SOMMARIO
Introduzione: la legge 328 e il tavolo immigrazione........................................
|
Pag. 3
|
Cap. 1: Presupposti teorici della ricerca...........................................................
|
Pag. 7
|
1.1 Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi......................................
|
Pag. 7
|
1.2 Cittadinanza e il nodo della rappresentanza.............................................
|
Pag. 11
|
1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio..........................................
|
Pag. 15
|
Cap. 2: Reti lavorative: ……………………………..........................................
|
Pag. 20
|
2.1 Descrizione del contesto territoriale. Il municipio X di Roma.................
|
Pag. 20
|
2.2 L'accesso al lavoro: reti formali ed informali ….......................................
|
Pag. 26
|
2.2.1. Babu: il self made man....................................................................
|
Pag. 29
|
2.2.2 Loredana, Petre, Jenni: il valore delle differenze............................
|
Pag. 32
|
2.3 Lavoro nero e irregolarità ….....................................................................
|
Pag. 35
|
2.4 Segmentazione etnica del mercato del lavoro e mercati etnici.................
|
Pag. 37
|
Conclusioni.......................................................................................................
|
Pag. 39
|
Bibliografia……………………………………………………………...........
|
Pag. 41
|
Sitografia……………………………………………………………….........
|
Pag. 44
|
Introduzione: la legge 328 e il tavolo immigrazione
La legge n. 328 del 8.11.2000 svolge un’importante funzione nel riconoscere piena legittimità ai diritti sociali come diritti di cittadinanza; nel promuovere l’azione sociale a sistema integrato; nel prefigurare la costruzione di una rete di sicurezza e di protezione per cittadini e famiglie che si trovano in condizione di fragilità; nell’attribuire ruoli importanti a soggetti diversi, all’interno di una logica di forte integrazione e collaborazione.
Si tratta di una riforma profonda, che porta un sostanziale elemento d’innovazione tra le politiche sociali, tenendo altresì a favorire più alti livelli d’attenzione e d’innovazione, tanto nel merito dei problemi, quanto nei processi di programmazione e di progettazione.
La legge 328 del 2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali nasce in risposta ad un contesto di “ambigua crisi del Welfare”, ovvero un Welfare pieno di punti deboli: dal persistere di radicate forme di particolarismo e frammentazione non solo geografiche, alla delega alla famiglia (e al suo interno alla donna) del lavoro di cura; dalla prevalenza di politiche di trasferimento monetario di tipo assistenzialistico al carico finanziario sbilanciato sul lavoro dipendente; dal carattere residuale della spesa sociale rispetto ai giganti della sanità e delle pensioni al prevalere di forme di tutela per le categorie più garantite. La legge quadro 328/2000 rappresenta un’occasione non per abbattere ma per rilanciare e sburocratizzare il nostro Welfare; vuole dar voce all’azione dei cittadini e delle comunità, come attivi protagonisti nella costruzione del benessere individuale, familiare, collettivo. Con l’approvazione di questa nuova norma viene così sancito il principio della democrazia partecipata come strumento chiave della progettazione ed attuazione delle politiche sociali.
La riforma, inoltre, sostiene che le politiche sociali devono accompagnarsi con quelle sanitarie, del lavoro, dell’istruzione, della casa e rivendica l’importanza costituzionale di un quadro omogeneo di diritti di cittadinanza.
Sul piano degli obiettivi, la 328 non si limita a tentare di prevenire, ridurre, eliminare le condizioni di disabilità, bisogno e disagio, ma ha l’ambizione di promuovere la qualità della vita, insieme alle pari opportunità, alla non discriminazione e ai diritti di cittadinanza, alla solidarietà sociale e alla valorizzazione delle iniziative solidaristiche.
Essa s’inscrive in una nuova tipologia di politiche che si possono definire promozionali e integrative, e non solo preventivo-assistenziali, e vuole concorrere al miglioramento della qualità della vita intervenendo su alcune dimensioni sostanziali del benessere e delle relazioni sociali.
La riforma, infatti, è finalizzata ad un cambiamento delle politiche sociali con l’obiettivo principale della tutela globale della persona nella sua interezza, come condizione di benessere individuale e collettiva in tutte le dimensioni della vita umana: nelle persone, nelle famiglie, nelle comunità locali.
L’idea di istituire il tavolo permanente sull’immigrazione affonda le sue radici in quanto annunciato dalla L. 328/2000. Quest’ultima infatti, ha previsto un sistema amministrativo di tipo decentrato, più agile e capace di rispondere in tempo reale ai bisogni sociali, espressi localmente, partendo dal fondamentale principio di sussidiarietà secondo cui le istituzioni politiche locali, più vicine ai cittadini, sono chiamate a rispondere in prima istanza alle domande politiche espresse dal territorio. Nonché l’obbligo per l’ente pubblico di uscire da una logica di governo esclusivo dei processi, per entrare in una nuova idea di governance locale, con l’aumento del numero dei soggetti coinvolti nella pianificazione e l’allargamento degli spazi operativi e quindi la nascita di un nuovo tavolo di progettazione. Ciò riguarda uno degli aspetti della “sussidiarietà orizzontale”, in altre parole la creazione di uno spazio politico entro il quale l’ente locale assume il ruolo di regolatore e garante dei servizi e contemporaneamente si sforza di potenziare le capacità propulsive degli altri attori (stakeholders) del privato sociale e “non” presenti sul territorio. Proprio il territorio offre l’opportunità di ripensare sul senso delle politiche sociali, il cui oggetto sono anche i bisogni della quotidianità non solo i bisogni normativamente riconosciuti, al fine di recuperare, nel processo di costruzione del Piano sociale, le opinioni e le attese dei cittadini. Il Piano di Zona, quindi, assume un ruolo strategico di sintesi della programmazione partecipata a scala locale, rappresenta un’occasione per potenziare nuove forme di regolazione dello sviluppo territoriale che favoriscono la partecipazione e il consenso tra gli attori locali. L'obiettivo è la realizzazione di un sistema di welfare comunitario, e la valorizzazione di culture di tipo partecipativo e di concertazione, sviluppando alleanze tra istituzioni e cittadini, così da tradurre in realtà il processo di governance locale.
L'esperienza di tirocinio svolta con l'Associazione PMT e la presente ricerca prendono avvio proprio dall'esperienza diretta di partecipazione ad alcuni Tavoli Immigrazione svoltisi presso il municipio X di Roma Capitale.
Il tavolo permanente sull’immigrazione nel ° Municipio è stato istituito nel 2009 attraverso un protocollo d’intesa, che è stato siglato da diverse Organizzazioni Sindacali Territoriali (CGIL Roma Ovest, CISL Zona Litoranea, UIL Ovest, UGL Sei) e dal Municipio X di Roma Capitale. Tale accordo, risponde a quanto enunciato dalla L. 328/2000 all’art 1 ovvero “gli enti locali nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, operanti nel settore nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Questo tavolo insieme ad altri sette tavoli tematici (di solito corrispondenti ciascuno ad un’area di intervento) sono stati creati, nell’ambito della programmazione degli interventi e dei servizi sociali al fine di predisporre il Piano Regolatore Sociale (frutto appunto di una programmazione partecipata).
Il tavolo attraverso l’attivazione di una rete di collaborazione tra vari soggetti pubblici e non, serve a facilitare la comunicazione e l’integrazione tra i diversi soggetti operanti sul territorio; favorire la rilevazione dei bisogni emergenti; formulare proposte e collaborare alla costruzione della programmazione triennale del Piano di Zona.
Inoltre, in seguito alla programmazione, il Tavolo assume ulteriori compiti di monitoraggio e verifica dell’effettiva realizzazione delle azioni previste.
Il 6 settembre 2012 ci siamo ritrovati intorno al tavolo immigrazione presso i servizi sociali del X municipio. Erano presenti numerose realtà istituzionali e non del territorio (referenti del municipio, scuole, ASL, scuole di italiano per stranieri, sindacati, associazioni culturali). Tuttavia, una volta usciti dalla riunione la prima cosa saltata agli occhi di tutti era l'assenza di immigrati al tavolo.
Com'è possibile che intorno ad una tavola rotonda dove si discute proprio di immigrazione, in un'ottica di progettazione partecipata, manchi proprio l'attore principale di questa progettazione?
Da questa domanda si è sviluppata poi la nostra ricerca, focalizzata sull'indagine delle reti formali e informali di migranti presenti sul territori, oltre ai rapporti economici di scambio ed alle gerarchie di mercato che regolano i diversi rapporti tra comunità.
Le riunioni successive tenutesi al tavolo immigrazione hanno poi messo in evidenza la carenza di servizi di accompagnamento ai servizi dedicati ai migranti e di una generale distanza tra istituzioni e utenti immigrati, aggravata dalla chiusura del servizio del CSI (Centro Servizi Immigrazione), che lasciava un grosso buco per quanto riguarda la fornitura di servizi agli immigrati.
Da qui lo stimolo anche per una successiva riflessione sul rapporto tra legittimazione e consenso sociale, in una relazione circolare e ricorsiva che spiega spesso la presenza o assenza di risposte a bisogni espressi o sommersi.
Il punto di partenza per una progettazione efficace dovrebbe in fatti riguardare innanzitutto la decostruzione delle categorie di senso comune (cittadino, immigrato, ecc.) e la chiave di tale progettazione è comprendere la “percezione” della città.
Realizzare una mappa di Ostia dal punto di vista dei migranti, vuol dire innanzitutto capire quale percezione hanno gli stranieri di Ostia.
La proposta di ricerca relativa al Municipio X ha previsto, quindi un'indagine sui bisogni di chi abita il territorio, per poter in seguito tradurre i risultati dell'indagine in progettazione efficace e coerente con la realtà. L'ipotesi è che per consentire agli stranieri di partecipare a processi di concertazione e partecipazione socio-politica, è prima necessaria una conoscenza non solo del target, bensì della relazione che esiste tra le persone e i servizi ad esse orientati.
Da qui l'analisi sulle reti formali e informali, che è diventata il cuore della presente ricerca.
CAPITOLO 1 Presupposti teorici della ricerca
1.1 Il passaggio dalla modernità alla post modernità: una lettura antropologica dell’avvento della società dei consumi.
Il disegno della presente ricerca viene inquadrato all'interno del più vasto panorama teorico della letteratura riguardante la modernità, la postmodernità e la fase di passaggio dalla prima alla seconda che ha costituito il momento di svolta per l’intero panorama delle scienze sociali, costrette a confrontarsi con la realtà della società contemporanea.
L’antropologia culturale ha superato la categorizzazione bipolare società moderna occidentale / società semplice (o primitiva) extra-occidentale e la connessa distinzione culture complesse / culture tradizionali che era propria della sua fase evoluzionista. «Oggi i processi di acculturazione e in genere di mutamento sempre più profondo e rapido, le migrazioni, le mescolanze etniche e culturali su scala planetaria, le dinamiche socio-economiche con i loro corollari sul piano culturale, hanno tolto quasi del tutto ogni consistenza ai vecchi presupposti valutativi, che pretendevano sceverare […] culture semplici da culture complesse». Non si ragiona più in termini di categorie, che vengono per lo più superate (la religione è una delle pochissime superstiti) ma confrontandosi con l’individuo altro. Vincent Crapanzano descrive l’incontro etnografico come «una complessa contrattazione nella quale i partecipanti tacitamente concordano una realtà di riferimento. Questa realtà non appartiene […] a nessuna delle parti in causa». L’approccio di lavoro proposto e le teorizzazioni che ne deriveranno segneranno il passaggio dalla società complicata alla società complessa per quello che concerne gli studi antropologici.
