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  Indice

 

        Introduzione: la legge 328 e il tavolo immigrazione                                                       pg. 3

       

        Cap. 1: Presupposti teorici della ricerca

                   1.1  Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una              

                        lettura  antropologica dell’avvento della società di consumi                              pg. 7

                   1.2 Cittadinanza e nodo della rappresentanza                                                          pg.11

                   1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio                                                  pg.15

 

 Cap. 2: Reti commerciali e comunità

                 2.1  Scambi economici e legami sociali                                                                     pg.20             

                 2.2  L’analisi dei dati secondari: tessuto produttivo e imprenditoria straniera         

                        nel X° Municipio                                                                                                 pg.22

                 2.3  Gerarchie commerciali e culturali tra comunità: comunità rumena e

                         bengalese a confronto                                                                                        pg. 27

                 2.4  Mondi economici paralleli tra reti formali e informali                                       pg. 31

      

       Conclusioni                                                                                                                         pg.34

       Appendice                                                                                                                           pg.35

       Bibliografia                                                                                                                         pg.42

       Lezioni e Materiali FAD – Master PSGT II° Ed.                                                           pg. 44

       Sitografia                                                                                                                             pg.45

 

  

          Introduzione. La legge 328/00 e il Tavolo Immigrazione

 

La legge 8.11.2000 n. 328 svolge un’importante funzione nel riconoscere piena legittimità ai diritti sociali come diritti di cittadinanza; nel promuovere l’azione sociale a sistema integrato; nel prefigurare la costruzione di una rete di sicurezza e di protezione per cittadini e famiglie che si trovano in condizione di fragilità; nell’attribuire ruoli importanti a soggetti diversi, all’interno di una logica di forte integrazione e collaborazione.

Si tratta di una riforma profonda, che porta un sostanziale elemento d’innovazione tra le politiche sociali, tenendo altresì a favorire più alti livelli d’attenzione e d’innovazione, tanto nel merito dei problemi, quanto nei processi di programmazione e di progettazione.[1]

La legge 328 del 2000 per la realizzazione del sistema integrato d’interventi e servizi sociali nasce in risposta ad un contesto di “ambigua crisi del Welfare”, ovvero un Welfare pieno di punti deboli: dal persistere di radicate forme di particolarismo e frammentazione non solo geografiche, alla delega alla famiglia (e al suo interno alla donna) del lavoro di cura; dalla prevalenza di politiche di trasferimento monetario di tipo assistenzialistico al carico finanziario sbilanciato sul lavoro dipendente; dal carattere residuale della spesa sociale rispetto ai giganti della sanità e delle pensioni al prevalere di forme di tutela per le categorie più garantite. La legge quadro 328/2000 rappresenta un’occasione non per abbattere ma per rilanciare e sburocratizzare il nostro Welfare; vuole dar voce all’azione dei cittadini e delle comunità, come attivi protagonisti nella costruzione del benessere individuale, familiare, collettivo. Con l’approvazione della legge 328/2000 viene così sancito il principio della democrazia partecipata come strumento chiave della progettazione ed attuazione delle politiche sociali.[2]

La riforma, inoltre, sostiene che le politiche sociali devono accompagnarsi con quelle sanitarie, del lavoro, dell’istruzione, della casa e rivendica l’importanza costituzionale di un quadro omogeneo di diritti di cittadinanza.

Sul piano degli obiettivi, la 328 non si limita a tentare di prevenire, ridurre, eliminare le condizioni di disabilità, bisogno e disagio, ma ha l’ambizione di promuovere la qualità della vita, insieme alle pari opportunità, alla non discriminazione e ai diritti di cittadinanza, alla solidarietà sociale e alla valorizzazione delle iniziative solidaristiche.

Essa s’inscrive in una nuova tipologia di politiche che si possono definire promozionali e integrative, e non solo preventivo-assistenziali, e vuole concorrere al miglioramento della qualità della vita intervenendo su alcune dimensioni sostanziali del benessere e delle relazioni sociali.[3]

La legge 328/2000, infatti, è finalizzata ad un cambiamento delle politiche sociali con l’obiettivo principale della tutela globale della persona nella sua interezza, come condizione di benessere individuale e collettiva in tutte le dimensioni della vita umana: nelle persone, nelle famiglie, nelle comunità locali.

La legge 328 è la prima norma che contiene, nel vivo e nel concreto della disciplina di un settore o di una materia d’intervento pubblico, un riconoscimento ampio e ripetuto del principio di sussidiarietà sociale come modalità ordinaria per la cura e il perseguimento di finalità d’interesse pubblico.

Nel disegno d’organizzazione sociale che si poggia sul principio di sussidiarietà, le istituzioni pubbliche e i soggetti privati, singoli associati, concorrono in modo attivo e responsabile a tali fini.

L’idea di istituire il tavolo permanente sull’immigrazione affonda le sue radici in quanto annunciato dalla L. 328/2000. Quest’ultima infatti, ha previsto un sistema amministrativo di tipo decentrato, più agile e capace di rispondere in tempo reale ai bisogni sociali, espressi localmente, partendo dal fondamentale principio di sussidiarietà secondo cui le istituzioni politiche locali, più vicine ai cittadini, sono chiamate a rispondere in prima istanza alle domande politiche espresse dal territorio. Nonché l’obbligo per l’ente pubblico di uscire da una logica di governo esclusivo dei processi, per entrare in una nuova idea di governance locale, con l’aumento del numero dei soggetti coinvolti nella pianificazione e l’allargamento degli spazi operativi e quindi la nascita di un nuovo tavolo di progettazione. Ciò riguarda uno degli aspetti della “sussidiarietà orizzontale”, in altre parole la creazione di uno spazio politico entro il quale l’ente locale assume il ruolo di regolatore e garante dei servizi e contemporaneamente si sforza di potenziare le capacità propulsive degli altri attori (stakeholders) del privato sociale e “non” presenti sul territorio. Proprio il territorio offre l’opportunità di ripensare il senso delle politiche sociali, il cui oggetto non sono soltanto i bisogni normativamente riconosciuti, ma anche i bisogni della quotidianità, al fine di recuperare nel processo di costruzione del Piano sociale, le opinioni e le attese dei cittadini.       

Il Piano di Zona, quindi, assume un ruolo strategico di sintesi della programmazione partecipata a scala locale: rappresenta un’occasione per potenziare a livello locale nuove forme di regolazione dello sviluppo territoriale che favoriscono la partecipazione e il consenso tra gli attori locali. L’obiettivo ultimo è la creazione di un sistema di welfare comunitario, valorizzando culture di tipo partecipativo e di concertazione, sviluppando l’alleanza tra istituzioni e cittadini, così da tradurre in realtà il processo di governance locale.

 Il tavolo permanente sull’immigrazione nel X° Municipio[4] è stato istituito nel 2009 attraverso un protocollo d’intesa, che è stato siglato da diverse Organizzazioni Sindacali Territoriali (CGIL Roma Ovest, CISL Zona Litoranea, UIL Ovest, UGL Sei) e dal Municipio X° di Roma Capitale. Tale accordo, risponde a quanto enunciato dalla L. 328/2000 all’art 1  ovvero “gli enti locali nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, operanti nel settore nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Questo tavolo insieme ad altri sette tavoli tematici (di solito corrispondenti ciascuno ad un’area di intervento) sono stati creati, nell’ambito della programmazione degli interventi e dei servizi sociali al fine di predisporre il Piano Regolatore Sociale (frutto appunto di una programmazione partecipata).

Il tavolo attraverso l’attivazione di una rete di collaborazione tra vari soggetti pubblici e non, serve a:

·         facilitare la comunicazione e l’integrazione tra i diversi soggetti operanti sul territorio;

·         favorire la rilevazione dei bisogni emergenti;

·         formulare proposte e collaborare alla costruzione della programmazione triennale del Piano di Zona.

Inoltre, in seguito alla programmazione, il Tavolo assume ulteriori compiti di monitoraggio e verifica dell’effettiva realizzazione delle azioni previste.

 

Nell’ambito del tirocinio svolto in qualità di studenti del Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio con l’Associazione PMT[5],  abbiamo avuto occasione di partecipare ai Tavoli Immigrazione del Municipio X ed entrare dunque nel vivo della concertazione e progettazione partecipata. Nei 4 Tavoli che si sono tenuti da autunno 2012,  tutti concentrati in tre mesi ravvicinati, le presenze oscillavano tra le 10 e le 15 persone. Seduti al tavolo, coordinati dalla responsabile del Piano di Zona, c’erano esponenti del mondo associativo, operatori della Asl e ogni tanto qualche rappresentante dei sindacati.

Nei Tavoli a cui abbiamo avuto modo di partecipare si è discusso principalmente di un progetto di incontri sul territorio, che, in seguito alla chiusura del Centro Servizi Immigrazione (CSI), si proponeva  l’obiettivo di diffondere informazioni (attraverso un consulente) entrando in diretto contatto con gli stranieri. Le informazioni riguardavano principalmente il diritto al lavoro e alla salute e i luoghi prescelti per questi incontri sono stati le scuole di Italiano, la Caritas e Sant’Egidio. Si è discusso a lungo sulle modalità comunicative più adatte e sui bisogni degli stranieri a cui si voleva rispondere, ma tra i presenti al Tavolo non vi sono mai stati stranieri o rappresentanti di associazioni e comunità immigrate.

La presente ricerca compiuta collettivamente dagli studenti del Master e di cui dunque questo lavoro rappresenta solo una parte, nasce allora dalla domanda: come mai gli stranieri del Municipio non partecipano al Tavolo Immigrazione?

Nello specifico, le attività sul campo dell’equipe di ricerca sono state finalizzate all’analisi dei bisogni e dell’accesso ai servizi della popolazione straniera residente sul territorio, individuando 4 macro aree privilegiate per l’indagine (lavoro, salute, alloggio, scuola e cultura).

A partire dalle suggestioni teoriche forniteci dalle lezioni in aula del Master PSGT, raccolte nel capitolo che segue, abbiamo tentato di costruire una mappa del territorio del Municipio con particolare attenzione alle reti costruite dai cittadini stranieri e al rapporto tra queste reti, più o meno informali, e le reti istituzionali dei servizi per gli immigrati.

La ricerca ha avuto uno stampo prettamente etnografico e si è articolata attraverso numerose uscite sul campo e l’utilizzo di diverse metodologie di raccolta dei dati: dall’intervista semi strutturata a informatori privilegiati (tanto delle comunità straniere, quanto di esponenti delle Istituzioni), ai colloqui e focus group informali.

