1973) Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1988.

[35]Ivi, pg. 12

[36] Lezione del Prof. Pistolese, “Teoria della ricerca azione”. VIII° Modulo, 7 aprile 2013

[37] Sobrero A., Antropologia della città, Carocci editore, Roma, 1998

[38] Wirth L., The ghetto, University of Chicago Press, Chicago, 1928, tr. it., Il Ghetto, Comunità, Milano, 1968 

[39] Borgna E., Nei luoghi perduti della follia,  Feltrinelli, Milano, 2008

[40] Rami Ceci L., La città, la casa, il  valore. Borghesia e modello di vita urbano, Armando editore, Roma, 2000

[41] Chombart De Lauwe P., Famille et habitation, Parigi, 1960

[42]             Rami Ceci L., La città, la casa, il  valore. Borghesia e modello di vita urbano, Armando editore, Roma, 2000, p.128

[43]             Insolera I., Roma moderna, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962, p.322

[44]             Insolera I., Roma moderna, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962, p.330

[45]             www.istat.it – vedi Annuario Statistico Italiano 2012 – dati censimenti

[46]             Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2011. 21° Rapporto, Roma, 2011

[47] Siamo in attesa di ottenere informazioni sulla dimensione statistica degli sfratti per quel che concerne gli italiani e gli stranieri da parte dell'Ufficio Sfratti della Questura di Ostia dove abbiamo portato la lettera di autorizzazione sottoscritta dai Servizi Sociali del Municipio

[48]             www.laboratorioroma.it - Rapporto Municipio 13

[49]             www.istat.it – vedi Annuario Statistico Italiano 2012 – dati censimenti

[50]             Amendola M., Storia di Dragan. “Rom di Roma”, Roma, 2013

[51]             www.ilfaroonline.it

[52]             Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2011. 21° Rapporto, Roma, 2011


PER LEGGERE E SCRIVERE COMMENTI OCCORRE ESSERE REGISTRATI      < Indietro