L’odierna società postmoderna è complessa in quanto figlia di un sistema non di tipo causale, espressione della “modernità” imperniata sulla conoscenza oggettiva del mondo, bensì di tipo casuale che è imperniato su due fattori: l’imprevedibilità e la velocità dei cambiamenti sia sincronici che diacronici. «Le società complesse interessano quasi la totalità delle società esistenti» che si caratterizzano per la loro instabilità causata dalla presenza di un enorme numero di variabili che non sono né controllabili né prevedibili.
Finisce quindi la pretesa di dare un senso univoco e definitivo alla realtà che si definisce piuttosto in termini di differenza e molteplicità e in cui le differenze servono a determinare la propria diversità e, al contempo, la propria identità. Ne consegue che l’odierna società è molto frammentata anche a livello esistenziale, il che produce quello che Vattimo ha definito «complessivo effetto di “spaesamento” che accompagna il primo effetto di identificazione» e si deve confrontare con la tendenza, di segno opposto, rappresentata dall’internalizzazione del consumo, delle informazioni e della produzione.
Nel libro “Antropologia come critica culturale” gli antropologi Fisher e Marcus mostrano l’evoluzione dell’approccio utilizzato dalle discipline umanistiche e scienze sociali che producono lo sforzo di fornire le loro rappresentazioni partendo dall’interno e valorizzando le differenze e le diversità di fronte alla più ampia consapevolezza di una crescente omologazione del mondo.
Il linguista e antropologo americano Edward Sapir nella sua analisi antropologica evidenzia la contrapposizione tra culture che definisce genuine e quelle spurie. La cultura genuina è quella in cui vi è armonia tra i bisogni della società e quelli dei propri singoli membri e in cui «le attività principali di un individuo devono soddisfare direttamente i suoi impulsi creativi e emotivi». Viceversa la società spuria è potenzialmente efficiente dal punto di vista economico ma incapace di esprimere una cultura genuina rispondente in modo organico alle aspirazioni degli individui che hanno smarrito la “spiritualità” nel proprio agire.
Oggi risulta sempre più difficile riuscire a rilevare un nesso stabile e coerente tra bisogno e soddisfacimento dello stesso e l’incertezza che ne deriva distingue gran parte delle società contemporanee caratterizzate da rapporti di tipo spurio, ossia casuale, nelle relazioni “bisogno-soddisfacimento” e che, quindi, non sono più indagabili con gli strumenti tradizionali.
Questa nuova condizione della società viene analizzata nell’opera di Bauman “Modernità liquida”, termine che ha assunto valore di neologismo e indica «una concezione sociologica che considera l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile».
La globalizzazione rompe i vincoli spazio-temporali, trasformando le relazioni economiche, sociali, produttive ed esistenziali ed inaugura l'avvento della società dei consumi, spazio virtualizzato in cui il luogo di produzione e di consumo non coincidono e in cui «capitale e conoscenza si sono entrambi emancipati dalla loro dimensione locale. La collocazione geografica dei loro possessori conta poco ora che il 90% delle transazioni finanziarie che producono ricchezza non è più vincolato al movimento delle merci materiali e ora che la circolazione delle informazioni avviene per lo più entro i confini del cyberspazio». Robertson ha coniato il termine “glocalizzazione” per sottolineare una peculiarità del mondo contemporaneo nel quale la tendenza alla globalizzazione, del capitale e dell’informazione, agisce in modo correlato, e in evidente contraddizione, con la tendenza alla localizzazione in cui è arroccata la politica. Dunque «il potere, in quanto incarnazione della circolazione mondiale di capitali e informazioni, diventa sempre più extraterritoriale, mentre le istituzioni politiche esistenti continuano ad avere un carattere prettamente locale. Ciò porta inevitabilmente a una progressiva perdita di potere dello Stato nazionale che ha smesso di controllare i processi d’integrazione sociale». Quest’ultimo compito, elemento distintivo e cardine dello Stato moderno, viene delegato ad altri soggetti che agiscono, spesso, potendo godere di larga autonomia e in qualche modo incontrollati.
La postmodernità e la globalizzazione hanno innescato un processo di estraneazione dal territorio che è il principale responsabile della marginalità sociale. Il processo di marginalizzazione sociale ha perso la sua accezione culturale e non è più collegato all’occupazione bensì è diventato una condizione spontanea nella quale il lavoro non è più la discriminante di uno status sociale che, a sua volta, non è più collegabile in modo stringente al consumo. Se il reddito da lavoro non è più la garanzia di uno status sociale cala la fiducia nell’attività lavorativa, sempre più caratterizzata da precarietà e flessibilità, che diventa semplicemente uno dei tanti fattori (insieme al possesso o meno di una casa di proprietà, alla presenza o meno di forme di addebitamento come gli assegni di mantenimento per l’ex moglie, ecc..) che determinano la propria posizione nella società e le condizioni in cui poter vivere il territorio.
Analizziamo dunque il rapporto che intercorre tra status, lavoro e consumo per formulare delle considerazioni aggiuntive sulla dimensione dell’esclusione sociale. Prima dell’avvento della globalizzazione e della postmodernità il sistema si riproduceva grazie al ruolo centrale per la vita individuale e collettiva svolto dal lavoro in quella che, in epoca industriale, si definiva “società dei produttori”. Il passaggio alla “società dei consumi” e quindi l’avvento del consumatore ha condannato il lavoro a cedere la propria funzione di integrazione sociale al consumo sacrificando così la sua connotazione etica ed appropriandosi di una dimensione puramente estetica.
Il rischio insito nella società contemporanea, fa notare Bauman, non si limita alla produzione di forme di povertà classiche, quali l’indigenza economica e materiale o la sofferenza fisica, ma si moltiplicano anche situazioni di miseria dovute a condizioni sociali e psicologiche critiche. «Dietro la crescita del mercato e di burocrazie c’è un declino della comunità e di quel valore individuale del sé di cui la salute mentale non può fare a meno». Queste forme moderne di povertà ed emarginazione sono possibili effetti collaterali dell’incapacità di consumo che, nella società contemporanea, è considerata una grave colpa.
Oggi, maggiormente che nel passato, il rischio di esclusione sociale, ossia l’impossibilità materiale di poter usufruire delle risorse, è molto sviluppato e produce una marginalità urbana che assume forme diverse coinvolgendo differenti personalità: dall’immigrato irregolare al soggetto affetto da dipendenza, dal disoccupato al psichiatrico. Il processo di esclusione, che accelera nelle fasi di congiuntura economica negativa come quella attuale, e lo scollamento dal territorio, per effetto di processi di globalizzazione e dell’inadeguatezza delle istituzioni, rende i cittadini sostituibili e potenzialmente marginali. La marginalità è il riflesso della diseguaglianza sociale che, generalmente, è progressivamente aumentata negli ultimi decenni e che può essere letta come una degenerazione dovuta all’indebolimento dei valori e delle norme comuni.
Nella sua evoluzione la società ha quindi sacrificato, insieme al lavoro, l’obiettivo vitale dell’integrazione sociale per approdare ad una fase, senza ordine né ideologie, nella quale l’esistenza sociale perde la sua connotazione oggettiva. Secondo Giddens, che rifiuta il termine postmoderno e parla di profonda radicalizzazione nella modernità della società contemporanea, «il sapere gelosamente custodito è ora sostituito dal sapere degli esperti che dovrebbero fornire sempre maggiori certezze sul mondo, ma la stessa condizione di tale certezza, è il dubbio». Le certezze vengono dunque sostituite dal dubbio così come il rischio prende il posto della riproduzione dell’ordine. La paura e la percezione del pericolo in una realtà così complessa e virtualizzata ha sviluppi imprevedibili. Nella società contemporanea “l’altro” o “il diverso" (considerato il tema di questo testo possiamo far riferimento allo straniero) continua a rappresentare un rischio. Questa “visione” rappresenta un ostacolo nel percorso di integrazione sociale e, molte volte, genera forme di autoesclusione: il territorio perde la sua dimensione originaria, al suo interno si sviluppano molti confini immaginari al cui interno, più o meno volontariamente, ci si rifugia per un bisogno di sicurezza o di appartenenza come esiliati inconsapevoli.
Touraine, in questo panorama, denuncia «l’assenza del principio centrale di costruzione della vita sociale: l’utilità sociale, la razionalizzazione e la lotta di classe» e, nell’affermare il fallimento del postmodernismo in funzione delle realtà sociali, aggiunge che «se accettiamo senza riserve il declino della politica non resterà che il mercato a regolare la vita collettiva».
La società complessa sembra quindi aver cancellato molte certezze e punti di riferimento producendo un forte senso di smarrimento e un generale senso di insicurezza nelle persone. Il fenomeno della povertà e della marginalità va intesa dunque in un duplice aspetto: quello prettamente economico legato ai consumi e quello socio-psicologico legato a nuove forme di ansia e di paure collettive. La società contemporanea produce e riproduce situazioni di marginalità che si manifestano in termini di povertà economica, disoccupazione, abitazioni inadeguate, violenza, discriminazione etnica e sociale. Su questo scenario incide la perdita dei legami interpersonali, che rappresentavano una risorsa importante per contrastare questi fenomeni, e si intrecciano storie di uomini che vivono ai margini della società. L’”uomo marginale” per eccellenza «è lo straniero che rappresenta un uomo al margine di due culture e di due società, che non sono mai completamente compenetrate e fuse».
Alla luce di tutte queste considerazioni appare evidente l’importanza di una riconciliazione col territorio sia da parte delle istituzioni sia da parte della cosiddetta società civile per ristabilire i legami sociali. Infatti questa “distanza”, sviluppatasi in modo progressivo negli ultimi anni, nasconde numerose insidie, per le cause illustrate precedentemente, e rischia di accelerare il preoccupante fenomeno dell’esclusione sociale.
1.2 Cittadinanza e il nodo della rappresentanza
L'assenza di confini certi del territorio e la suddetta distanza tra istituzioni e società civile apre un ragionamento complesso sul rapporto tra legittimazione, consenso e controllo sociale, in una relazione circolare e ricorsiva che spiega spesso la presenza o assenza di risposte a bisogni espressi o sommersi della popolazione che abita un determinato territorio.
La mancanza di confini definiti nella città contemporanea, l'assenza di centro e periferia, rende anche il concetto di cittadinanza sempre più fluido e sfuggente e dipendente dalle relazioni che si sviluppano all'interno della città, ovvero dalla possibilità di usufruire di servizi e di esercitare diritti (diritto alla casa, diritto agli spostamenti, diritto ad usufruire di servizi sociali e culturali).
La virtualizzazione progressiva della relazioni, iniziata già dagli anni '80, ci restituisce uno scenario dove sono gli stessi flussi comunicativi a cambiare le città e dove le categorie economiche governano gli spazi e le relazioni.
Benjamin a tal proposito parla di “liberazione di uno sguardo” ovvero il venir meno dell'ordine degli sguardi nelle città contemporanee, a partire dagli anni ’80 con lo sviluppo di città multiculturali ed informatiche.