            Nel capitolo 2 del presente lavoro si riportano i risultati dell’indagine etnografica sul territorio in riferimento alle reti economiche e commerciali,  e l’analisi dei dati qualitativi raccolti a confronto con dati statistico-quantitativi. L’obiettivo di tale analisi, e dalla ricerca in sé, è quello di contribuire alla conoscenza del Territorio dal punto di vista dei cittadini stranieri che lo abitano, in funzione di una progettazione partecipata che sappia prendere in considerazioni i bisogni rilevati, come previsto dalla legge 328/00.

 

 

 

 


CAPITOLO 1 Presupposti teorici della ricerca

 

1.1 Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi.

Il disegno della presente ricerca viene inquadrato all'interno del più vasto panorama teorico della letteratura riguardante la modernità, la postmodernità e la fase di passaggio dalla prima alla seconda che ha costituito il momento di svolta per l’intero panorama delle scienze sociali, costrette a confrontarsi con la realtà della società contemporanea.

L’antropologia culturale ha superato la categorizzazione bipolare società moderna occidentale / società semplice (o primitiva) extra-occidentale e la connessa distinzione culture complesse / culture tradizionali che era propria della sua fase evoluzionista. «Oggi i processi di acculturazione e in genere di mutamento sempre più profondo e rapido, le migrazioni, le mescolanze etniche e culturali su scala planetaria, le dinamiche socio-economiche con i loro corollari sul piano culturale, hanno tolto quasi del tutto ogni consistenza ai vecchi presupposti valutativi, che pretendevano sceverare […] culture semplici da culture complesse»[6]. Non si ragiona più in termini di categorie, che vengono per lo più superate (la religione è una delle pochissime superstiti) ma confrontandosi con l’individuo altro. Vincent Crapanzano descrive l’incontro etnografico come «una complessa contrattazione nella quale i partecipanti tacitamente concordano una realtà di riferimento. Questa realtà non appartiene […] a nessuna delle parti in causa»[7]. L’approccio di lavoro proposto e le teorizzazioni che ne deriveranno segneranno il passaggio dalla società complicata alla società complessa per quello che concerne gli studi antropologici.

L’odierna società postmoderna è complessa in quanto figlia di un sistema non di tipo causale, espressione della “modernità” imperniata sulla conoscenza oggettiva del mondo, bensì di tipo casuale che è imperniato su due fattori: l’imprevedibilità e la velocità dei cambiamenti sia sincronici che diacronici. «Le società complesse interessano quasi la totalità delle società esistenti»[8]  che si caratterizzano per la loro instabilità causata dalla presenza di un enorme numero di variabili che non sono né controllabili né prevedibili.

Finisce quindi la pretesa di dare un senso univoco e definitivo alla realtà che si definisce piuttosto in termini di differenza e molteplicità e in cui le differenze servono a determinare la propria diversità e, al contempo, la propria identità. Ne consegue che l’odierna società è molto frammentata anche a livello esistenziale, il che produce quello che Vattimo ha definito «complessivo effetto di “spaesamento” che accompagna il primo effetto di identificazione»[9] e si deve confrontare con la tendenza, di segno opposto, rappresentata dall’internalizzazione del consumo, delle informazioni e della produzione.

Nel libro “Antropologia come critica culturale”[10] gli antropologi Fisher e Marcus mostrano l’evoluzione dell’approccio utilizzato dalle discipline umanistiche e scienze sociali che producono lo sforzo di fornire le loro rappresentazioni partendo dall’interno e valorizzando le differenze e le diversità di fronte alla più ampia consapevolezza di una crescente omologazione del mondo.           

Il linguista e antropologo americano Edward Sapir nella sua analisi antropologica evidenzia la contrapposizione tra culture che definisce genuine e quelle spurie. La cultura genuina è quella in cui vi è armonia tra i bisogni della società e quelli dei propri singoli membri e in cui «le attività principali di un individuo devono soddisfare direttamente i suoi impulsi creativi e emotivi»[11]. Viceversa la società spuria è potenzialmente efficiente dal punto di vista economico ma incapace di esprimere una cultura genuina rispondente in modo organico alle aspirazioni degli individui che hanno smarrito la “spiritualità” nel proprio agire.

Oggi risulta sempre più difficile riuscire a rilevare un nesso stabile e coerente tra bisogno e soddisfacimento dello stesso e l’incertezza che ne deriva distingue gran parte delle società contemporanee caratterizzate da rapporti di tipo spurio, ossia casuale, nelle relazioni “bisogno-soddisfacimento” e che, quindi, non sono più indagabili con gli strumenti tradizionali[12].

Questa nuova condizione della società viene analizzata nell’opera di Bauman “Modernità liquida”, termine che ha assunto valore di neologismo e indica «una concezione sociologica che considera l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile». 

La globalizzazione rompe i vincoli spazio-temporali, trasformando le relazioni economiche, sociali, produttive ed esistenziali ed inaugura l'avvento della società dei consumi, spazio virtualizzato in cui il luogo di produzione e di consumo non coincidono e in cui «capitale e conoscenza si sono entrambi emancipati dalla loro dimensione locale. La collocazione geografica dei loro possessori conta poco ora che il 90% delle transazioni finanziarie che producono ricchezza non è più vincolato al movimento delle merci materiali e ora che la circolazione delle informazioni avviene per lo più entro i confini del cyberspazio»[13]. Robertson ha coniato il termine “glocalizzazione” per sottolineare una peculiarità del  mondo contemporaneo nel quale la tendenza alla globalizzazione, del capitale e dell’informazione, agisce in modo correlato, e in evidente contraddizione, con la tendenza alla localizzazione in cui è arroccata la politica. Dunque «il potere, in quanto incarnazione della circolazione mondiale di capitali e informazioni, diventa sempre più extraterritoriale, mentre le istituzioni politiche esistenti continuano ad avere un carattere prettamente locale. Ciò porta inevitabilmente a una progressiva perdita di potere dello Stato nazionale che ha smesso di controllare i processi d’integrazione sociale»[14]. Quest’ultimo compito, elemento distintivo e cardine dello Stato moderno, viene delegato ad altri soggetti che agiscono, spesso, potendo godere di larga autonomia e in qualche modo incontrollati.

            La postmodernità e la globalizzazione hanno innescato un processo di estraneazione dal territorio che è il principale responsabile della marginalità sociale. Il processo di marginalizzazione sociale ha perso la sua accezione culturale e non è più collegato all’occupazione bensì è diventato una condizione spontanea nella quale il lavoro non è più la discriminante di uno status sociale che, a sua volta, non è più collegabile in modo stringente al consumo. Se il reddito da lavoro non è più la garanzia di uno status sociale cala la fiducia nell’attività lavorativa, sempre più caratterizzata da precarietà e flessibilità, che diventa semplicemente uno dei tanti fattori (insieme al possesso o meno di una casa di proprietà, alla presenza o meno di forme di addebitamento come gli assegni di mantenimento per l’ex moglie, ecc..) che determinano la propria posizione nella società e le condizioni in cui poter vivere il territorio[15].

Analizziamo dunque il rapporto che intercorre tra status, lavoro e consumo per formulare delle considerazioni aggiuntive sulla dimensione dell’esclusione sociale. Prima dell’avvento della globalizzazione e della postmodernità il sistema si riproduceva grazie al ruolo centrale per la vita individuale e collettiva svolto dal lavoro in quella che, in epoca industriale, si definiva “società dei produttori”. Il passaggio alla “società dei consumi” e quindi l’avvento del consumatore ha condannato il lavoro a cedere la propria funzione di integrazione sociale al consumo sacrificando così la sua connotazione etica ed appropriandosi di una dimensione puramente estetica.

Il rischio insito nella società contemporanea, fa notare Bauman[16], non si limita alla produzione di forme di povertà classiche, quali l’indigenza economica e materiale o la sofferenza fisica, ma si moltiplicano anche situazioni di miseria dovute a condizioni sociali e psicologiche critiche. «Dietro la crescita del mercato e di burocrazie c’è un declino della comunità e di quel valore individuale del sé di cui la salute mentale non può fare a meno»[17]. Queste forme moderne di povertà ed emarginazione sono possibili effetti collaterali dell’incapacità di consumo che, nella società contemporanea, è considerata una grave colpa.

Oggi, maggiormente che nel passato, il rischio di esclusione sociale, ossia l’impossibilità materiale di poter usufruire delle risorse, è molto sviluppato e produce una marginalità urbana che assume forme diverse coinvolgendo differenti personalità: dall’immigrato irregolare al soggetto affetto da dipendenza, dal disoccupato al psichiatrico. Il processo di esclusione, che accelera nelle fasi di congiuntura economica negativa come quella attuale, e lo scollamento dal territorio, per effetto di processi di globalizzazione e dell’inadeguatezza delle istituzioni, rende i cittadini sostituibili e potenzialmente marginali. La marginalità è il riflesso della diseguaglianza sociale che, generalmente, è progressivamente aumentata negli ultimi decenni e che può essere letta come una degenerazione dovuta all’indebolimento dei valori e delle norme comuni.

Nella sua evoluzione la società ha quindi sacrificato, insieme al lavoro, l’obiettivo vitale dell’integrazione sociale per approdare ad una fase, senza ordine né ideologie, nella quale l’esistenza sociale perde la sua connotazione oggettiva. Secondo Giddens, che rifiuta il termine postmoderno e parla di profonda radicalizzazione nella modernità della società contemporanea, «il sapere gelosamente custodito è ora sostituito dal sapere degli esperti che dovrebbero fornire sempre maggiori certezze sul mondo, ma la stessa condizione di tale certezza, è il dubbio»[18]. Le certezze vengono dunque sostituite dal dubbio così come il rischio prende il posto della riproduzione dell’ordine. La paura e la percezione del pericolo in una realtà così complessa e virtualizzata ha sviluppi imprevedibili. Nella società contemporanea “l’altro” o “il diverso" (considerato il tema di questo testo possiamo far riferimento allo straniero) continua a rappresentare un rischio. Questa “visione” rappresenta un ostacolo nel percorso di integrazione sociale e, molte volte, genera forme di autoesclusione: il territorio perde la sua dimensione originaria, al suo interno si sviluppano molti confini immaginari al cui interno, più o meno volontariamente, ci si rifugia per un bisogno di sicurezza o di appartenenza come esiliati inconsapevoli.

Touraine, in questo panorama, denuncia «l’assenza del principio centrale di costruzione della vita sociale: l’utilità sociale, la razionalizzazione e la lotta di classe»[19] e, nell’affermare il fallimento del postmodernismo in funzione delle realtà sociali, aggiunge che «se accettiamo senza riserve il declino della politica non resterà che il mercato a regolare la vita collettiva»[20].