Lynch a fine anni '80 individua come strumento di costruzione delle mappe urbane il vedere come la gente immagina la città. L'autore sostiene che le persone nei contesti urbani si orientano per mezzo di mappe mentali. Egli analizza tre città americane (Boston, Jersey City e Los Angeles) e guarda come le persone vi si orientano. Un concetto centrale è quello di leggibilità (anche chiamata figurabilità). Leggibilità esprime la misura in cui il paesaggio urbano può essere letto. Le persone che si muovono per la città ingaggiano un processo di individuazione del percorso. Hanno bisogno di essere in grado di riconoscere e organizzare degli elementi urbani in un modello coerente. Nel processo di individuazione del percorso, il collegamento strategico è l’immagine ambientale, l’immagine mentale generalizzata nel mondo fisico esterno che è posseduta da un individuo. Questa immagine è il prodotto sia di una sensazione immediata che il ricordo delle esperienze passate, ed è utilizzato per interpretare le informazioni e per orientare l’azione. L’illeggibilità della metropoli e l’intrico dei suoi elementi spaziali compromettono la percezione della città.
L’aumentata complessità spaziale sociale e culturale del tessuto urbano, a partire dal XX secolo, insieme alla velocità dei mezzi per attraversarlo ha sollevato parecchi problemi nuovi per la percezione.
Lynch nota come risultino compromesse funzioni da sempre vitali per l’uomo, come l’identificazione dei luoghi, l’orientamento, la costruzione di una relazione individuo-spazio emotivamente sicura, la creazione di simboli comuni che legano il gruppo e permettono ai suoi membri di comunicare l’un l’altro.
In questa dimensione complessa, in cui ogni persona circola tra realtà differenti (contesto biografico, socio-politico, universo culturale, istituzioni, realtà quotidiana) si può generare quella che Farmer definisce Violenza strutturale, ovvero la violenza come processo in cui le vittime occupano il posto più basso della scala sociale in società non egualitarie. Farmer invita ad analizzare i meccanismi sociali dell'oppressione che “sono tanto peccaminosi quanto apparentemente colpa di nessuno”.
La violenza strutturale è da lui definita come quella particolare violenza esercitata in modo indiretto, ovvero prodotta dall'organizzazione sociale stessa e dalle sue disuguaglianze e frutto di processi storici, politici ed economici. Tale violenza si esplica attraverso la limitazione della capacità di azione di soggetti che occupano la posizione più marginale in contesti segnati da profonde disuguaglianze sociali.
Anche Bauman facendo riferimento alla stratificata società dei consumi, dirà che «tutti noi siamo condannati ad una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere».
Tale discorso è ancora più vero e drammatico se prendiamo in considerazione una delle categorie più marginali dei contesti urbani contemporanei, in particolare italiani e nello specifico del territorio di Roma che è oggetto di questa ricerca, ovvero l'immigrato.
Un’illustre studioso della condizione di sofferenza e ambiguità che caratterizza l’esperienza della migrazione “in generale” è Abdelmalek Sayad, il quale, considerato come “fondatore della scienza delle migrazioni”, ha ridefinito la condizione di ambiguità e ibridità a cui è costretto il migrante che, in quanto contemporaneamente immigrato ed emigrato, non è cittadino di pieno diritto né nella società di provenienza né in quella di approdo; e così facendo ha ripreso il concetto di “erranza” e rivisitato il fenomeno migratorio che la maggior parte delle scienze sociali è stata incapace di analizzare sotto il suo insito duplice profilo di immigrazione-emigrazione, soffermandosi solo sul primo lato della medaglia, in modo nettamente parziale ed etnocentrico. Oltre la «questione apparentemente tecnica viene posto oggettivamente l'intero problema della legittimità dell'immigrazione, problema che tormenta tutti i discorsi di natura analoga. Non c'è pressoché alcun discorso sugli immigrati e sulla funzione dell'immigrazione, soprattutto quando è svolto esplicitamente e scientemente, come nel caso della "teoria economica dei costi e dei profitti comparati dell'immigrazione", che non consista ora nel legittimare ora nel denunciare l'illegittimità fondamentale dell'immigrazione».
Bauman è tra gli studiosi che hanno incentrato la propria riflessione sullo “straniero” come figura ambigua e “inclassificabile”, in quanto non compresa all’interno delle tradizionali opposizioni binarie tra amici- nemici (trasposizione a sua volta della dialettica tra interno- esterno), separazioni “asimmetriche”, dal momento in cui l’opposizione è il prodotto e la condizione del dominio narrativo degli amici e della narrativa degli amici come dominio. Lo straniero, invece, è portatore di una minaccia più pericolosa di quella del nemico, perché minaccia l’associazione stessa e, dato che l’opposizione è il fondamento su cui si basano la vita sociale e le differenze che ne sono parte e la conservano, lo straniero mina le fondamenta della vita sociale stessa. E tutto questo perché lo straniero non è né un amico né un nemico: potrebbe essere entrambi. La sotto determinazione degli stranieri stessi è la loro potenza: poiché non sono niente essi potrebbero essere tutto. Essi mettono fine all’ordine del potere dell’opposizione. «Gli stranieri […] sono principalmente indefinibili. Sono quel “terzo elemento” che non ci dovrebbe essere. I veri ibridi, i mostri: non proprio inclassificati ma inclassificabili».
Ne La società dell’incertezza Bauman associa la condizione generalizzata di incertezza che caratterizza l’assetto societario dal punto di vista strutturale, politico, economico, al carattere sempre più provvisorio che vanno assumendo le relazioni sociali e la stessa identità individuale, definita come “identità a palinsesto”, in quanto si configura come graduale assunzione di maschere sempre cangianti che ridefiniscono in modo fluttuante una personalità fragile e provvisoria, manifestazione più ovvia e immediata della nuova “libertà” che caratterizza la società postmoderna. Il principio di realtà su cui si fondava la società moderna viene, infatti, soppiantato dal principio del piacere e libertà, che si traduce però in un’assenza di punti di riferimento stabili su cui costruire i propri percorsi esistenziali ed identitari, e in corrispettiva nell’aumento dell’incertezza.
In questa condizione di precarietà, anonimato, solitudine del cittadino delle metropoli post-moderne, lo straniero diventa un essere trasparente, invisibile, privo di specificità particolari. Ed è proprio qui che si manifesta il suo carattere più ambivalente: se da un lato, infatti, lo straniero, al pari degli altri cittadini, recita nell’anonimato la sua parte “invisibile” di uomo alla ricerca di opportunità in cui esercitare la propria libertà, dall’altra diviene visibile e desta curiosità in quanto portatore di “differenza” e, quindi, esemplificazione di una possibilità reale di uscire dalla monotonia e di sperimentare forme di esistenza innovative e originali. Anche se, sottolinea Bauman, questa diversità è ambivalente essa stessa, in quanto sia risorsa, perché spinta al mutamento, che “condanna”, perché suscita un senso di minaccia e pericolo suscettibile di contaminare quel poco di certezza rimasta nella società, generando quindi sentimenti contrastanti di timore-curiosità, rifiuto-attrazione.
All'interno di queste dinamiche relazioni e di esercizio di potere e consenso, si sviluppa la cittadinanza.
Il nodo della rappresentanza indica il gap che si viene a creare tra cittadini/interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti. L'aspetto importante all'interno di queste dinamiche, infatti, non è tanto la rappresentanza, che indica un concetto generale, quanto il concetto operativo di rilevanza di un attore sociale nei processi di partecipazione democratica, ovvero la sua capacità di avere peso nel policy making.
I rapporti di forza politici vengono rispecchiati nel triangolo che si crea tra legittimazione-consenso e controllo sociale. Se da un lato, infatti, l'istituzione legittima il cittadino, in corrispondenza questi darà il suo consenso all'istituzione stessa, che esercita così un controllo sociale sulla medesima popolazione. Da questa dialettica complessa si sviluppa poi la governance.
Il meccanismo della governance che comprende al suo interno diversi livelli (istituzioni, terzo settore) cerca di rimediare al gap tra cittadini e interessi rappresentati e attori/organismi rappresentanti.
Lavorare sulla costruzione di un’ “Integrazione civica” significa avviare un processo di socializzazione alla cittadinanza attraverso la partecipazione a forme di cittadinanza attiva e quindi alla presenza nei processi di policy making al fine di tutelare diritti, curare beni comuni e rafforzare soggetti in difficoltà.
1.3 La progettazione sociale tra mappe e territorio.
Nell’avviarsi alle conclusioni di questa parte introduttiva si rende necessario riprendere due concetti sopra espressi per analizzare il contesto in cui si trova a lavorare chi fa progettazione sociale in un territorio urbano.
Non solo, abbiamo detto, ci troviamo di fronte a un territorio sempre più “liquido”, i cui cambiamenti si susseguono rapidamente e in maniera imprevedibile, ma, a causa di un rapporto sempre più virtuale delle persone con il proprio territorio, è inoltre aumentato oggi il rischio di cadere nella marginalità sociale, di essere esclusi dalla comunità e di perdere la possibilità di agire sulla realtà.
In questo contesto allora, fare progettazione sociale significa operare per ridurre queste marginalità e per ridistribuire il rischio di cadervi, ma significa farlo in un territorio in costante mutamento, dove spazi e relazioni sono continuamente rinegoziati e dove ad agire sono inevitabilmente relazioni di potere e gerarchie di valore.
Progettare e gestire un territorio è infatti compito delle Istituzioni e rientra nel sistema di consenso da queste messo in atto, ne è riproduzione di fatto e si inserisce in quel triangolo ricorsivo, di cui si parlava sopra, che genera forme di controllo sociale. Attraverso l’erogazione di bandi e la realizzazione di progetti le Istituzioni offrono legittimazione e ottengono il consenso di quella parte di società civile che di volta in volta risulta come destinataria delle sue attenzioni.
Progettare un territorio vuol dire agire politicamente su di esso ed inserirsi nelle dinamiche di delega e rappresentanza, consenso e legittimazione che caratterizzano le relazioni tra chi governa e chi abita una città.
Emerge, allora, la figura del progettatore sociale come mediatore tra le istanze delle Istituzioni e quelle della società civile, impegnato a favorire l'incontro tra le prime e i bisogni dei cittadini, anche, o soprattutto, di quelli che, trovandosi in una condizione di marginalità tenderanno a non esprimere i propri bisogni, a lasciarli sommersi.
Presupposto della progettazione è dunque innanzitutto una conoscenza tanto del territorio e delle relazioni di forza che lo attraversano, quanto di quelle istanze che il progettatore si troverà a mediare.
Ma come fare a conoscere un territorio che abbiamo detto essere di per sé incerto e mutevole?
Una volta abbandonata, con il passaggio alla post-modernità, la pretesa di dare un significato univoco alla realtà, di considerare l’Universo come Uni –Verso , “l’epistemologia della certezza” ha lasciato il posto “all’epistemologia del dubbio”. Ad essere messa in discussione è stata la conoscenza ontologica, ovvero la possibilità stessa di conoscere l’oggetto osservato, e l’idea conseguente che l’osservazione che si fa sia l’unica possibile.
Il ricercatore non potrà mai conoscere il territorio allora, ma solo formularne una mappa, consapevole del fatto che la sua sarà solo una delle infinite possibili interpretazioni e rappresentazioni di quel territorio e che ogni mappa precederà sempre nel tempo il territorio, che nel momento in cui viene rappresentato è già di nuovo mutato secondo variabili casuali.
La mappa è il territorio, sostiene Bateson . Nell’indagare i processi mentali che portano alla conoscenza, l’antropologo americano sostiene che costruire mappe è l’unico strumento che il ricercatore ha a disposizione per conoscere il territorio, per farsene un’idea per approssimazione. Essendo dunque l’unico oggetto conoscibile, la mappa coincide con il territorio.
Entriamo infatti nel campo dell’epistemologia e la mappa che il ricercatore produce non comunicherà mai il territorio in sé, quanto la relazione che instaura con esso, l’esperienza che ne fa e che sola può trasformarsi in conoscenza.
Ma cosa possiamo conoscere allora di un territorio?
Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?. Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza […].
Il ricercatore di fatto non può che procedere per negazioni, costruendo delle euristiche, ed annotando sulla sua mappa la distanza tra ciò che non è la realtà e ciò che potrebbe essere, rintracciando informazioni a partire dagli “errori”, dalle differenze e dai mutamenti.
[…] la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza, e la percezione della differenza è sempre limitata da una soglia. Le differenze troppo lievi o presentate troppo lentamente non sono percettibili: non offrono alimento alla percezione.
Ecco perché affidarsi ai dati quantitativo-statistici della ricerca sociologica non può essere sufficiente, ma è invece necessario servirsi di dati qualitativi che meglio riescano ad individuare ciò che si osserva (consapevoli che non è la realtà) e a fornirci informazioni sull’orientamento delle azioni e sulle tendenze della realtà.
Alla base di una buona mappatura ci sarà dunque quella che Clifford Geertz definisce “descrizione densa” (thick description), una descrizione che procede per formulazioni teoriche orientate sul punto di vista degli attori, sul contesto dell’azione e non solo attenta ad una registrazione tassonomica di quell’azione (descrizione esigua). Una descrizione, dunque, capace di cogliere e poi rendere “[…] la differenza tra un tic ed un ammiccamento, che per quanto non fotografabile, è grande, come sa chiunque sia abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro.”.
In questo modo il ricercatore, attraverso un’indagine etnografica, potrà costruire degli indicatori cultorologici (attraverso l’uso di dati secondari- statistici e di dati qualitativi) in grado di rilevare la dinamica delle azioni, il loro orientamento e trend di mutamento, che sarà poi punto di partenza, ma anche di arrivo dell’attività di progettazione. Le fasi della ricerca sono infatti immanenti e si susseguono in un processo ricorsivo che fa della ricerca/progettazione un percorso continuo di apprendimento.
Entriamo allora nell’ulteriore questione che si trova ad affrontare chi fa progettazione sociale: ogni epistemologia è sempre personale, per tornare a Bateson, e la ricerca/progettazione non può prescindere dalla presenza di una gerarchia di valori che rende impossibile la neutralità ed inevitabile il pregiudizio.
Dunque non è insito solamente il rischio che la gestione del territorio sia in mano alle scelte di chi governa una città, ma anche che il processo conoscitivo, di per sé partecipativo, veicoli la visione soggettiva della realtà del ricercatore/progettatore, che renda egemone la mappatura proposta.
Fare progettazione ha sempre una valenza etica, nel senso che ha sempre a che fare, come presupposto e come obiettivo, con la distribuzione dei valori in una società. Fare progettazione sociale, poi, come già accennato, ha l’ulteriore compito di ridistribuire questi valori affinché si riduca il rischio di esclusione e di marginalità in quella società, affinché l’accesso alle risorse di un territorio e ai diritti sia equamente distribuito e le persone riacquistino la capacità di agire sul contesto in cui vivono.
Negli ultimi anni la progettazione partecipata viene generalmente considerata la via da seguire per scongiungere i rischi di costruire mappe egemoni, il modo in cui generare percorsi di democrazia “dal basso” e riattivare sentimenti di appartenenza a una comunità e a un territorio. La legge 328/00, e prima la legge 285/97, sono i principali strumenti normativi ideati proprio per capovolgere le dinamiche di Governance in funzione di una sussidiarietà orizzontale, capace di delegare la gestione del territorio attraverso la compartecipazione di più soggetti.
In particolare, si è cominciato ad usare tecniche di progettazione partecipata in relazione alla progettazione sociale (ad es. con la costruzione dei Piani di Zona), dove il coinvolgimento dei cittadini/utenti diventa innanzitutto valorizzazione del loro ruolo di attori di cambiamento e promotori di sviluppo di comunità.
In tal senso la progettazione partecipata diventa processo educativo, in cui tutti gli attori prendono, e sono parte, di un mutamento reciproco; suppone e genera un approccio interculturale, infatti, capace di cogliere la dinamicità del contesto e delle relazioni, di coltivare una prospettiva critica e dialogica, mettendola in pratica nella trasformazione della realtà. Ecco allora che la conoscenza diventa azione e torna ancora conoscenza in un continuum ricorsivo proprio di ogni processo di apprendimento.
Nella pratica e nelle realtà territoriali, però, la funzionalità di questo strumento si scontra con notevoli difficoltà e paradossi, di cui prima, in relazione al Tavolo Immigrazione, si è dato qualche accenno e che la presente ricerca si propone di indagare.
Attorno a un tavolo di progettazione si siederanno infatti persone e realtà portatrici di interessi specifici, più o meno forti: la pubblica amministrazione e le Istituzioni, la grande o piccola Associazione, il singolo cittadino, ed il rischio che l’effettiva partecipazione di tutti sia compromessa, sminuita o, ancor peggio, strumentalizzata è reale.
Fare progettazione partecipata significa fare un lavoro molto complesso di contrattazione e il progettatore, nel ruolo di mediatore ed animatore, non dovrà solamente suscitare la condivisione di informazioni, esigenze e percezioni tra gli attori interessati e coinvolti, ma condividere innanzitutto con loro la mappa, la visione del territorio e dei bisogni di chi lo abita.
CAPITOLO 2: Reti lavorative
2.1 Descrizione del contesto territoriale. Il municipio X di Roma
Il presente capitolo si concentra sull'esame delle reti formali e informali dei migranti presenti sul territorio e si focalizza, in particolare, sull'analisi delle reti lavorative. Verrà di seguito fornita una descrizione generale del contesto di riferimento, che a partire dall'analisi dei dati secondari sul tema, prova in seguito ad incrociare queste informazioni con i dati di carattere prettamente qualitativo, dedotti dalle interviste semi strutturate e dall'osservazione partecipante svolte sul territorio del X municipio (ex XIII)
La ricerca di sfondo sul X municipio (ex XIII) prende, quindi, l'avvio dall'analisi dei dati statistici sulle reti lavorative, sulla presenza straniera sul territorio romano e municipale in particolare.
L' Osservatorio Romano sulle Migrazioni fornisce la fotografia di una metropoli dove l'immigrato nella Capitale non può più essere considerato nel quadro dell'emergenza ed in un'ottica congiunturale e provvisoria, bensì come elemento strutturale al sistema.
I dati rivelano che i residenti stranieri a Roma al 31.12.2010 sono un totale dei 345.747, con un'incidenza del 12% sulla popolazione.
Ovviamente questi dati non considerano il fenomeno diffuso e non rilevato dell'immigrazione invisibile, ovvero dell'immigrazione illegale presente sul territorio e non registrata quindi all'anagrafe. Con immigrazione “illegale” intendiamo, sia i cosiddetti “clandestini”, coloro che hanno fatto ingresso non autorizzato sul territorio, che gli “irregolari”, ovvero in possesso dei requisiti per stare in Italia, ma che hanno in seguito perso tali requisiti (permesso di soggiorno scaduto e non rinnovato).
In base all'ottavo Rapporto sulle migrazioni a Roma, curato da Caritas Roma, Provincia di Roma e Camera di Commercio di Roma, il Lazio si posiziona al secondo posto (dopo la Lombardia) per incidenza di immigrati (11,8%) rispetto all'intero territorio nazionale e registra un totale di 497.940 residenti stranieri. Si tratta di un'immigrazione a forte caratterizzazione femminile e giovanile.
I dati forniti dal suddetto Rapporto sintetizzano una situazione in cui la Capitale continua ad essere un forte polo di attrazione per gli immigrati, in quanto si attesta a livello nazionale come prima area di immigrazione, anche se registra un cambiamento rispetto alla scelte residenziali: mentre nella capitale il valore della variazione della popolazione è negativo (-2,8%), l'hinterland registra un incremento demografico del 67,3%. Ulteriori dati significativi riguardano l'alta incidenza dell'immigrazione femminile (53,4% a Roma) e degli immigrati di seconda generazione, che ammontano a 42.085 persone nate in Italia.
La distinzione per nazionalità vede una prevalenza dei rumeni (21,6%), seguiti da filippini (10,1%), bengalesi (4,7%), polacchi (4,4%), cinesi (3,9%), peruviani (3,8%), ucraini (3,1%), egiziani (3,0 %).
La distribuzione territoriale degli stranieri su capitale e provincia, viene descritto nel Rapporto, facendo riferimento al processo della “gentrification”, un percorso storico iniziato negli anni 1950-'70. Tale processo riguarda una riqualificazione dei centri storici, che ha portato con sé anche una deriva speculativa sugli immobili ed un conseguente spostamento della popolazione in zone più distanti dal centro. La Capitale, infatti, ha registrato soprattutto negli ultimi anni un notevole spostamento della popolazione, italiana e straniera, nei comuni confinanti, sia nella prima cintura, che nel litorale romano e, successivamente nella seconda cintura.
In merito al tema lavoro, oggetto del presente Capitolo, l’ultima nota semestrale sull’andamento del mercato del lavoro degli immigrati del 28/03/2013 conferma che nella Regione Lazio, seppure in un contesto di crisi in cui aumentano il numero di stranieri in cerca di occupazione e si incrementa negli ultimi quattro anni il numero di stranieri inattivi, è aumentato il numero di occupati stranieri rispetto agli italiani anche se con una dinamica rallentata rispetto all’ultimo quinquennio (tabella n. 1).
Tabella n. 1 Occupati, Persona in cerca di occupazione e inattivi per cittadinanza nella Regione Lazio nel III Trimestre 2012 (composizione percentuale)
Occupati
|
Persone in cerca di lavoro
|
Inattivi
|
|
|
Italiani
|
UE
|
Extra UE
|
Tot.
|
Italiani
|
UE
|
Extra UE
|
Tot.
|
Italiani
|
UE
|
Extra UE
|
9.3
|
18.7
|
10.1
|
9.7
|
10.2
|
13.9
|
6.3
|
10.3
|
9.2
|
21.0
|
8.0
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Fonte: Nota Semestrale sul mercato del lavoro degli immigrati. (a cura) Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di integrazione. 28/03/2013
Secondo i dati forniti (tabella n. 2) dalla Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere – Servizio Immigrazione, sono stati rilasciati nella provincia di Roma al 31/12/2011 circa 257.487 permessi di soggiorno.
La motivazione del rilascio del permesso di soggiorno permette di avere preziose informazioni. Infatti 132.102 permessi di soggiorno sono rilasciati per motivi di lavoro rappresentando più della metà dei permessi complessivi a cui andrebbero aggiunti i 2.492 rilasciati per varie motivazioni riconducibili alla ricerca di un lavoro. I permessi di soggiorno per attività commerciali e/o lavoro autonomo rappresentano il 6.4 percento del totale.
Si segnala che nel corso del 2012 in provincia di Roma sono state presentate 13.815 di emersione di cui al decreto 109/2012, di cui 12.164 per lavoro domestico e 1.651 per lavoro subordinato. Si sottolinea, inoltre, che le prime tre nazionalità in Italia per numero di domande di emersione sono, in ordine, Bangladesh (15.770), Marocco (15.600) e India (13.286).