La società complessa sembra quindi aver cancellato molte certezze e punti di riferimento producendo un forte senso di smarrimento e un generale senso di insicurezza nelle persone. Il fenomeno della povertà e della marginalità va intesa dunque in un duplice aspetto: quello prettamente economico legato ai consumi e quello socio-psicologico legato a nuove forme di ansia e di paure collettive. La società contemporanea produce e riproduce situazioni di marginalità che si manifestano in termini di povertà economica, disoccupazione, abitazioni inadeguate, violenza, discriminazione etnica e sociale. Su questo scenario incide la perdita dei legami interpersonali, che rappresentavano una risorsa importante per contrastare questi fenomeni, e si intrecciano storie di uomini che vivono ai margini della società. L’”uomo marginale” per eccellenza «è lo straniero che rappresenta un uomo al margine di due culture e di due società, che non sono mai completamente compenetrate e fuse»[21].      

Alla luce di tutte queste considerazioni appare evidente l’importanza di una riconciliazione col territorio sia da parte delle istituzioni sia da parte della cosiddetta società civile per ristabilire i legami sociali. Infatti questa “distanza”, sviluppatasi in modo progressivo negli ultimi anni, nasconde numerose insidie, per le cause illustrate precedentemente, e rischia di accelerare il preoccupante fenomeno dell’esclusione sociale.

 

1.2 Cittadinanza e il nodo della rappresentanza

L'assenza di confini certi del territorio e la suddetta distanza tra istituzioni e società civile apre un ragionamento complesso sul rapporto tra legittimazione, consenso e controllo sociale, in una relazione circolare e ricorsiva che spiega spesso la presenza o assenza di risposte a bisogni espressi o sommersi della popolazione che abita un determinato territorio[22].

La mancanza di confini definiti nella città contemporanea, l'assenza di centro e periferia, rende anche il concetto di cittadinanza sempre più fluido e sfuggente e dipendente dalle relazioni che si sviluppano all'interno della città, ovvero dalla possibilità di usufruire di servizi e di esercitare diritti (diritto alla casa, diritto agli spostamenti, diritto ad usufruire di servizi sociali e culturali).

La virtualizzazione progressiva della relazioni, iniziata già dagli anni '80, ci restituisce uno scenario dove sono gli stessi flussi comunicativi a cambiare le città e dove le categorie economiche governano gli spazi e le relazioni.

Benjamin[23] a tal proposito parla di “liberazione di uno sguardo” ovvero il venir meno dell'ordine degli sguardi nelle città contemporanee, a partire dagli anni ’80 con lo sviluppo di città multiculturali ed informatiche.

Lynch[24] a fine anni '80 individua come strumento di costruzione delle mappe urbane il vedere come la gente immagina la città. L'autore sostiene che le persone nei contesti urbani si orientano per mezzo di mappe mentali. Egli analizza tre città americane (Boston, Jersey City e Los Angeles) e guarda come le persone vi si orientano. Un concetto centrale è quello di leggibilità (anche chiamata figurabilità). Leggibilità esprime la misura in cui il paesaggio urbano può essere letto. Le persone che si muovono per la città ingaggiano un processo di individuazione del percorso. Hanno bisogno di essere in grado di riconoscere e organizzare degli elementi urbani in un modello coerente. Nel processo di individuazione del percorso, il collegamento strategico è l’immagine ambientale, l’immagine mentale generalizzata nel mondo fisico esterno che è posseduta da un individuo. Questa immagine è il prodotto sia di una sensazione immediata che il ricordo delle esperienze passate, ed è utilizzato per interpretare le informazioni e per orientare l’azione. L’illeggibilità della metropoli e l’intrico dei suoi elementi spaziali compromettono la percezione della città.

L’aumentata complessità spaziale sociale e culturale del tessuto urbano, a partire dal XX secolo, insieme alla velocità dei mezzi per attraversarlo ha sollevato parecchi problemi nuovi per la percezione.

            Lynch nota come risultino compromesse funzioni da sempre vitali per l’uomo, come l’identificazione dei luoghi, l’orientamento, la costruzione di una relazione individuo-spazio emotivamente sicura, la creazione di simboli comuni che legano il gruppo e permettono ai suoi membri di comunicare l’un l’altro.

In questa dimensione complessa, in cui ogni persona circola tra realtà differenti (contesto biografico, socio-politico, universo culturale, istituzioni, realtà quotidiana) si può generare quella che Farmer[25] definisce Violenza strutturale, ovvero la violenza come processo in cui le vittime occupano il posto più basso della scala sociale in società non egualitarie. Farmer invita ad analizzare i meccanismi sociali dell'oppressione che “sono tanto peccaminosi quanto apparentemente colpa di nessuno”.

La violenza strutturale è da lui definita come quella particolare violenza esercitata in modo indiretto, ovvero prodotta dall'organizzazione sociale stessa e dalle sue disuguaglianze e frutto di processi storici, politici ed economici. Tale violenza si esplica attraverso la limitazione della capacità di azione di soggetti che occupano la posizione più marginale in contesti segnati da profonde disuguaglianze sociali.

Anche Bauman facendo riferimento alla stratificata società dei consumi, dirà che «tutti noi siamo condannati ad una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere»[26].

Tale discorso è ancora più vero e drammatico se prendiamo in considerazione una delle categorie più marginali dei contesti urbani contemporanei, in particolare italiani e nello specifico del territorio di Roma che è oggetto di questa ricerca, ovvero l'immigrato.

Un’illustre studioso della condizione di sofferenza e ambiguità che caratterizza l’esperienza della migrazione “in generale” è Abdelmalek Sayad, il quale, considerato come “fondatore della scienza delle migrazioni”, ha ridefinito la condizione di ambiguità e ibridità a cui è costretto il migrante che, in quanto contemporaneamente immigrato ed emigrato, non è cittadino di pieno diritto né nella società di provenienza né in quella di approdo[27]; e così facendo ha ripreso il concetto di “erranza”  e rivisitato il fenomeno migratorio che la maggior parte delle scienze sociali è stata incapace di analizzare sotto il suo insito duplice profilo di immigrazione-emigrazione, soffermandosi solo sul primo lato della medaglia, in modo nettamente parziale ed etnocentrico. Oltre la  «questione apparentemente tecnica viene posto oggettivamente l'intero problema della legittimità dell'immigrazione, problema che tormenta tutti i discorsi di natura analoga. Non c'è pressoché alcun discorso sugli immigrati e sulla funzione dell'immigrazione, soprattutto quando è svolto esplicitamente e scientemente, come nel caso della "teoria economica dei costi e dei profitti comparati dell'immigrazione", che non consista ora nel legittimare ora nel denunciare l'illegittimità fondamentale dell'immigrazione»[28].

Bauman[29] è tra gli studiosi che hanno incentrato la propria riflessione sullo “straniero” come figura ambigua e “inclassificabile”, in quanto non compresa all’interno delle tradizionali opposizioni binarie tra amici- nemici (trasposizione a sua volta della dialettica tra interno- esterno), separazioni “asimmetriche”, dal momento in cui l’opposizione è il prodotto e la condizione del dominio narrativo degli amici e della narrativa degli amici come dominio. Lo straniero, invece, è portatore di una minaccia più pericolosa di quella del nemico, perché minaccia l’associazione stessa e, dato che l’opposizione è il fondamento su cui si basano la vita sociale e  le differenze che ne sono parte e la conservano, lo straniero mina le fondamenta della vita sociale stessa. E tutto questo perché lo straniero non è né un amico né un nemico: potrebbe essere entrambi. La sotto determinazione degli stranieri stessi è la loro potenza: poiché non sono niente essi potrebbero essere tutto. Essi mettono fine all’ordine del potere dell’opposizione. «Gli stranieri […] sono principalmente indefinibili. Sono quel “terzo elemento” che non ci dovrebbe essere. I veri ibridi, i mostri: non proprio inclassificati ma inclassificabili»[30].

Ne La società dell’incertezza Bauman associa la condizione generalizzata di incertezza che caratterizza l’assetto societario dal punto di vista strutturale, politico, economico, al carattere sempre più provvisorio che vanno assumendo le relazioni sociali e la stessa identità individuale, definita come “identità a palinsesto”[31], in quanto si configura come graduale assunzione di maschere sempre cangianti che ridefiniscono in modo fluttuante una personalità fragile e provvisoria, manifestazione più ovvia e immediata della nuova “libertà” che caratterizza la società postmoderna. Il principio di realtà su cui si fondava la società moderna viene, infatti, soppiantato dal principio del piacere e libertà, che si traduce però in un’assenza di punti di riferimento stabili su cui costruire i propri percorsi esistenziali ed identitari, e in corrispettiva nell’aumento dell’incertezza.

In questa condizione di precarietà, anonimato, solitudine del cittadino delle metropoli post-moderne, lo straniero diventa un essere trasparente, invisibile, privo di specificità particolari. Ed è proprio qui che si manifesta il suo carattere più ambivalente: se da un lato, infatti, lo straniero, al pari degli altri cittadini, recita nell’anonimato la sua parte “invisibile” di uomo alla ricerca di opportunità in cui esercitare la propria libertà, dall’altra diviene visibile e desta curiosità in quanto portatore di “differenza” e, quindi, esemplificazione di una possibilità reale di uscire dalla monotonia e di sperimentare forme di esistenza innovative e originali. Anche se, sottolinea Bauman, questa diversità è ambivalente essa stessa, in quanto sia risorsa, perché spinta al mutamento, che “condanna”, perché suscita un senso di minaccia e pericolo suscettibile di contaminare quel poco di certezza rimasta nella società, generando quindi sentimenti contrastanti di timore-curiosità, rifiuto-attrazione.

All'interno di queste dinamiche relazioni e di esercizio di potere e consenso, si sviluppa la cittadinanza.

Il nodo della rappresentanza indica il gap che si viene a creare tra cittadini/interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti. L'aspetto importante all'interno di queste dinamiche, infatti, non è tanto la rappresentanza, che indica un concetto generale, quanto il concetto operativo di rilevanza di un attore sociale nei processi di partecipazione democratica, ovvero la sua capacità di avere peso nel policy making.

I rapporti di forza politici vengono rispecchiati nel triangolo che si crea tra legittimazione-consenso e controllo sociale. Se da un lato, infatti, l'istituzione legittima il cittadino, in corrispondenza questi darà il suo consenso all'istituzione stessa, che esercita così un controllo sociale sulla medesima popolazione. Da questa dialettica complessa si sviluppa poi la governance.

Il meccanismo della governance che comprende al suo interno diversi livelli (istituzioni, terzo settore) cerca di rimediare al gap tra cittadini e interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti.

Lavorare sulla costruzione di un’ “Integrazione civica” significa avviare un processo di socializzazione alla cittadinanza attraverso la partecipazione a forme di cittadinanza attiva e quindi alla presenza nei processi di policy making al fine di tutelare diritti, curare beni comuni e rafforzare soggetti in difficoltà.

 

1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio.

Nell’avviarsi alle conclusioni di questa parte introduttiva si rende necessario riprendere due concetti sopra espressi per analizzare il contesto in cui si trova a lavorare chi fa progettazione sociale in un territorio urbano.

Non solo, abbiamo detto, ci troviamo di fronte a un territorio sempre più “liquido”, i cui cambiamenti si susseguono rapidamente e in maniera imprevedibile, ma, a causa di un rapporto sempre più virtuale delle persone con il proprio territorio, è inoltre aumentato oggi il rischio di cadere nella marginalità sociale, di essere esclusi dalla comunità e di perdere la possibilità di agire sulla realtà.

In questo contesto allora, fare progettazione sociale significa operare per ridurre queste marginalità e per ridistribuire il rischio di cadervi, ma significa farlo in un territorio in costante mutamento, dove spazi e relazioni sono continuamente rinegoziati e dove ad agire sono inevitabilmente relazioni di potere e gerarchie di valore.

Progettare e gestire un territorio è infatti compito delle Istituzioni e rientra nel sistema di consenso da queste messo in atto, ne è riproduzione di fatto e si inserisce in quel triangolo ricorsivo, di cui si parlava sopra, che genera forme di controllo sociale. Attraverso l’erogazione di bandi e la realizzazione di progetti le Istituzioni offrono legittimazione e ottengono il consenso di quella parte di società civile che di volta in volta risulta come destinataria delle sue attenzioni.

        Progettare un territorio vuol dire agire politicamente su di esso ed inserirsi nelle dinamiche di delega e rappresentanza, consenso e legittimazione che caratterizzano le relazioni tra chi governa e chi abita una città.

Emerge, allora, la figura del progettatore sociale[32] come mediatore tra le istanze delle Istituzioni e quelle della società civile, impegnato a favorire l'incontro tra le prime e i bisogni dei cittadini, anche, o soprattutto, di quelli che, trovandosi in una condizione di marginalità tenderanno a non esprimere i propri bisogni, a lasciarli sommersi.

Presupposto della progettazione è dunque innanzitutto una conoscenza tanto del territorio e delle relazioni di forza che lo attraversano, quanto di quelle istanze che il progettatore si troverà a mediare.

 

Ma come fare a conoscere un territorio che abbiamo detto essere di per sé incerto e mutevole?

 

Una volta abbandonata, con il passaggio alla post-modernità, la pretesa di dare un significato univoco alla realtà, di considerare l’Universo come Uni –Verso [33], “l’epistemologia della certezza” ha lasciato il posto “all’epistemologia del dubbio”[34]. Ad essere messa in discussione è stata la conoscenza ontologica, ovvero la possibilità stessa di conoscere l’oggetto osservato, e l’idea conseguente che l’osservazione che si fa sia l’unica possibile.

 Il ricercatore non potrà mai conoscere il territorio allora, ma solo formularne una mappa, consapevole del fatto che la sua sarà solo una delle infinite possibili interpretazioni e rappresentazioni di quel territorio e che ogni mappa precederà sempre nel tempo il territorio, che nel momento in cui viene rappresentato è già di nuovo mutato secondo variabili casuali.

 La mappa è il territorio, sostiene Bateson[35] . Nell’indagare i processi mentali che portano alla conoscenza, l’antropologo americano sostiene che costruire mappe è l’unico strumento che il ricercatore ha a disposizione per conoscere il territorio, per farsene un’idea per approssimazione. Essendo dunque l’unico oggetto conoscibile, la mappa coincide con il territorio.

Entriamo infatti nel campo dell’epistemologia e la mappa che il ricercatore produce non comunicherà mai il territorio in sé, quanto la relazione che instaura con esso, l’esperienza che ne fa e che sola può trasformarsi in conoscenza.

Ma cosa possiamo conoscere allora di un territorio?

 

Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?. Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza […]. [36]

 

Il ricercatore di fatto non può che procedere per negazioni, costruendo delle euristiche, ed annotando sulla sua mappa la distanza tra ciò che non è la realtà e ciò che potrebbe essere, rintracciando informazioni a partire dagli “errori”, dalle differenze e dai mutamenti.

 

[…] la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza, e la percezione della differenza è sempre limitata da una soglia. Le differenze troppo lievi o presentate troppo lentamente non sono percettibili: non offrono alimento alla percezione.[37]

 

Ecco perché affidarsi ai dati quantitativo-statistici della ricerca sociologica non può essere sufficiente, ma è invece necessario servirsi di dati qualitativi che meglio riescano ad individuare ciò che si osserva (consapevoli che non è la realtà) e a fornirci informazioni sull’orientamento delle azioni e sulle tendenze della realtà[38].

Alla base di una buona mappatura ci sarà dunque quella che Clifford Geertz definisce “descrizione densa” (thick description), una descrizione che procede per formulazioni teoriche orientate sul punto di vista degli attori, sul contesto dell’azione e non solo attenta ad una registrazione tassonomica di quell’azione (descrizione esigua)[39]. Una descrizione, dunque, capace di cogliere e poi rendere “[…] la differenza tra un tic ed un ammiccamento, che per quanto non fotografabile, è grande, come sa chiunque sia abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro.”. [40]

In questo modo il ricercatore, attraverso un’indagine etnografica, potrà costruire degli indicatori cultorologici (attraverso l’uso di dati secondari- statistici e di dati qualitativi) in grado di rilevare la dinamica delle azioni, il loro orientamento e trend di mutamento, che sarà poi punto di partenza, ma anche di arrivo dell’attività di progettazione. Le fasi della ricerca sono infatti immanenti e si susseguono  in un processo ricorsivo che fa della ricerca/progettazione un percorso continuo di apprendimento.[41]

 

Entriamo allora nell’ulteriore questione che si trova ad affrontare chi fa progettazione sociale: ogni epistemologia è sempre personale, per tornare a Bateson, e la ricerca/progettazione non può prescindere dalla presenza di una gerarchia di valori che rende impossibile la neutralità ed inevitabile il pregiudizio.

Dunque non è insito solamente il rischio che la gestione del territorio sia in mano alle scelte di chi governa una città, ma anche che il processo conoscitivo, di per sé partecipativo, veicoli la visione soggettiva della realtà del ricercatore/progettatore, che renda egemone la mappatura proposta.

Fare progettazione ha sempre una valenza etica, nel senso che ha sempre a che fare, come presupposto e come obiettivo, con la distribuzione dei valori in una società. Fare progettazione sociale, poi, come già accennato, ha l’ulteriore compito di ridistribuire questi valori affinché si riduca il rischio di esclusione e di marginalità in quella società, affinché l’accesso alle risorse di un territorio e ai diritti sia equamente distribuito e le persone riacquistino la capacità di agire sul contesto in cui vivono.

Negli ultimi anni la progettazione partecipata viene generalmente considerata la via da seguire per scongiungere i rischi di costruire mappe egemoni, il modo in cui generare percorsi di democrazia “dal basso” e riattivare sentimenti di appartenenza a una comunità e a un territorio. La legge 328/00, e prima la legge 285/97, sono i principali strumenti normativi ideati proprio per capovolgere le dinamiche di Governance in funzione di una sussidiarietà orizzontale, capace di delegare la gestione del territorio attraverso la compartecipazione di più soggetti.

In particolare, si è cominciato ad usare tecniche di progettazione partecipata in relazione alla progettazione sociale (ad es. con la costruzione dei Piani di Zona), dove il coinvolgimento dei cittadini/utenti diventa innanzitutto valorizzazione del loro ruolo di attori di cambiamento e promotori di sviluppo di comunità.

In tal senso la progettazione partecipata diventa processo educativo, in cui tutti gli attori prendono, e sono parte, di un mutamento reciproco; suppone e genera un approccio interculturale, infatti, capace di cogliere la dinamicità del contesto e delle relazioni, di coltivare una prospettiva critica e dialogica, mettendola in pratica nella trasformazione della realtà. Ecco allora che la conoscenza diventa azione e torna ancora conoscenza in un continuum ricorsivo proprio di ogni processo di apprendimento[42].

Nella pratica e nelle realtà territoriali, però, la funzionalità di questo strumento si scontra con notevoli difficoltà e paradossi, di cui prima, in relazione al Tavolo Immigrazione, si è dato qualche accenno e che la presente ricerca si propone di indagare.

Attorno a un tavolo di progettazione si siederanno infatti persone e realtà portatrici di interessi specifici, più o meno forti: la pubblica amministrazione e le Istituzioni, la grande o piccola Associazione, il singolo cittadino, ed il rischio che l’effettiva partecipazione di tutti sia compromessa, sminuita o, ancor peggio, strumentalizzata è reale.

Fare progettazione partecipata significa fare un lavoro molto complesso di contrattazione e il progettatore, nel ruolo di mediatore ed animatore, non dovrà solamente suscitare la condivisione di informazioni, esigenze e percezioni tra gli attori interessati e coinvolti, ma condividere innanzitutto con loro la mappa, la visione del territorio e dei bisogni di chi lo abita.


 

 

CAPITOLO 2   Reti commerciali e comunità



2.1 Scambi economici e legami sociali

 

 

Il presente lavoro di ricerca si concentra sull’analisi delle reti economiche e commerciali della popolazione straniera del Municipio X con l’intento di costruire una mappa del territorio che, attraverso le relazioni economiche, sappia mostrare i legami che s’instaurano tra le comunità straniere che vivono il territorio e tra queste e la popolazione italiana.

            Uno scambio economico, infatti, ha un ruolo rilevante nella costruzione e nel mantenimento dei legami sociali, anche se oggi, lungo i corridoi di un centro commerciale o gli scaffali di un grande supermercato si fa davvero fatica a riconoscerlo.

Già dagli inizi del secolo scorso l’Antropologia Economica ci ha fornito esempi di scambi economici in cui lo scambio di oggetti era mezzo per veicolare altri significati: per stringere alleanze, per affermare uno status sociale, per mantenere relazioni. Pensiamo al Kula studiato da Malinowski (1922) o al Potlach analizzato da Boas (1897): Marcel Mauss ne parla nel suo celebre Saggio sul dono (1924)[43], evidenziando come le motivazioni economiche degli scambi in queste società fossero inserite in rituali istituiti, funzionali all’equilibrio della società. Mauss ci parla dello hau, dello “spirito della cosa donata”, che innesca meccanismi di reciprocità fatti di un dare, ricevere e ricambiare insiti nell’oggetto scambiato, eppure contemporaneamente inseriti in un contesto più ampio di relazioni sociali, politiche, religiose.