Un dato significativo emergente sempre dal report sulle domande di emersione del lavoro irregolare del 2012 è rappresentato dal fatto che su 134.576 moduli complessivamente compilati ed inviati in tutto il territorio nazionale ben 51.906 di essi siano stati compilati tramite associazioni e patronati, 392 attraverso i comuni, 4.107 da consulenti del lavoro e 78.081 da privati. Nel 2009 su 294.744 domande inviate il 46,5% (137.160) è stato inviato tramite associazioni e patronati.
Nel 2009 in provincia di Roma hanno presentato domanda di emersione 32.034 migranti tra colf e badanti, rappresentando il 10,87% del dato nazionale.
Tabella n. 2 PERMESSI DI SOGGIORNO RILASCIATI IN ITALIA A CITTADINI EXTRACOMUNITARI PER MOTIVO AL 31/12/2011. Provincia di Roma
Motivo del rilascio
|
Numero
|
% sul totale dei rilasci
|
Lavoro subordinato
|
132.102
|
51,3
|
Motivi familiari
|
69.963
|
27.2
|
Motivi commerciali/lavoro autonomo
|
16.409
|
6.4
|
Motivi di studio
|
8.122
|
3.1
|
Protezione sussidiaria/asilo politico
|
6.505
|
2.5
|
Motivi religiosi
|
17.228
|
6.7
|
Famiglia minore 14/18
|
1.177
|
0.5
|
Lavoro subordinato/attesa occupazione
|
1.775
|
0.8
|
Motivi umanitari
|
1.557
|
0.6
|
Missione
|
363
|
0.1
|
Lavoro stagionale
|
163
|
0.05
|
Lavoro casi particolari
|
500
|
0.2
|
Cure mediche
|
430
|
0.2
|
Affidamento
|
132
|
0.05
|
Minore età art. 28 DPR 394/99
|
230
|
0.1
|
Altro
|
646
|
0.2
|
TOTALE
|
257.487
|
100.00
|
Fonte: Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere – Servizio Immigrazione
Il tasso di occupazione nella Provincia di Roma (vedi tabella 3) mostra per gli stranieri un risultato migliore sia del dato laziale che nazionale come risulta evidente. Circa il 57% di tutti i residenti stranieri nella provincia è occupato e costituisce una quota pari al 13,8% dell’occupazione complessiva. Inoltre fra il 2009 e il 2010 l’incremento di lavoratori stranieri è stato a Roma di circa 38.000 occupati (pari al + 19,5%) mentre i lavoratori italiani, nello stesso periodo considerato, sono diminuiti del 2%.
L'Osservatorio romano analizza in un'ottica interessante anche il fenomeno della crisi economica e occupazionale, e dell'incidenza sulla popolazione straniera. Se da un lato il tasso di occupazione straniera registra una crescita per il 2010, dall'altro lato anche la disoccupazione raggiunge il 9,4%.
La conseguenza automatica di questo fenomeno è l'aumento di irregolari sul territorio, in quanto ben 100.000 stranieri non hanno rinnovato il permesso di soggiorno nell'ultimo biennio, e si tratterebbe perlopiù di persone che non hanno potuto rinnovare il documento per lavoro.
Tabella n. 3 – Occupati ripartiti per genere: totali, italiani e stranieri (variazioni % 2009-2010)
|
OCCUPATI TOTALI (V.A. 2010)
|
OCCUPATI TOTALI (VAR. % 2009-2010)
|
PROVINCIA DI ROMA
|
ITALIA
|
|
|
SESSO
|
Provincia di Roma
|
Italia
|
Provincia di Roma
|
Italia
|
Italiani
|
Stranieri
|
Italiani
|
MASCHI
|
963.971
|
13.634.014
|
-0.3
|
-1.1
|
-3.2
|
25.6
|
-2
|
FEMMINE
|
739.319
|
9.238.314
|
1.5
|
0.0
|
-0.4
|
13.7
|
-0.9
|
TOTALE
|
1.703.290
|
22.872.328
|
0.5
|
-0.7
|
-2
|
19.5
|
-1.6
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Fonte: Osservatorio Romano Sulle Migrazioni. Ottavo Rapporto
Dall’osservazione della distribuzione settoriale delle posizioni lavorative straniere e di quelle degli italiani nella provincia di Roma, si rileva che sussistono differenze profonde tra microsettori. Nell’area romana il 71,5% degli occupati di origine straniera trova impiego nei servizi o nel commercio (tabella n. 4).
Tabella n. 4 – Occupati secondo l’attività economica (2010)
Attività economica
|
Provincia di Roma
|
Italia
|
|
|
Italiani
|
Stranieri
|
Italiani
|
Stranieri
|
Agricoltura
|
0.7
|
3.1
|
3.9
|
Ind. Energia e estrattiva
|
1.2
|
0.0
|
0.9
|
Ind. Trasformazione
|
8.1
|
5.9
|
19.2
|
Costruzioni
|
6.4
|
19.5
|
7.6
|
Commercio
|
12.4
|
5.7
|
15.4
|
Alberghi, ristoranti
|
4.8
|
10.6
|
4.8
|
Trasp. e comunicazioni
|
9.3
|
1.7
|
5.5
|
Interm. finanziari
|
4.7
|
1.7
|
3.9
|
Serv. imprese
|
17.1
|
6.7
|
11.1
|
PA, difesa
|
11.9
|
0.2
|
6.8
|
Istruz., sanità, assist. sociale
|
14.9
|
3.4
|
14.8
|
Altri serv. Pubb. sociali
|
8.4
|
41.4
|
6.0
|
Totale
|
100,00
|
100,00
|
100,00
|
|
|
|
|
|
|
|
Fonte: Osservatorio Romano Sulle Migrazioni. Ottavo Rapporto
Nella provincia di Roma (vedi tabella n. 5) gli occupati stranieri svolgono professioni a bassa qualificazione per il 74,7% e le stesse mansioni coinvolgono solo il 20,8% dei lavoratori italiani. Una distanza così marcata continua a confermare che il mercato del lavoro offre ai cittadini stranieri un segmento specifico e ristretto prescindendo anche dalla qualificazione e dall’istruzione posseduta.
Tabella n. 5 – Occupati stranieri per paese di provenienza e sesso: alcune caratteristiche (2010)
Paese di provenienza
|
Prime tre professioni
|
Età media della popolazione
|
|
|
Maschi
|
Femmine
|
M
|
F
|
Romania
|
Muratore, manovale, camionista
|
Collab. Domestica, commessa, addetta pulizia
|
30
|
30
|
Filippine
|
Collab. Domestico, custode, facchino
|
Collab. Domestico, cameriera
|
34
|
42
|
Ucraina
|
Facchino, commerciante
|
Collab. Domestico, assistente familiare
|
31
|
44
|
Albania
|
Cuoco, muratore, agricoltore
|
Collab. Domestica, cuoca
|
29
|
28
|
Polonia
|
Muratore, manovale
|
Collab. Domestica, commessa
|
30
|
38
|
Ecuador
|
Facchino, Collab. Domestico, muratore
|
Collab. Domestico, baby sitter034
|
34
|
30
|
Perù
|
Collab. Domestico, cuoco, assit. familiare
|
Collab. Domestico, parrucchiere baby sitter
|
41
|
37
|
Colombia
|
Addetto alle pulizie, operaio e elettricista
|
Collab. Domestica, baby sitter
|
26
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Fonte: Osservatorio Romano Sulle Migrazioni. Ottavo Rapporto
Gli effetti negativi della crisi economica continuano ad esercitare un’influenza in termini di aumento delle persone in cerca di lavoro anche fra i cittadini stranieri residenti nel nostro paese e nell’area romana (vedi tab. 6). Considerando, inoltre, l’incidenza dei lavori atipici (tempo determinato e collaborazioni) nella provincia di Roma è evidente che le differenze appaiono sensibilmente diverse fra i lavoratori stranieri e i lavoratori di origine italiana con una prevalenze di questi ultimi (vedi tabella n. 7).
Tabella n. 6 – Tasso di disoccupazione media 2010
Area
|
Italiani
|
Stranieri
|
Provincia di Roma
|
9.0
|
9.4
|
Italia
|
7.5
|
11.6
|
Fonte: Osservatorio Romano Sulle Migrazioni. Ottavo Rapporto
Tabella n. 7 – Occupati secondo il carattere dell’occupazione (2010).
Attività economica
|
Provincia di Roma
|
Italia
|
|
|
Italiani
|
Stranieri
|
Italiani
|
Atipico
|
11.4
|
8.7
|
11.0
|
Standard
|
88.6
|
91.3
|
89.0
|
Totale
|
100,0
|
100,0
|
100
|
Fonte: Osservatorio Romano Sulle Migrazioni. Ottavo Rapporto
Si può aggiungere inoltre che nell’area romana si evidenzia una quota non trascurabile (vedi tabella 8) superiore alla media nazionale di lavoratori stranieri in possesso di un diploma superiore o di una laurea.
Tabella n. 8 – Occupati secondo il titolo di studio e la cittadinanza (2010)
Titolo di studio
|
Provincia di Roma
|
Italia
|
|
Italiani
|
Stranieri
|
Italiani
|
Licenzia elementare o meno
|
2.9
|
5.4
|
5.0
|
Formazione medio/bassa
|
25.7
|
34.8
|
37.7
|
Diploma superiore
|
45.6
|
45.6
|
39.1
|
Oltre diploma
|
25.9
|
14.2
|
18.2
|
Totale
|
100,0
|
100,0
|
100,0
|
Fonte: Osservatorio Romano Sulle Migrazioni. Ottavo Rapporto
Riferendoci al caso del X municipio (ex XIII), in base ai dati forniti dall'ottavo Rapporto dell'Osservatorio romano sulle migrazioni, i residenti stranieri registrati sono 22.628, con un incidenza del 10% sulla popolazione totale. Inoltre nel quinquennio 2007-2011 il municipio ha registrato anche un incremento percentuale (+55%) superiore a quello totale della Capitale (+37,9%).
Il X municipio (ex XIII) comprende diversi quartieri: Lido di Ostia Ponente, Lido di Ostia Levante, Lido di Castel Fusano; ed al suo interno si distinguono diverse zone urbanistiche: Malafede, Acilia Nord, Acilia Sud, Palocco, Ostia Antica, Ostia Nord, Ostia Sud, Castel Fusano, Infernetto, Castel Porziano.
Le zone urbanistiche più popolate da immigrati risultano essere Ostia Nord (5.411 immigrati) e Ostia Sud (4.385 immigrati).
La principale area territoriale di provenienza dei residenti stranieri nel X municipio (ex XIII) è quella dell'Europa UE (incidenza del 52,9 % sul totale, in base alla ripartizione per aree continentali), con una netta prevalenza della nazionalità rumena (33,2 %), seguita dalla comunità Polacca (9, 5%), Egiziana (5,4%), Srilankese (5,1%) e Ucraina (4,2 %). La collettività polacca assume una risonanza particolare in questo contesto, visto che registra un totale di 2.159 residenti, il numero più alto tra tutti i municipi (le altre due aree più numerose sono quelle dell'ex XIX municipio, con 1.309 residenti e del I municipio con 1063 unità).