Per molto tempo si è considerata tale peculiarità prerogativa di società “semplici”, extraoccidentali, in cui non c’erano né il meccanismo di mercato, né il denaro a regolare gli scambi, ritenuti invece “colpevoli” dagli studiosi di aver reso anonimo, razionale e utilitaristico lo scambio[44].

È la grande trasformazione di cui ci parla Polanyi[45], che si è avuta con l’avvento del capitalismo moderno, che ha visto la creazione di un’istituzione, come quella di mercato, in grado di invadere le altre sfere della vita sociale, provocando una desertificazione del tessuto sociale.

È il capitalismo moderno, però, continua Polanyi, a rappresentare un’anomalia, “una forma economica innaturale”, in cui il sistema economico si è andato a fondere con la logica utilitarista e razionale e l’economia è rimasta incastonata nelle istituzioni di mercato[46]. Ogni sistema economico, infatti, è sempre incorporato (embedded) nelle istituzioni sociali, che rappresentano “la messa a punto di un sistema convenzionale di relazioni sociali e politiche, sotto forma di routine collettive”[47].

Attualmente, sempre di più, non solo si tende a valorizzare la prospettiva dei “mercati molteplici”[48] e ad affermare dunque la possibilità che forme differenti di scambi economici convivano insieme, ma si tende anche a riconoscere che il movente razionale che dovrebbe guidare lo scambio sul mercato è sempre influenzato da fattori sociali, culturali, politici, emotivi ed in maniera molto complessa.

            La fiducia ad esempio è uno dei fattori emotivi che principalmente influisce sulle relazioni economiche, ma è interessante notare come si possa generare fiducia tanto attraverso una relazione diretta e continuativa, (ad esempio con il negoziante sotto casa) quanto attraverso la condivisione di un universo morale, non necessariamente collegato ad una conoscenza reale tra le persone (pensiamo al fenomeno del file sharing in rete, ad esempio)[49].

            Nel nostro caso, per la costruzione della nostra mappa, abbiamo scelto di osservare le comunità di consumatori che frequentano alcuni piccoli negozi al dettaglio gestiti da stranieri e le reti che a partire dall’esercizio commerciale sembrano articolarsi sul territorio.

Ogni volta che abbiamo incontrato un negozio gestito da stranieri siamo entrati ad osservare i prodotti venduti e a chiacchierare in maniera informale con i proprietari: ad eccezione di un internet point, abbiamo sempre incontrato piccoli negozi di alimentari.

Mappare un territorio a partire dalle relazioni economiche e dalle dinamiche commerciali, ci accorgiamo da subito, diventa punto di vista privilegiato per osservare le relazioni tra le comunità che vivono un territorio.

Nella prima parte di questo capitolo ci soffermeremo sull’analisi del contesto economico e commerciale del Municipio attraverso i dati secondari reperiti, successivamente lasceremo la parola ai testimoni privilegiati intervistati e alle note delle osservazioni di campo, per giungere infine a delle ipotesi conclusive che tentino di incrociare dati qualitativi e quantitativi in una proposta di progettazione.

 

2.2 L’analisi dei dati secondari: tessuto produttivo e imprenditoria straniera nel X° Municipio.

 

Nel X° Municipio, in cui risiedono, al 2011, 226.084 abitanti, circa il 10 % sono di origine straniera, e, principalmente, provengono dall’Europa Comunitaria. È una percentuale relativamente bassa se confrontata con gli altri Municipi di Roma in cui la presenza straniera raggiunge il 12% del totale d’iscritti all’anagrafe.

Nello specifico del Municipio X, è la comunità rumena la più numerosa (33,2%), seguita da quella polacca (9,5%), egiziana (5,4%), srilankese (5,1%) ed ucraina (4,2%).[50]

Da un’analisi compiuta dal Comitato Locale 6 del Municipio[51] vediamo come, per quanto riguarda il contesto economico, il Municipio X ha notevoli somiglianze con le altre zone periferiche della Capitale, mantenendo tuttavia dei tratti distintivi. Come gli altri Municipi periferici, infatti, soffre le scelte delle imprese romane principalmente concentrate nei primi due Municipi, con evidenti ripercussioni sulla disoccupazione dei suoi residenti, più alta rispetto alla media romana.

Rispetto agli altri Municipi invece, il Municipio X detiene la più alta percentuale di addetti alle unità industriali nell’Agricoltura, mentre si pone in posizione intermedia per quanto riguarda la presenza di addetti alle Costruzioni e al terziario commerciale (compreso quello degli esercizi turistici) e risulta carente, invece, in tutte le altre attività del terziario avanzato.

La vocazione imprenditoriale del territorio è chiaramente quella di un terziario di servizio al consumo, legata più al Commercio che alle strutture ricettive turistiche. Il settore turistico dell’unico Municipio romano che affaccia sul mare mostra infatti le sue fragilità, mentre, quello commerciale, pur mantenendosi solido, tende a trasformarsi. Negli ultimi anni infatti, nel settore del Commercio c’è stata una diminuzione delle unità locali e un aumento degli addetti, dovuto alla chiusura dei piccoli negozi, e alla contemporanea apertura dei punti vendita di maggiori dimensione. Si tratta tuttavia di un processo avviato che non mostra ancora tratti evidenti come in altre zone periferiche romane: il Municipio X mantiene ancora una rete di distribuzione commerciale dispersa sul territorio con piccoli negozi.

Secondo i dati del Comune di Roma[52], riferiti al 2012, nell’area del Municipio X sono presenti 6,258 esercizi commerciali di cui molti (2,742) legati al commercio in sede fissa, seguiti dai mestieri artigianali (1,687) e dai pubblici esercizi (1,188).  

Nel “commercio in sede fissa” rientrano tutti i negozi al dettaglio di piccole, medie o grandi dimensioni (fino ai centri commerciali), mentre tra i pubblici esercizi si considerano quelli legati all’attività recettiva (alberghi e pensioni), alla ristorazione (bar e ristoranti), ma anche gli internet point.

Tra i mestieri artigianali il più diffuso nel Municipio è quello edile (il 20,8% delle imprese artigiane è costituito da ditte edili), seguito da elettricisti e idraulici (il 16,3% delle imprese artigiane locali è impegnato nel settore impiantistico collegato, ovviamente in parte, al settore edile), dato che rispecchia l’incisiva espansione urbanistica nei quartieri del territorio, soprattutto dovuta ai nuovi insediamenti costruiti tra Acilia e Malafede.[53]

            Secondo i dati fornitici dall’Ufficio del Commercio del Municipio X sappiamo che di quei 6,258 esercizi commerciali attivi nel territorio 686 (più del 10%) hanno un titolare o un titolare in gestione d’origine straniera. Nello specifico, come si vede nella tabella sottostante, le principali attività imprenditoriali degli stranieri riguardano il commercio in sede fissa (354 attività) e l’artigianato (179).

 

Numero Titolari e Titolari in Gestione Stranieri di esercizi Attivi sul X Municipio Ex XIII Municipio

     
     

Numero Titolare e Gestori

Codice Macro Attività

Descrizione Macro Attività

354

1

COMMERCIO IN SEDE FISSA

88

3

PUBBLICI ESERCIZI

40

5

ACCONCIATORI ED ESTETISTI

179

6

ARTIGIANATO

16

7

Ex art. 19 del D.P.R. 616/77 (T.U.L.P.S.)

9

8

ALTRE ATTIVITA'

 

 

Secondo la Dr.ssa Giungato, responsabile dell’Ufficio del Commercio del Municipio, “gli stranieri s’inseriscono nella fascia di piccolo mercato che agli italiani non interessa più: le frutterie, il lavaggio macchine, i piccoli negozi di abbigliamento. Ma soprattutto sono molti gli stranieri che chiedono in gestione banchi dei mercati…. Che è un lavoro davvero pesante.”

Nei 5 mercati giornalieri del Municipio[54], su un totale di 232 banchi, 27 sono gestiti da stranieri, con una grande presenza di egiziani (in 15 banchi), seguiti da bengalesi (4 banchi) e rumeni (2 banchi).[55] Nei mercati saltuari invece cresce il numero di presenze straniere (135 banchi), di cui 55 sono i banchi gestiti da cittadini bengalesi (si tratta per lo più di banchi “non alimentari” in cui la persona che li gestisce non è il titolare), 35 da marocchini e 21 da cittadini cinesi. Infine, riguardo i mercati itineranti troviamo un dato degno di nota. Sono 41 i banchi affidati a persone straniere, di cui 38 risultano titolari e soltanto 3 gestori. Tra le principali presenze troviamo il Marocco con 11 banchi, il Bangladesh con 8 e l’Egitto e il Pakistan con 5. Si tratta nella maggioranza dei casi di banchi “non alimentari”[56].

Purtroppo non abbiamo informazioni recenti circa la nazionalità dei titolari o gestori di attività di commercio fisso; una ricerca più completa, curata dalla Camera del Commercio di Roma, risale infatti al 2008 e riguarda nella sua totalità le imprese con titolare straniero per Municipio. 

Secondo tale ricerca[57] nel 2007 il X° (ex XIII) Municipio contava 1.090 imprese con titolare o soci stranieri, ponendosi al 5° posto rispetto agli altri Municipi di Roma per numero d’imprese. Nel 68% dei casi i gestori o titolari sono di origine extracomunitaria. “ L’area accoglie il 6,1 % dell’intero apparato imprenditoriale di marca etnica presente su tutto il territorio cittadino. Dai dati articolati per i grandi rami di attività economica emerge l’orientamento di fondo comune tra gli immigrati a favore dell’offerta dei servizi (525 unità) ivi comprese le cosiddette Altre Attività (117), ma anche un altrettanto rilevante attitudine ad impegnarsi nell’edilizia (25,5 %)”. Questi dati che rispecchiano le scelte degli imprenditori stranieri sono perfettamente in linea con l’andamento del tessuto produttivo del Municipio visto in precedenza, che vedeva una preponderanza di servizi al consumo. Secondo la ricerca della Camera di Commercio poi “tra le etnie prevalenti vi sono quella rumena, rappresentata da 155 unità per lo più dedite all’attività di costruzione (3 operatori su 4 della stessa nazionalità) e quella egiziana, più impegnata nella produzione di beni”.

Questi dati, insieme a quelli qualitativi raccolti sul campo che avremo modo di vedere in seguito, rispecchiano una tendenza romana, ma anche nazionale che vede alcune nazionalità particolarmente attive nel campo imprenditoriale.

Secondo il Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, l’imprenditoria dei cittadini stranieri in Italia, anche nel 2011[58], ha continuato a crescere notevolmente rappresentando una sorta di ammortizzatore sociale. L’espansione dell’imprenditoria straniera si contrappone, infatti, alla diminuzione delle imprese autoctone e mitiga così l’erosione complessiva del tessuto imprenditoriale del nostro paese.