La popolazione straniera del X municipio (ex XIII) registra un tasso percentuale più alto di coniugati (46,2 %) rispetto a quello romano nel suo complesso (40,2%). Inoltre i dati rivelano una presenza importante sia di donne (52,9%) che di minori (16,1%), indicatori di una migrazione “familiare” piuttosto radicata e che, inevitabilmente, entra in relazione con i servizi sul territorio.
Conoscere il grado di accessibilità (definito dalla normativa vigente) e di fruibilità (ovvero come i servizi adeguano le risposte all'eterogeneità dell'utenza) dei servizi, diventa un utile indice di capacità di integrazione da parte del territorio.
Considerando che le famiglie di immigrati sono di solito composte da più di due membri, con due figli e più di media, è chiaro che si pongono dei problemi diversi rispetto ai primi anni Novanta, allorché l’immigrazione era composta prevalentemente di singoli immigrati giunti in Italia in cerca di lavoro. In anni recenti molti di loro, dopo aver trovato un impiego, hanno portato in Italia la famiglia mediante il ricongiungimento, oppure hanno costruito un nucleo familiare proprio in Italia; si pone quindi la necessità di una politica per l’immigrazione che affronti la questione in un'ottica diversa.
2.2. L'accesso al lavoro: reti formali ed informali
Il presente lavoro ha usufruito di diversi archivi statistici, come base di partenza per descrivere una data situazione, ma ciò non consente di individuare delle tendenze strutturali di sviluppo, in quanto l'immigrazione è un fenomeno multidimensionale, e richiede analisi più complesse con la presa in considerazione di tutti i dati disponibili.
La ricerca è stata realizzata in stretta collaborazione con alcuni Enti che hanno un ruolo attivo sul territorio per quanto attiene le politiche di integrazione rivolte agli immigrati, oltre che alcune associazioni di volontariato attive nel municipio e soprattutto i singoli migranti che hanno contribuito con le loro testimonianze volontarie a fornirci uno spaccato significativo, anche se numericamente poco significativo, dei percorsi migratori e delle reti utili nei loro processi di integrazione.
La co-partecipazione e il coinvolgimento di diversi soggetti nella realizzazione della ricerca sono stati dettati, da una parte, dalla possibilità di creare delle sinergie tra diverse competenze utili alla realizzazione degli obiettivi dello studio e, dall’altra, dalla consapevolezza che i dati emersi possano servire a promuovere buone pratiche a favore dei migranti da parte delle istituzioni, dei servizi e dei soggetti pubblici e privati che direttamente si occupano di immigrati.
La complessità dell’oggetto d’indagine ha reso opportuno l’utilizzo di strategie di raccolta dati sia quantitative che qualitative. La ricerca si è svolta in diverse fasi. La prima fase ha riguardato l’analisi del contesto finalizzata all’acquisizione di dati statistici e secondari sui migranti presenti sul territorio romano e municipale in particolare. Parallelamente è stata avviata una seconda fase finalizzata alla somministrazione di interviste semi strutturate a referenti istituzionali (NAE, Ufficio Minori, ASL, Scuole), volontari e terzo settore (Associazione Ciao, Caritas, Sant'Egidio, ecc.) ed ai migranti residenti nel territorio.
Negli ultimi anni anche il X municipio (ex XIII) si è trovato a dover affrontare e gestire il fenomeno migratorio da una diversa e più complessa prospettiva. La presenza nel territorio di interi nuclei familiari stranieri formati anche da bambini e adolescenti ha reso sempre più visibile una “nuova” domanda di servizi e una sempre più diffusa esigenza di inserimento sociale.
Alla luce di quanto detto, la presente ricerca ha esaminato il ricorso degli stranieri a diverse reti informative e di sostegno di fronte a necessità o problematiche eventualmente emerse nel percorso di integrazione socio lavorativa.
A partire da questo ragionamento l'indagine si è focalizzata sulla considerazione degli effetti positivi e negativi che può avere per gli stranieri l'appartenenza a reti informali e l'adesione a reti formali sul territorio. Come ribadito più volte, infatti, la città è definita da relazioni al cui interno si articola la possibilità individuale di usufruire di benefici ed esercitare diritti.
Prima di addentrarci nella descrizione e analisi dei network formali e informali presenti nel municipio X (ex XIII) è però opportuno partire dal concetto di rete e definirne i contorni teorici e pratici
La rete sociale, oggetto di studio della Social Network Analysis[43], è definita come insieme (o insiemi) di attori sociali e di relazioni definite tra tale insieme di attori.
Nell’ambito delle scienze sociali il concetto di rete sociale è stato utilizzato a lungo come “metafora” per tradurre ora l’idea della società come rete di reticoli sociali, ora l’idea dell’azione sociale come come esito di vincoli ed opportunità emergenti dalle relazioni tra i soggetti. In ambito sociologico tali studi hanno mostrato che nelle reti si depositano valori materiali ma soprattutto non materiali che contribuiscono a determinare la “ricchezza” individuale e collettiva (diversa da individuo ad individuo, non solo a causa delle “capacità relazionali”, ma anche per effetto di specifici processi strutturali) espressa in beni relazionali e immediatamente spendibile qualora se ne presenti la necessità.
Quella di cui si fa portatrice la Social Network Analysis è sicuramente una prospettiva teorica che accentua una particolare dimensione della realtà sociale, quella della sua struttura reticolare, dell’insieme complesso di interdipendenze e interconnessioni cercando di comprendere le condizioni della reciproca chiamata in causa tra comportamenti sociali e tali sistemi di interdipendenze.
Il presente studio si concentra sull'importanza delle risorse informali di alcuni stranieri residenti nel X municipio, che spesso usano reti parentali e amicali per fornirsi sostegno reciproco. In base alle interviste semi strutturate effettuate ed alle uscite informali sul territorio, emerge, in modo trasversale tra le comunità, come esista una vera e propria pratica di integrazione degli stranieri sul territorio, in un ciclo di vita che all'inizio vede il prevalere di reazioni informali ed in seguito, pur se con fatica, si allarga alle reti istituzionali e formali.
Giunti in Italia, infatti, i migranti si trovano a dover affrontare numerose difficoltà linguistiche, economiche, burocratiche nell’accesso ai servizi istituzionali e in molti casi ignorano, a causa della ristrettezza del loro campo informativo, l’esistenza stessa di determinati servizi. In conseguenza di tali difficoltà le comunità etniche minoritarie utilizzano frequentemente risorse informali come strumenti di sostegno, aiuto reciproco e accesso alle informazioni.
Il tema del lavoro nei discorsi affrontati con i testimoni privilegiati della nostra indagine è stato sempre preponderante e spesso complementare con il tema della crisi economica. Il lavoro riveste, infatti, per molti stranieri un'importanza materiale e simbolica perché concede status e riconoscibilità.
E' da sottolineare, inoltre, come il possesso di un lavoro retribuito e regolare sia spesso la discriminante per accedere ad altri diritti anche questi materiali (contratto di affitto, residenza) e dalla forte valenza simbolico- culturale, perché consentono allo straniero di riconoscersi in un gruppo e in un insieme di valori, di costruire quindi un senso di appartenenza. Avere un lavoro, inoltre, consente l'accesso al consumo, reale discriminante nelle gerarchie di potere della contemporaneità.
I dati disponibili in letteratura sulle reti utilizzate dagli immigrati sono tuttavia pochi e ancora meno sono quelli disponibili sul confronto fra diverse comunità.
In merito proprio al tema lavoro, le diverse modalità di ricerca e di reperirlo da parte degli stranieri spesso non vengono registrate nelle statistiche ufficiali, perché a volte si tratta di stranieri irregolari sul territorio, oppure perché privi di un contratto di assunzione. Alcune informazioni raccolte durante le nostre interviste e osservazioni sul campo si sono rivelate preziose per colmare questi gap.
2.2.1 Babu: il self made man
Il primo testimone che durante diversi incontri informali avuti ad Acilia ci ha illustrato il funzionamento delle reti formali e informali degli stranieri nel territorio è Mustafazir Rahman, detto Babu, Consigliere aggiunto municipale di origine bengalese che vive ad Acilia ma gestisce pure diverse attività commerciali ad Infernetto, oltre ad essere un punto di riferimento importante per l'intera comunità bengalese.
Il primo incontro del gruppo di ricerca con Babu è avvenuto presso il suo negozio di alimentari/internet point in Via di Saponara, ad Acilia. In questa occasione Babu ci ha raccontato il suo viaggio e percorso migratorio, iniziato il 4 marzo 1993, data del suo arrivo in Italia da clandestino. Il nostro testimone racconta di un percorso di integrazione lungo e difficile, caratterizzato da precarietà documentale, lavorativa e alloggiativa dei primi anni di permanenza, quando dormiva in un garage e si arrangiava a lavorare “in nero” come lavavetri, giardiniere e, infine, presso un autolavaggio. Nel ’97, in seguito al ricongiungimento con la moglie, il Sig. Babu necessitava di regolarizzare la sua posizione in Italia, e si organizzò mediante il rientro in Bangladesh per poi fare ritorno in Italia con un visto per lavoro. Proprio per ottenere questo visto il nostro testimone racconta di aver ricevuto “aiuto” da due persone conosciute all'interno dell'ambasciata. Da questo momento inizia un percorso di crescita lavorativa, economica e di status. Racconta infatti di aver avviato nel 1999, mediante l'”aiuto” di un signore italiano, la sua prima attività commerciale, un negozio di alimentari, per aprire poi un internet point, e un negozio di barbiere che attualmente sta trasformando in macelleria halal, ovvero con prodotti macellati secondo i dettami della religione musulmana.
Cosa ci racconta la storia di Babu?
Non abbiamo particolari riferimenti di attori istituzionali rispetto all’esperienza di Babu: nel suo racconto accenna alla Caritas di Ostia e ai suoi servizi (come il servizio mensa, che però non ha mai utilizzato), e poi alle attività di sostegno delle parrocchie (la Sig.ra Marta delle chiesa di Casalpalocco), l’aiuto di un attore istituzionale locale, di alcune farmacie che in caso di necessità fornivano gratuitamente i farmaci.
Il riferimento è quindi ad una dimensione personalistica e solidaristica, che non si inserisce in un quadro strutturato di aiuto al migrante che giunge sul territorio, bensì che lavora esclusivamente sull'emergenza.
Dai suoi racconti emerge la descrizione di una rete della comunità bengalese molto solida e organizzata. Il Sig. Babu, infatti, racconta come il centro nevralgico della comunità bengalese nella Capitale fosse in passato Piazza Vittorio Emanuele, dove ha sede l'associazione più importante di bengalesi a Roma, che ogni due anni eleggono un presidente, ma con l’arrivo dei cinesi che hanno acquistato molte attività commerciali all'ingrosso, i bengalesi si sono spostati a Tor Pignattara.
Rivela altresì che nelle varie zone dove la comunità si concentra esiste un referente della comunità, e ad Acilia ed Infernetto è proprio Rahman Mustafazir, ovvero Babu.
L'importanza e il ruolo cruciale svolto dalle reti informali è confermato dallo stesso Babu, che definisce l'unità come elemento di forza dei bengalesi, che attivano sempre reti di mutuo aiuto per risolvere problemi legati all'alloggio o all'inserimento lavorativo. Il Sig. Babu ospita infatti tre connazionali ed ha inserito diversi stranieri a lavorare presso i suoi esercizi commerciali. La rete funge da ufficio di collocamento, ma riveste altresì una funzione fondamentale per l'adesione ad un sistema di valori e ad una comunità. Il Sig. Babu, infatti, ha allargato con gli anni i suoi interessi e relazioni e nel 2011 ha aperto una Moschea ad Acilia, dove ha dato vita ad un’associazione di cui è presidente e che conta altri 4 soci. La moschea è divenuto un luogo di riferimento religioso e di socializzazione per le numerose comunità invitate, che nel corso del tempo hanno organizzato anche alcune feste come quella di fine Ramadam che ha visto la partecipazione di un numero elevato di stranieri di molte comunità.