“…[59] l’attivismo imprenditoriale degli immigrati è in grado di raggiungere risultati economici significativi anche in mercati concorrenziali, grazie al supporto delle reti etniche e di un capitale culturale legato al paese di origine..”.

Secondo i dati del Centro Studi della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa (CNA) si segnala che a fine 2011 gli imprenditori stranieri hanno superato per la prima volta le 400 mila unità (440.145). In questo modo, l’imprenditoria straniera in Italia ha registrato un aumento dell’ 8,3 rispetto al 2010 e del 48,7 rispetto al 2005. Il peso dell’imprenditoria straniera in Italia ha raggiunto a fine 2011 il 9,1%.[60]

Ancor più interessante è rilevare come sia Roma la prima provincia in Italia per imprenditori stranieri in valore assoluto e, la tabella che segue, mostra altresì l’incremento del 71,2 % avutosi nel periodo 2006 – 2011.

 

 

Imprenditori stranieri nelle prime cinque province italiane, 1 sem. 2011

 

Provincia

Val. ass. I sem. 2011

Distrib. %

Stranieri / totale (in %)

Donne straniere /totale stranieri (in %)

Var. % I sem. 2011 / I sem. 2010

Var. % I sem. 2011 / I sem. 2006

Roma

32.232

8,0

14,8

23,0

4,1

71,2

Milano

27.439

6.8

16.4

24.6

4.6

30.7

Torino

20.652

5.1

11.3

23.6

2.9

60.4

Firenze

13.208

3.3

15.2

26.0

1.5

40.5

Brescia

9.668

2.4

11.2

22.6

4.3

49.9

FONTE: Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Infocamere

 

La tabella successiva mostra invece le prime tre nazionalità di provenienza dei titolari e soci di imprese ovvero Bangladesh, Romania, Cina. Nel 2011 si assiste al sorpasso del Bangladesh ai danni della Romania in un contesto generale che vede aumentare del 9.3 percento nel 2011 il numero di titolari e soci di imprese rispetto all’anno precedente.


 

 

 

ROMA - Titolari e soci nati all’estero al 31 dicembre 2011: primi 3 paesi di nascita

 

Stato di nascita

V.A.

Diff. Pos. 2010

Bangladesh

6.647

+1

Romania

6.311

-1

Cina

3.265

=

Totale al 31/12/2011

36.321

 

Totale al 31/12/2010

33.230

 

Totale al 31/12/2009

30.535

 

 

 

 

FONTE: Elaborazione a cura dell’Ufficio Studi della CCIIAA di Roma su dati Infocamere

É interessante infine notare, anche se i dati non sono recenti (2008), come, secondo una ricerca Idos sulla Provincia di Roma, ci sia una differenziazione etnica in alcuni settori. Risulta infatti che i romeni manifestino una netta propensione ad occuparsi del settore edilizio (2,560 imprenditori su un totale di 3,249), bengalesi e cinesi prediligano il settore dei servizi, con prevalenza del commercio, mentre gli egiziani sembrano ripartirsi in maniera più equilibrata tra i vari settori di attività. [61]

A seguito del quadro sin qui proposto, è infine opportuno rilevare  come le famiglie straniere siano generalmente più povere delle famiglie italiane, mantenendo tuttavia una più alta propensione al consumo.

Uno studio della Fondazione Leone Moressa[62] su dati della Banca d’Italia mostra come il reddito di una famiglia straniera ammonti mediamente a 18.674 euro, quasi il 45% in meno rispetto ad una famiglia italiana. D’altro lato, il consumo medio annuo è di € 18.038, quando invece una famiglia di origine spende all’anno 25.608 euro (il 30% in meno).

 

 

Redditi, consumi, risparmi e povertà economica delle famiglie

 

 

Famiglia straniera

Famiglia italiana

Totale Famiglie

Diff. % fam. str. / fam. It.

Reddito familiare (in €)

18.674

33.588

32.714

-44,4

Consumo familiare (in €)

18.038

25.608

25.164

-29.6

Risparmio familiare (in  €)

636

7.980

7.550

-92,0

Propensione al consumo

96.6

76.2

76.9

 

Indice di povertà economica

42.2

12.6

14.4

 

 

FONTE: Elaborazione Fondazione Leone Moressa su dati Banca d’Italia


 

2.3 Gerarchie commerciali e culturali tra comunità: comunità rumena e bengalese a confronto.

 

 

La scarsità di dati secondari specifici sulla realtà del Municipio X in merito alle reti commerciali dei cittadini stranieri residenti viene qui arricchita dai dati qualitativi raccolti attraverso colloqui informali con gestori di esercizi commerciali, interviste ad informatori privilegiati ed intensa osservazione partecipante sul territorio. Sebbene con le dovute diversità e specificità legate ad un Municipio così ampio, abbiamo scelto in questa sede di riunire i dati raccolti nelle diverse zone (Ostia, Acilia ed Infernetto) per fornire una mappa che lasci emergere un trend della realtà osservata in funzione di una possibile progettazione sociale sul territorio.

Le comunità prese in esame e qui messe a confronto sono quelle rumena e bengalese, che non solo rappresentano due delle comunità più numerose sul territorio, ma anche quelle più “attive” in termini di imprenditorialità e presenza nell’area delle attività commerciali, rispecchiando, come abbiamo visto dai dati del paragrafo precedente, un tendenza non solo romana, ma nazionale.

Gli esercizi commerciali visitati sono piccoli negozi al dettaglio, in cui vengono venduti per lo più prodotti alimentari. Nel nostro percorso abbiamo incontrato con più facilità minimarket e macellerie gestite da cittadini bengalesi e rumeni. Solo in un caso una macelleria, che vende per lo più prodotti provenienti dalla Romania, è risultata essere gestita da un signore italiano insieme ad una ragazza rumena.

Il primo dato che emerge riguarda proprio la scelta dei prodotti messi in vendita in questi negozi che ci apre lo scenario sui consumatori e sulla clientela scelta, ed indirettamente ci permette di cogliere le relazioni che si intessono tra le diverse comunità straniere e i cittadini/clienti italiani.

I negozi visitati gestiti dai rumeni hanno una parte adibita a macelleria, generalmente il prodotto principale della vendita, e solo collateralmente troviamo scaffali pieni di generi alimentari secchi o in scatola provenienti per lo più dai paesi dell’Est Europa: biscotti, zuppe, salse, vini.

La clientela è principalmente rumena o polacca, ci viene detto: infatti, malgrado la carne sia italiana, gli italiani tendono a non acquistare in questi negozi.

Nel caso della macelleria di Infernetto il motivo sembrerebbe più legato ad una certa “cultura alimentare” che vede i rumeni acquistare grandi quantità di carne rispetto agli italiani “che si limitano a comprare la fettina per cena[63]. Spostandoci ad Ostia invece, nel piccolo negozio gestito da A., vicino la stazione Lido Centro, le ragioni sembrano essere altre.

A suo avviso “gli italiani sono razzisti.... anche se il prezzo della carne è più basso e la carne è italiana, loro non la comprano. Solo gli italiani che convivono con una ragazza rumena vengono nel mio negozio, anche da molto lontano”.

Sembrerebbe una questione di “fiducia”, senza considerare le abitudini d’acquisto legate sempre più alla grande distribuzione, ma entrando nel suo negozio colpiscono i cartelli delle promozioni scritti in rumeno, che denotano una scelta compiuta in termini di clientela preferenziale, lasciando aperto il dubbio se si tratti di una volontà assunta o subita come conseguenza di un’esclusione.

I negozi gestiti dai cittadini bengalesi offrono invece uno scenario differente.

Negli esercizi commerciali visitati i prodotti in vendita provengono da varie parti del mondo e si tratta spesso di prodotti particolari non in vendita comunemente, soprattutto per quanto riguarda la frutta e la verdura: ci sono prodotti importati dalla Cina, dall’India, dalla Romania, dal sud America, dalle Filippine, oltre che italiani. E se i prodotti esteri sembrano avere dei prezzi abbastanza bassi, prediligendo anche prodotti non di marca (ad esempio per quanto riguarda i prodotti rumeni), i prodotti italiani più comuni come vino e pasta sembrano avere dei prezzi leggermente maggiori. La clientela, ci viene detto da tutti i gestori, è prevalentemente straniera, in qualcuno “gli italiani non entrano proprio” e i principali consumatori sono rumeni, filippini, cinesi, oltre che bengalesi.

E’ di particolare importanza sottolineare come, a differenza dei negozi rumeni, quelli bengalesi si rivolgano ad una clientela che va al di là dei confini della propria comunità di appartenenza e, anzi, come spesso,  la scelta dei prodotti sembri determinata da un preciso “studio di mercato” che vede i cittadini rumeni o polacchi i principali destinatari dell’offerta commerciale.

Secondo A., che ha la macelleria nello stesso isolato di un minimarket bengalese, “loro hanno capito l’importanza della clientela rumena e abbassano i prezzi accontentandosi di un minor ricavo”. Sta di fatto che non è difficile trovare fuori da un alimentare gestito da cittadini bengalesi cartelli e pubblicità dei prodotti rumeni e polacchi venduti all’interno.

Si cominciano dunque a delineare delle gerarchie nelle relazioni commerciali tra le comunità che vedono, da un lato, la comunità rumena, che ricordiamo essere la più numerosa nel Municipio, come comunità consumatrice per eccellenza, e la comunità bengalese al centro delle dinamiche economiche intercomunitarie.

Cerchiamo di comprendere meglio quest’ultimo aspetto a partire da due esempi tra loro differenti, che ugualmente però ci lasciano intravedere, non solo le relazioni socio economiche instaurate tra le comunità straniere, ma anche il loro legame con le reti formali, istituzionali, da cui sembrano distaccarsi.

Ascoltando le parole di B. intervistato nel negozio di alimentari ed internet point di cui è titolare ad Acilia, ci accorgiamo di come il suo essere imprenditore si intrecci strutturalmente con il suo ruolo sociale e politico.

B., infatti, è innanzitutto referente di Infernetto e Acilia per la comunità bengalese a Roma, ma ha anche un ruolo nel consiglio del Municipio X°. È inoltre presidente di un’Associazione che da due anni gestisce un centro culturale islamico situato a pochi passi dal suo negozio all’interno di uno spazio ottenuto dal Comune.

E’ interessante guardare alla rete costruita da B. all’interno della sua comunità di appartenenza: è referente per la sua comunità e sono molti i connazionali che si rivolgono a lui per informazioni di vario genere, ma anche per un appoggio economico e un alloggio.