Babu appare non solo come grande imprenditore, ma anche come leader culturale della comunità (di fatto è il responsabile del Centro Culturale islamico). Il legame tra le sue due identità risulta particolarmente interessante: le relazioni economiche che ruotano intorno al suo negozio riflettono e rimandano in maniera reciproca alle relazioni sociali, solidali ma anche politiche che è stato in grado di generare sul territorio all’interno della comunità straniera. Il fatto che, come imprenditore, si rivolga alla comunità straniera nel suo insieme (in particolare a quella rumena e polacca,oltre che bengalese. Basti pensare che ha assunto una ragazza rumena.) ci apre lo scenario di un mondo economico a sé stante che la comunità straniera è stata in grado di generare e che porta con sé (e ne è allo stesso modo l’effetto) un mondo sociale e culturale ugualmente a sé stante.
Se la società italiana esclude gli stranieri dalle relazioni economiche (agli stranieri non è possibile comprare le licenze senza cittadinanza ed ugualmente è molto raro trovare un negozio italiano che vende prodotti stranieri), gli stranieri si auto-organizzano e creano delle relazioni di produzione, commercializzazione e consumo tutte interne alle comunità straniera che si alimentano in maniera reciproca sulle relazioni sociali che si instaurano.
Di fatto emerge il ruolo politico di Babu, punto di riferimento della comunità straniera nel suo insieme, capace di rispondere alle sue esigenze tanto economiche quanto socio-culturali.
Ovviamente risulta spesso difficile distinguere i confini tra il ruolo del broker, che agisce da mediatore tra domanda e offerta di lavoro e quello ben noto alla storia sociale italiana del “caporale”, che affitta lavoro lucrando sui compensi dovuti ai lavoratori alle sue dipendenze, in quanto i confini sono spesso sfumati e rarefatti.
Il processo di inclusione ed integrazione degli stranieri nel territorio deve, quindi, passare necessariamente attraverso relazioni economiche. Le relazioni economiche tra stranieri e tra stranieri ed italiani sono lo specchio attraverso cui osservare le relazioni sociali e il punto di partenza da cui riprogettare percorsi di integrazione.
Il caso di Babu esemplifica come all'interno della Comunità bengalese ad Acilia, Infernetto ed in generale in alcune zone strategiche del territorio romano (Piazza Vittorio Emanuele, Tor Pignattara, ecc.) esistano relazioni forti e spesso strumentali che portano ad una rete di scambi e interazioni e che possono fornire aiuto quotidiano in tempi molto più ristretti rispetto a quelli delle reti istituzionali di assistenza a Roma.
Il processo descritto da Babu in merito all'iter seguito da un” bengalese tipo” che arriva a Roma e si rivolge al “capo” locale, evoca una dimensione comunitaria e l'appartenenza ad una rete informale forte che ricopre un ruolo emblematico sia nella fase iniziale di adattamento al nuovo contesto di vita che nella futura definizione del proprio progetto migratorio e familiare nel paese di approdo, che esige un ampliamento delle reti amicali e familiari stesse.
In questa sede è d'obbligo tuttavia specificare come, nonostante i dati qualitativi a disposizione non siano sufficienti per una generalizzazione dei risultati, l'appoggio che le reti migratorie offrono ai nuovi arrivati non è sempre disinteressato o dettato unicamente da sentimenti di solidarietà. Possono infatti manifestarsi spesso rapporti di dipendenza capo/cliente, che vanno dalla dipendenza simbolica, che esige rispetto, gratitudine e deferenza di colui che concede un innalzamento di status, o addirittura in forme di ricatto economico quando si parla di sub affitto di letti a caro prezzo, pagamenti in denaro per il reperimento di un posto di lavoro, fino a casi di vera e propria schiavitù.
Le reti sociali possono quindi essere produttrici di integrazione, così come possono moltiplicare le differenze. Le possibilità di un inserimento positivo e di un progetto migratorio di successo potrebbe quindi avere una forte dipendenza dalla tipologia di rete e di comunità di appartenenza a cui uno straniero appena arrivato fa riferimento.
La distinzione tra comunità coesa e interconnessa e comunità frammentata e individualista è emersa durante il nostro percorso di ricerca in alcune interviste, anche se non consente di separarne automaticamente i percorsi in base all'appartenenza nazionale.
2.2.2 Loredana, Petre, Jenni: il valore delle differenze
Una preziosa testimonianza che ci ha fornito uno spaccato differente del funzionamento delle reti di migranti sul territorio del X municipio, è quella di Loredana, ragazza rumena che ci ha accolti a casa sua nella zona di Ostia Lido per un colloquio informale riguardo la sua storia di vita, la questione lavorativa, abitativa e i progetti futuri.
Loredana racconta di essere arrivata in Italia a Ottobre del 2002, all'età di 22 anni, direttamente a Ostia insieme al fidanzato rumeno di allora. Entrambi speravano in una regolarizzazione con la Sanatoria del 2002. In Romania aveva studiato Scienze Sociali ma sperava in un lavoro più redditizio in Italia, senza avere però un progetto migratorio ben definito:
L: “Sono venuta così..ho detto, partiamo e poi si vede..”
Loredana racconta che la realtà si è rivelata, però, molto più complicata ed è rimasta quindi irregolare sul territorio fino al 2008. Durante questi anni si organizzava per fare avanti e indietro dalla Romania ogni 90 giorni, e lavorava a nero come aiuto cameriera in un Ristorante a Ostia. Loredana racconta di non aver mai seguito alcun corso di italiano, ma di aver imparato tutto da sola, lavorando.
Dalla storia raccontataci dalla nostra seconda testimone emerge un ruolo diverso della comunità dci appartenenza, in quanto i rapporti che Loredana e il nucleo familiare intrattengono con la rete di connazionali sono molto ristretti e limitati ed anche la percezione dell'esistenza di una rete informale di mutuo aiuto è diametralmente opposta rispetto al precedente testimone.
Le abbiamo domandato perché molti rumeni decidano di costruire baracche di fortuna o accamparsi nella pineta di Castel Fusano, piuttosto che rivolgersi a connazionali che potrebbero ospitarli o aiutarli. Di contorno alla domanda facciamo un parallelo con le reti di solidarietà citate dal nostro primo testimone e che percorrono tutto il percorso di integrazione dei bengalesi sul territorio, dall'arrivo e prima accoglienza all'inserimento lavorativo.
Loredana, rispetto ai rapporti di “solidarietà” sembra molto diffidente e la sua opinione emerge nettamente dalle parole che utilizza:
L: “i bengalesi non aiutano. Sfruttano. Guarda quelli che affittano una stanza a 10 persone con i letti a castello”.
Rispetto ai connazionali che vivono nelle baracche, sostiene si tratti per lo più di zingari “ad esempio quelli di idroscalo, che vanno a vendere su Via delle Sirene le cose dei cassonetti”. Emerge, quindi, una forte stigmatizzazione della comunità zingara, a cui viene riconosciuta l'esclusiva dell'accamparsi in giacigli di fortuna, mentre non viene fatto alcun riferimento ai rumeni in generale.
Si potrebbe ipotizzare, da un confronto delle due testimonianze su citate, l'esistenza di più reti, facenti riferimento alla nazionalità di appartenenza, ma anche al grado di coesione della comunità di riferimento.
Preme sottolineare come l'esiguità dei dati di prima mano a disposizione non renda ovviamente possibile fare una analisi strutturata e giungere a conclusioni generalizzabili.
E' evidente che l'esito di un percorso migratorio è anche influenzato da condizioni personali, psicologiche e economiche di partenza, oltre che contestuali di arrivo.
Petre è un connazionale di Loredana residente a Ostia, che ci ha raccontato un percorso di migrazione e integrazione ben diverso. Petre è arrivato in Italia nel 2002 dopo aver lavorato per diversi anni in altri paesi europei (Belgio, Francia, Spagna) e approfittando della “famosa” Sanatoria del 2002. In quell’anno riferisce di essere partito dalla Romania per raggiungere a Ostia suo cugino che, tramite il datore di lavoro, gli aveva proposto un lavoro presso un’officina meccanica. Giunto a Ostia, ha regolarizzato la sua situazione documentale rientrando nella sanatoria ed ha vissuto per i primi due anni all’Idroscalo di Ostia, mentre per il vitto risolveva mangiando presso le mense Caritas. Dal racconto di Petre emerge il suo ruolo di punto di riferimento per la comunità rumena ad Ostia, in particolare nei confronti di coloro che sono appena arrivati sul territorio, per quel che riguarda il supporto che riesce a fornire loro sia logistico/abitativo (in molte occasioni ha ospitato connazionali per alcune settimane in casa con lui), sia lavorativo tramite la sua rete di conoscenze.
Petre ha raccontato che tutt'oggi lavora come meccanico in un’officina (ne ha cambiate 3-4 da quando è arrivato) e grazie alla sua rete è riuscito ad inserire altri rumeni aspiranti meccanici presso alcune officine gestite da italiani con cui è in buoni rapporti e che si fidano di lui. In diverse occasioni ha anche mediato per mettere in comunicazioni donne che cercavano lavoro come badanti e un signore italiano che in cambio di un compenso mandava alle aspiranti lavoratrici 5 sms con il contatto di anziani di Ostia che volevano assumere badanti o donne per le pulizie. Negli anni il compenso richiesto da questo italiano (a volte anticipato dallo stesso Petre), è cresciuto da 50 euro a 150-200 euro a persona e non c’era comunque alcuna garanzia che le donne rumene ottenessero il lavoro. Dopo un po’ Petre ha quindi smesso di “raccomandare” questo contatto.
Anche questo racconto è comunque uno spaccato vivo rispetto all'esistenza di reti informali sotterranee che spesso si trovano in situazioni di confine con l'illegalità ma che rappresentano in molti casi l'unica soluzione per uscire da situazioni di marginalità ed esclusione.
Bagnasco, in uno studio sociologico del fenomeno imprenditoriale nello sviluppo locale, utilizzò il termine capitale sociale, già noto da fine anni '70, per spiegare come le scelte economiche siano influenzate dalla disponibilità di risorse non solo economiche, ma anche sociali, e in particolare dalle cosiddette "reti di relazioni". La rete informale descritta da Babu e dai nostri testimoni rumeni è quindi una forma di capitale sociale, e viene utilizzata per rispondere a bisogni materiali ma anche di appartenenza, perché permette di siglare dei riti di passaggio e di accoglienza in una nuova comunità.
Sono importanti e diversi anche per collettività i canali che hanno consentito agli occupati di trovare il loro impiego principale. Per molti di loro la più diffusa modalità di incontro tra domanda e offerta di lavoro è veicolata dalla fitta rete di contatti e relazioni interna alla comunità di appartenenza.