Nel suo negozio incontriamo suo cugino che adesso lavora per lui: è in Italia da 4 anni, ma non parla molto l’italiano; è arrivato nel nostro paese lasciando in Bangladesh la moglie e una bimba piccola, che ancora non ha rivisto ed ha vissuto in clandestinità per molti anni vendendo ombrelli per strada e appoggiandosi da conoscenti. Da un paio d’anni lavora con B. ed è ospite a casa sua. B. definisce l’unità, quale l’elemento di forza della comunità bengalese e sottolinea come la rete informale di relazioni interne abbia una rilevanza cruciale: “non capiterà mai che un bengalese dorma per strada”, ci dice, aggiungendo che attualmente ospita, oltre al cugino, altri due connazionali.

Ma è necessario andar oltre i confini comunitari per accorgerci dell’ampiezza di questa rete. A partire dagli scaffali del suo negozio e dalle sue nuove idee imprenditoriali si delineano pian piano relazioni economiche intercomunitarie che diventano e ugualmente generano legami sociali, culturali e politici tra le comunità straniere.

Al di là delle considerazioni fatte precedentemente rispetto ai prodotti alimentari venduti, B. ci racconta dei suoi progetti in cantiere: il primo prospetta l’apertura di una macelleria Halal “dato che ad Acilia manca, i musulmani devono sempre andare fino ad Ostia”; il secondo invece riguarda la creazione di un “orto urbano” per coltivare verdure orientali, il Kushber (coriandolo) in primis, invece di importarle, e ne sta discutendo insieme a D., rom bosniaco che abita nel campo di Dragona, cercando insieme a lui un terreno di pochi ettari dove costruire un capannone e produrre in maniera costante. Ma ancora, nelle sue intenzioni imprenditoriali, c’è sempre il riferimento alla possibilità in questo modo di trovare occupazione a giovani onesti, capaci di investire su questi lavori e non solo suoi connazionali: attraverso le sue attività ha già dato lavoro ad un ragazzo egiziano e ad una ragazza rumena e ci dice che spesso molti italiani si rivolgono a lui alla ricerca di un bravo lavoratore.

Raggiungiamo così l’ultimo livello di questa rete, ovvero il ruolo che essa assume nei confronti della rete formale dei servizi agli immigrati e non è un caso che vi arriviamo a partire dagli scaffali di un negozio.

La rete della comunità bengalese risulta, da diverse persone intervistate, molto organizzata e molto forte al suo interno, capace di sostenere i nuovi arrivati, attraverso una dimensione solidaristica, ma è una rete che si apre anche all’esterno, alle altre comunità straniere diventando sia punto di riferimento socio-economico per la ricerca del lavoro (la rete diventa un vero e proprio ufficio di collocamento), sia punto di riferimento socio-culturale per la comunità musulmana del territorio (tanto per la moschea, quanto per il progetto della macelleria Halal).

Al di là della figura di B., che avremo modo di riprendere in seguito, è interessante procedere attraverso un secondo esempio, per osservare la tendenza che sembra avere la comunità bengalese nell’attivarsi parallelamente ed in maniera informale, rispetto all’erogazione di servizi istituzionali e per osservare come l’attività commerciale e dunque le relazioni economiche siano costitutive e generative di relazioni sociali intercomunitarie.

Ci spostiamo ad Ostia, nel minimarket che si trova proprio dietro alla stazione Lido Centro, in una via buia e, nell’opinione comune, mal frequentata.

Alla cassa troviamo una ragazza e nel negozio con lei ci sono anche due uomini, sempre di origini bengalesi, che non parlano molto l’italiano. A prescindere dall’analisi dei prodotti in vendita già dibattuta, è interessante notare come all’esterno del locale ci sia un folto gruppo di persone che bevono birra, rumeni per lo più, ma anche un gruppo di maghrebini. Molti sono i cartelli appesi alle vetrate che invitano a non bere e a non sporcare e il negozio accanto, di bomboniere e oggetti per la casa, ha istallato sui gradini delle vetrine degli elementi appuntiti in ferro per evitare che le persone vi si siedano. Secondo i gestori il fatto che gli italiani non entrino nel loro negozio è determinato anche dalla situazione di “degrado” che trovano fuori, ma è interessante notare come il market venga vissuto dai clienti come un vero proprio bar (notiamo infatti che viene data la possibilità ai clienti di usufruire del bagno), luogo di aggregazione in cui sembrano darsi appuntamento molte persone straniere e di diverse nazionalità.

Prima di uscire la ragazza alla cassa ci parla della crisi e del calo delle vendite, ma ancor più interessante ci dice che, dopo 4 anni, stanno pensando di aprire una sorta di Caf, di agenzia di servizi per stranieri.

 

 

 

 

 

 

2.4 Mondi economici paralleli tra reti formali e informali

 

 

“Una cosa che ho spesso riscontrato è la difficoltà di individuare figure leader nelle comunità, o perché non esistono o perché, diciamo, non esistono formalmente.... E l'altra cosa è che comunque anche qualora esistano c'è volutamente una gestione del potere da parte di questi leader a non aprire la comunità e a non metterla in rete con il territorio, volendo rimanere unici interlocutori, a volte sfruttando anche alcune questioni dei loro connazionali.”

 

Secondo B., psicologo, per anni responsabile del Centro Servizi Immigrazione del territorio e attualmente consulente per il Municipio, la mancanza di un leader è uno dei motivi principali che rendono difficile raggiungere una partecipazione attiva da parte degli stranieri. Un leader che sia innanzitutto “un moltiplicatore d’informazioni, che sappia fornire una rappresentazione vicina alla realtà di quello che succede tra i suoi compaesani in quel luogo.”, sostenendo la priorità di trovare una strategia comunicativa per coinvolgere le comunità straniere.

Ma un leader che soprattutto si faccia riconoscere come tale agli occhi delle Istituzioni.

 

“[…] stando al centro per l’impiego mi è capitato spesso di vedere accompagnatori sedicenti di diverse persone, che non parlavano l’italiano […]. Per carità uno può dire non riferitevi all’Istituzione, perché a volte l’Istituzione non è pronta, però questi aspetti amministrativi, legali, che si svolgono all’interno delle comunità… ecco non ne penso molto bene, perché sostanzialmente questi temi sono molto complessi e variegati e servono dei professionisti, per cui questi referenti dovrebbero avere più un ruolo di accompagnamento, veramente gratuito. In questi anni ne ho sentite di storie… per non parlare delle situazioni di sfruttamento interno alle comunità che si vengono a creare con le sanatorie. […]”.

 

Da quanto finora detto, sembrerebbe emergere da parte di una comunità straniera come quella bengalese la tendenza ad auto-organizzarsi in maniera parallela rispetto ai servizi istituzionali, a costituire una rete che sappia rispondere su più fronti alle esigenze della comunità, e non solo.

Cerchiamo di approfondire per quanto possibile questo aspetto, tornando poi sulla figura leaderistica di B., al confine tra la rete formale e quella informale.

            Durante le uscite sul territorio siamo entrati in diversi Caf, per tentare di comprendere la tematica da più fronti. Su cinque Caf visitati solo uno, in una zona di Infernetto, afferma che l’80% delle persone che si rivolgono a loro sono straniere;  gli altri parlano di una percentuale che varia dal 10% al 40%: “ gli stranieri non sanno dei servizi che hanno a disposizione, manca l’informazione.”, sostiene qualcuno.      

            Per lo più si tratta di cittadini rumeni e cingalesi (solo in un Caf si fa riferimento a cittadini bengalesi) che si rivolgono ai Caf per il modello ISEE, per le agevolazioni, la disoccupazione, gli assegni familiari o di maternità. Capita poi che persone rumene chiedano sostegno per l’apertura della partita IVA, che è richiesta loro dai datori di lavoro nel campo edile, mentre le donne rumene, più di altre, si presentano per l’emersione del lavoro irregolare come colf e badanti. Per la comunità cingalese si presentano invece generalmente sia moglie che marito. C’è stato poi il caso di un signore filippino che si è rivolto ad un Caf per la dichiarazione dei redditi per l’acquisto di una casa… “ ma rimane un caso e un’eccezione”.

Anche nella comunità rumena, da quanto ci racconta P., sembrerebbe esserci una forte rete di aiuto, soprattutto per chi è appena arrivato. Lui, ad esempio sembra essere un punto di riferimento tanto per gli aspetti logistico/abitativi, che per quelli lavorativi. Attraverso la sua rete di conoscenze, soprattutto italiane, è riuscito a trovare lavoro a diversi connazionali e, sempre grazie a questa rete di conoscenti riesce a sbrigare le faccende burocratiche: riferisce, infatti, una scarsa conoscenza dei servizi che esistono sul territorio. L., invece, sempre cittadina rumena, sostiene di rivolgersi ai Caf italiani: ha presentato richiesta degli assegni familiari, ma denuncia anche lei una mancanza d’informazione. In sostanza comunque si definisce soddisfatta dei servizi del territorio…. “in Romania per fare qualsiasi cosa devi pagare la mazzetta”.

 

            Torniamo adesso alla comunità bengalese e alla figura di B., che ci sembra esemplare e utile per comprendere alcuni aspetti delle dinamiche intercomunitarie.

Il legame tra le sue due identità risulta particolarmente interessante: le relazioni economiche che ruotano intorno alle sue attività commerciali riflettono e rimandano in maniera reciproca alle relazioni sociali, solidali ma anche politiche che è stato in grado di generare sul territorio all’interno della comunità straniera. Il fatto che, come imprenditore, si rivolga alla comunità straniera nel suo insieme ci apre lo scenario di un mondo economico a sé stante che la comunità straniera è stata in grado di generare e che porta con sé (e ne è allo stesso modo l’effetto) un mondo sociale e culturale ugualmente a sé stante.

Se la società italiana sembra escludere gli stranieri dalle reti economiche (è molto raro ad esempio trovare un negozio italiano che venda prodotti alimentari stranieri), allontanandoli come clienti e come venditori dalle dinamiche commerciali, gli stranieri sembrano mostrare una tendenza all’auto-organizzazione. Si vengono a creare, come abbiamo visto, delle relazioni di produzione, commercializzazione e consumo tutte interne alle comunità straniere che si alimentano in maniera reciproca sulle relazioni sociali che s’instaurano.

Di fatto emerge il ruolo politico di B., punto di riferimento della comunità straniera nel suo insieme, capace di rispondere alle sue esigenze tanto economiche quanto socio-culturali.

Eppure, occorre notare, malgrado B. abbia un ruolo istituzionalmente riconosciuto di rappresentante degli immigrati del territorio, non ha mai partecipato (tranne in un caso perché esplicitamente richiesto) ai Tavoli sull’Immigrazione del Municipio. Di fatto, dunque, sembra non rappresentare a livello istituzionale le comunità di straniere, così come invece sembra farlo, a livello di una rete informale.

Non s’intende, in questa sede, dibattere sulle motivazioni, ma se abbiamo aperto il paragrafo con le opinioni di B. in quanto “voce istituzionale”, concludiamo con un'altra sua frase, che lascerà aperta la questione, mantenendone la complessità.

 

“Sarebbe importante costruire una rete di referenti per comunità per creare una progettazione più attiva [...], solo che parliamo di una popolazione che innanzitutto ha delle priorità di sopravvivenza, per cui se già per noi è difficile a volte andare a una riunione, figuriamoci per loro[64]: seconda cosa è che a volte questa popolazione è anche molto mobile sul territorio… soprattutto in questo periodo di crisi è anche difficile fermarli in un’attività progettuale…”

 

 

 


 

Conclusioni

 

 

Dai dati raccolti in sei mesi di ricerca etnografica sul territorio, comparati e incrociati con i dati statistici rinvenuti, esigui e spesso non recenti, potremo fornire una mappa della realtà osservata, consapevoli che è una delle possibili rappresentazioni del territorio ed in costante mutamento.

Il valore qualitativo del dato ci ha permesso di individuare alcune tendenze che potranno essere utili alla progettazione futura del territorio e che tentiamo ora di sintetizzare:

-          Gli stranieri residenti sul territorio risultano essere molto presenti nelle attività commerciali.

-          Sembrano configurarsi delle gerarchie economiche tra comunità di stranieri che vedono la comunità rumena, che ricordiamo essere la più numerosa nel Municipio, come comunità consumatrice per eccellenza, e la comunità bengalese al centro delle dinamiche economiche intercomunitarie.

-          Queste gerarchie economiche e commerciali si rispecchiano e, a loro volta, sono influenzate, dalle relazioni socio-culturali interne alle comunità e intercomunitarie.

-          La comunità italiana non risulta presente all’interno di queste reti.

-          La tendenza, riscontrata prevalentemente all’interno della comunità bengalese, è nel passaggio dalla vendita di prodotti alimentari all’erogazione di servizi: dall’internet point e money transfer a veri e propri Caf e uffici per l’impiego.

-          Le reti informali create tra le comunità straniere, grazie a figure leaderistiche, non mostrano l’intenzione di confrontarsi e di rivelarsi a livello istituzionale.

 

Si vuole concludere questo lavoro sottolineando l’importanza delle relazioni economiche nel processo di inclusione e integrazione. Le relazioni economiche tra stranieri e tra stranieri e italiani sono risultate essere lo specchio attraverso cui osservare le relazioni sociali. Potrebbero dunque essere il punto di partenza da cui progettare percorsi di integrazione sul territorio: l’organizzazione di un fiera in cui la rete di commercianti stranieri possa emergere potrebbe essere, ad esempio, uno strumento d’incontro e di valorizzazione, da parte istituzionale, della figura dello straniero in quanto imprenditore e attore della vita economica della città.

 



[1] Ranci Ortigosa E., “ I temi e lo scenario”, La riforma dei servizi sociali in Italia, 2004, pp. 21-30.

[2] Pirola M., “La legge 328/2000: verso le nuove politiche per i servizi socio assistenziali”, Il futuro delle politiche sociali in Italia, 2003, pp. 59-69.

[3] Ingrosso M., “Crisi del benessere sociale e ruolo delle politiche di comunità: una valutazione della 328/2000”, Il futuro delle politiche sociali in Italia, 2003, pp. 41-57.

[4] Dalle scorse elezioni comunali è cambiata la numerazione dei Municipi della Capitale e il XIII °Municipio è diventato il X°.

[5] Il tirocinio è stato possibile grazie a un protocollo d’intesa siglato tra l’Associazione PMT –Progetto, Mediazione e Territorio e il Municipio X° (ex XIII°), in collaborazione con l’Associazione Culturale Affabulazione da anni impegnata sul territorio di Ostia Ponente.

[6] Tentori T., Antropologia delle società complesse, Armando Editore, Roma, 1999, pag.56-57

[7] Crapanzano V., Thuami, pag.15.

[8] Tentori T., Antropologia delle società complesse, pag. 18

[9] Vattimo G., La società trasparente, Garzanti Libri, Milano, 2011

[10] Marcus G., Fischer J., Antropologia come critica culturale, Meltemi Editore, 1998

[11] Sapir E., “Spurius and genuine culture” in Selected Writings of Edward Sapir in Language, Culture and Personality, University of California Press, 1985 

[12] Lezione del Prof. Pistolese “Antropologia delle società complesse”, II Modulo, 8 settembre 2012.

[13] Bauman Z., La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, pag. 126

[14] Bauman Z., Voglia di comunità, Roma, Laterza, 2001, pag.95

[15] Lezione Dr.ssa Madia Ferretti, “Antropologia delle società complesse e delle marginalità urbane”, II Modulo, 9 settembre 2012.

[16] Bauman Z., Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta edizioni, 2004

[17] Marcus G., Fischer J., Antropologia come critica culturale, Meltemi Editore, 1998, p.204

[18]  Giddens A., Ulrich B., Modernizzazione riflessiva, Asterios, 1999, pag.136

[19]  Touraine A., Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Milano, Il Saggiatore, 1998, Pag.153

[20] Touraine A., Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Milano, Il Saggiatore, 1998, Pag.17

[21] Pollini G., Scidà G., Sociologia delle migrazioni e della società multietnica, Roma, Franco Angeli, 2002, Pag. 62

[22] Lezione del Prof. Pistolese, “Terzo  Settore e Impresa Sociale”, VII Modulo, 3 marzo 2013.

[23] Walter Benjamin, Giorgio Agamben (a cura di), Parigi, capitale del XIX secolo. Progetti appunti e materiali 1927-1940, traduzione di Gianni Carchia, Massimo De Carolis, Antonella Moscati, Francesco Porzio, Giuseppe Russo, Renato Solmi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1986.

[24] Kevin Lynch, “L'immagine della città”, 2006, Marsilio Editore

[25]  Farmer, Paul (2006: 265-300 e VII) “Sofferenza e violenza strutturale. Diritti sociali ed economici nell’era globale”, in Antropologia Medica, a cura di Ivo Quaranta, Raffaello Cortina Editore Milano

[26] Bauman Z., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (op. orig.: Globalization. The Human Consequences, 1998),  p. 96.

[27] Sayad Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze   dell'immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002 (La double absence, Paris, Editions du Seuil, 1999)

[28] Ibidem, p.108

[29] Bauman Z., Modernità e ambivalenza, in Featherstone M. (a cura di), Cultura globale, nazionalismo, globalizzazione e modernità (op. orig. : Global culture. Nationalism, Globalization and Modernity, 1990 ), trad. it. Di Mazzi F., SEAM, Milano, 1996, pp. 43-71;

[30] Bauman Z., La società dell’incertezza trad. it. Di Marchisio R. e Neirotti S., Il Mulino, Bologna, 1999. pp-8-9.

[31]  Ibidem, p. 66.

[32] Si distingua il progettatore sociale, nell’accezione che gli stiamo dando, dal “progettista”, da intendersi come colui che tecnicamente scrive un formulario di progetto.

[33] Callari Galli M. Pievani T., Ceruti M., Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma, 1998

[34] Tentori, T. Il rischio della certezza, Studium, Roma, 1987

[35]  Cfr. Bateson, G., Verso un’ecologia della mente (ed.or 1977)  e Mente e natura (ed.or. 1979).

[36] Bateson, G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2001, pg, 492

[37] Bateson, G. Mente e Natura, Adelphi, Milano, 1999, pg.42

[38] Lezione del Prof. Pistolese, “Metodologia e tecniche della ricerca sociale”, IV Modulo, 3 novembre 2012.

[39] Geertz, C., (ed.or 1973) Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1988.

[40] Ivi, pg. 12

[41] Lezione del Prof. Pistolese, “Teoria della ricerca azione”. VIII° Modulo, 7 aprile 2013

[42] Lezione Dr. Claudio Rossi, “Sociologia delle migrazioni”, III Modulo, 6 ottobre 2012.

[43] Mauss M.,(1924), Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 2000

[44] Per un approfondimento sui principali aspetti affrontati nel corso degli anni dall’Antropologia Economica Cfr. Aria M., Dei F. (a cura di), Culture del dono, Roma, Meltemi, 2008 oppure Pavanello M., Forme di vita economica. Il punto di vista dell’antropologia, Roma, Carocci, 2000.

[45] Polanyi K., (1944) La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 2000.

[46] Polanyi K., (1977), La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 1983, pp.42-60

[47] Pavanello M., (a cura di), Le forme dell’economia e l’economia informale, Roma, Editori Riuniti, 2008, pp.11-12

[48] Cfr. Zelizer V., Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona, Bologna, Il Mulino, 2009

[49] Cfr. Lai F. (a cura di), Competizione, cooperazione, invidia, Roma, CISU, 2010

[50] Cfr. Caritas di Roma, Provincia di Roma e Camera di Commercio di Roma, Osservatorio Romano sulle migrazioni, Ottavo Rapporto, Roma,  Edizioni Idos, 2011.

[51] Si tratta di una ricerca compiuta dal Municipio X (ex XIII) nell’ambito di un progetto riguardante l’Educazione degli Adulti. Cfr. www.comune.roma.it

[52] Open Data – www.comune.roma.it. Tabelle 1, 2 in Appendice

[53] Dalla ricerca del Comitato Locale 6

[54] Cfr. Tabella 3 in Appendice

[55]  Non è possibile distinguere tra titolari o gestori.

[56] Cfr. Tabelle 4,5,6,7, in Appendice

[57]  Camera di Commercio di Roma, Immigrati e impresa nei comuni della Provincia di Roma (con un’analisi della Capitale per Municipio), 2008. Cfr. Tabelle in Appendice

[58] Ultimi dati disponibili

[59] Dossier Statistico Immigrazione 2012, pag. 265

[60] Cfr. Tabelle 12,13 in Appendice

[61] Cfr. Tabella in Centro Studi e ricerche Idos, Immigrati imprenditori in Italia, Roma, Edizioni Idos, 2009, p. 191

[62] Il comportamento economico delle famiglie straniere, 2010.

[63] Da qui in avanti, le frasi riportate tra virgolette sono estrapolate dalle interviste svoltesi presso i diversi negozi oggetto dell’indagine etnografica.

[64] [n.d.r.] Si consideri che i Tavoli Immigrazione si tengono generalmente in giorni infrasettimanali alle 17,00.

 


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