Anche nel caso di chiamata diretta da parte del datore di lavoro, come per Petre, appartenente alla comunità rumena, è comunque possibile che la domanda di lavoro sia stata indirizzata dai connazionali (familiari, altri parenti, amici, ecc.) già inseriti nello stesso settore di attività. In altri termini, è possibile che una parte degli immigrati occupati, in base anche ai dati statistici presentati in precedenza (vedi tab. 1 e tab. 3, pp. 18-19), sia stata contattata direttamente dal datore di lavoro sulla base delle indicazioni fornite da altre persone della stessa nazionalità.
Emerge, quindi, per molte collettività, l’esistenza di un canale “privilegiato” che sembra mettere al riparo non solo dalla disoccupazione, ma anche dalla clandestinità; l’arrivo di nuovi immigrati sembrerebbe, infatti, pianificato qualora ci sia la possibilità di inserimento legale nel mercato del lavoro. Tale meccanismo, tanto efficiente, si può tuttavia trasformare in una gabbia che blocca gli appartenenti ad una collettività all’interno di un determinato settore o professione, impedendo o riducendo al minimo le possibilità di mobilità lavorativa.
Per quasi tutti gli immigrati intervistati il ruolo dei connazionali e degli altri immigrati appare significativo, in un segmento del mercato del lavoro dove quantomeno il primo contatto tra domanda ed offerta si colloca spesso al di fuori dei canali ufficiali, in un contesto che potremmo definire informale.
Da un'attenta analisi delle parole dei nostri testimoni emerge anche, però, come queste reti informali, fitte e solidali al loro interno, se da un lato consentono di avere risposte e accoglienza, dall'altro impediscono al singolo di allargarsi ed interagire con altre reti socio- culturali.
2.3 Lavoro nero e irregolarità
Nel caso di Babu, immigrato di origine bengalese, l'inserimento in reti lavorative di successo ha consentito di intrecciare nuove relazioni e di intraprendere un'attività imprenditoriale di successo.
Il lavoro è il minimo comune denominatore di tutti i racconti e riveste un ruolo fondamentale, come chiave per un processo di integrazione.
La nostra testimone di nazionalità rumena, Loredana, definisce il lavoro come l'elemento più importante per uno straniero che arriva in Italia:
“La cosa più difficile quando uno straniero arriva è stare senza lavoro ”
Loredana oggi fa la sarta da casa e le pulizie presso conoscenti in modo discontinuo. Ancora oggi, a 11 anni dal suo arrivo, continua a lavorare senza contratto né contributi, anche se, quando le domandiamo le motivazioni è lei stessa a dire “se lavoro con il contratto mi tolgono tutti i soldi di tasse”, una sorta di consenso tacito quindi verso una condizione che non permette comunque di proiettare nel futuro un progetto di stabilità che preveda, ad esempio, una pensione.
Anche il marito di Loredana, Christian, lavora a nero, ma come fabbro (in passato aveva lavorato come operaio e spiaggino). Il datore di lavoro dice “che non gli può fare il contratto perché gli costa troppo”.
Il nostro testimone rumeno Petre, che vive a Ostia da più di 10 anni, ha rilevato una lenta involuzione della migrazione rumena in questo periodo per quel che riguarda le opportunità lavorative. Ci ha riferito, infatti, che il lavoro nell’edilizia, che è sempre stata la principale occupazione, si è ridotta a causa della crisi nel settore e ha prodotto una precarietà crescente che ha spinto molti, soprattutto negli ultimi 2-3 anni a tornare in Romania o a reinventarsi in mestieri diversi, che non sono i loro. Una criticità costante, che è andata aumentando, è l’illegalità nel lavoro legata da un lato al proliferare del lavoro in nero e dall’altro lato è collegata alla corruzione per la quale, nel caso soprattutto di importanti appalti edilizi, è prassi in molte realtà che venga richiesto il pizzo (fino al 30%). A questo si aggiunge un’elevata tassazione per le imprese, che insieme agli altri fattori prima descritti disincentiva lo spirito imprenditoriale, specie in questo settore, di uno straniero.
I racconti che abbiamo raccolto su condizioni di irregolarità lavorativa e sul lavoro nero, pur se numericamente esigui, rispecchiano in parte il sommerso che non emerge dai dati statistici ufficiali. Una popolazione parallela di migranti invisibili (senza lavoro, senza contratto, senza permesso di soggiorno) che necessita di servizi e rischia di essere isolata nella condizione di marginalità sociale.
Un caso esemplificativo di questo rischio è quello di Costantin, un giovane amico di Petre, arrivato per lavorare a Ostia alcuni anni fa, ma che, a causa della crisi del settore edile s’è ritrovato a lavorare solo 5-6 giorni al mese e, pur di non tornare in Romania (nella sua città non c’è lavoro e comunque gli stipendi sono molto bassi), si è organizzato accampandosi nel parco di Castel Fusano e mangiando a pranzo alla Caritas.
Un'altra testimonianza significativa rispetto al lavoro irregolare è stata quella di Jenni, ragazza rumena arrivata in Italia nel 2009 alla ricerca di lavoro, che non trovava nella sua città di origine.
A Ostia è riuscita a trovare lavoro in breve tempo come badante e nei primi due anni ha assistito tre donne diverse lavorando sempre in nero, per poi lavorare come donna delle pulizie (ancora oggi) senza aver mai visto un contratto regolare.
Jenni ha molte amiche rumene che lavorano come badanti e, a domanda diretta, risponde che la percentuale delle badanti che lavorano in regola sono il 25%, solo 1 su 4.
Un'altra testimonianza significativa per capire come il rapporto con le reti non sia generalizzabile anche all'interno di una stessa comunità nazionale, è quella di Michela, giovane rumena di 23 anni trasferitasi in Italia 4 anni fa. Michela ci ha raccontato di aver iniziato l'attività commerciale con una macelleria rumena ad Acilia, ma a causa della crisi economica sono stati costretti a trasferirsi ad Infernetto, dove la richiesta di prodotti rumeni è più alta, essendo la popolazione costituita perlopiù da immigrati rumeni e del continente asiatico. La macelleria offre sia carne italiana che prodotti rumeni, ed è cogestita da Michela e da un signore italiano.
Rispetto quindi, ai legami profondi che vedono intrecciarsi nella comunità bengalese relazioni economiche e sociali (vedi il caso di Babu e di Petre), nel caso di Michela non sembra emergere un alto livello di solidarietà tra connazionali, che sembrano portare avanti il progetto migratorio in modo piuttosto individualistico e in base alle singole risorse personali.
L'attività economica di Michela non fa parte di un mondo a sé stante, rinchiuso nella comunità di appartenenza, bensì si apre e si intreccia con il tessuto socio-economico italiano. Tuttavia, l'assenza di confini e la permeabilità di questo microcosmo suggeriscono anche un senso di appartenenza che nel caso di Michela sembra sfumato e fragile. Michela, infatti, così come spesso accade a molti emigranti, vive un effetto di straniamento rispetto alle proprie origini, sensazione che involontariamente emerge dai suoi discorsi relativi sia alle amiche che sono rimaste a vivere in Romania (che hanno fatto un scelta di vita che lei non condivide) sia rispetto ai connazionali che vivono nel suo stesso quartiere, verso i quali mostra un po' di diffidenza e preferisce quindi non intrecciare relazioni con loro (“si fingono amici e poi ti escono il coltello”- dice durante la conversazione).
2.4. Segmentazione etnica del mercato del lavoro e mercati etnici
Dalle testimonianze raccolte emerge come la ricerca di un lavoro passi quasi sempre attraverso le reti informali e che nella ricerca di lavoro la maggioranza degli intervistati si è rivolta a conoscenti, sia autoctoni che connazionali. I lavoratori stranieri intervistati hanno potuto trovare un proprio posto accettando spesso condizioni di lavoro segnate da condizioni costanti di sotto inquadramento rispetto ai titoli in loro possesso (con conseguente dequalificazione professionale), a nero e senza garanzie previdenziali, oltre ad essere concentrati in pochi settori e in mansioni a volte pericolose e di basso profilo. Babu ha iniziato da lavavetri ai semafori, mentre Loredana dopo tanti anni continua ad avere lavori saltuari e non in regola come sarta e donna delle pulizie.
L'esistenza di una segmentazione etnica del mercato del lavoro, rilevata dalle statistiche ufficiali (vedi tab. 5 pag. 21), è confermata in modo trasversale dalle interviste effettuate presso i CAF territoriali, uno a Ostia centro, uno ad Acilia e uno ad Infernetto. Alla domanda sui servizi offerti e sulle nazionalità che li richiedevano, la risposta è stata quella relativa a richieste per il rilascio del permesso di soggiorno a donne dell'Est per lavoro di colf o badante, mentre uomini adulti rumeni si rivolgevano principalmente ai CAF per l'apertura di partite IVA richieste spesso dalle aziende edili per impiegare manodopera.
Una risposta da parte di alcuni migranti è stata, anche come strategia di resistenza alla crisi e alla disoccupazione, l’auto-imprenditoria. In base ai dati forniti dall'Osservatorio Romano sulle migrazioni, tra il 2008 e il 2011 mentre le imprese con titolare italiano sono dimunite dell’1,4% quelle con titolare straniero sono cresciute del 31,6% e la loro incidenza sul totale delle imprese è passata dal 14% del 2008 al 17,3% del 2011. Gli imprenditori immigrati provengono da Romania (5.784, il 19,1% del totale), Bangladesh (5.637), Cina (2.654), Marocco (2.234) ed Egitto (1.885) e si occupano soprattutto di commercio (38%), edilizia (24%), pubblici esercizi (9% inclusi la ristorazione e i servizi alle imprese).
Le attività commerciali di Babu sono solo esempi statisticamente poco significativi ma che a livello simbolico rivestono un ruolo importante per inquadrare la situazione del lavoro autonomo straniero a Roma e , in particolare, nel X municipio.
Il presente lavoro è stato svolto mediante numerose uscite sul campo per osservare e fare un'analisi di contesto aggiuntiva rispetto ai dati quantitativi reperiti.
Le zone limitrofe alla stazione di Lido Centro, così come alcune zone di Acilia (ad esempio Via di Saponara) si sono rivelate zone ad alta densità di negozi a caratterizzazione “etnica”, un vero e proprio mercato dei beni e servizi “etnici” a cui gli immigrati insediati da parecchio tempo tendono a rivolgersi (phone center, macellerie islamiche, servizi di money transfer).
Questi negozi, se da una parte testimoniano la reale crescita del numero di stranieri titolari di un’impresa e dei loro dipendenti, dall’altra svelano la riproduzione di una “specializzazione etnica”, consolidatasi già nel lavoro dipendente, dando vita, soprattutto nel commercio, a vere e proprie “nicchie economiche” a forte caratterizzazione straniera.
La costante mai mutata, se possibile anzi rafforzata dalla crisi economica e dalle sue ricadute in termini di occupazione e disoccupazione, è il definirsi e consolidarsi progressivo di un modello di integrazione subalterna e di un mercato del lavoro dal carattere duale.
Ma soprattutto, emerge nettamente l’immagine di un’immigrazione fatta in misura ridotta di persone da assistere e, invece, per la gran parte di uomini e donne che si comportano come veri e propri operatori economici, sia nel paese di origine – con l’invio periodico delle rimesse – che in quello di arrivo e insediamento.
Che ruolo hanno allora le reti informali nell'attivazione delle suddette specializzazioni e segmentazioni? In questo contesto appare quanto mai attuale la teoria delle catene migratorie[47], la quale nega l’esistenza di una specializzazione etnica per cui gli immigrati di un gruppo si concentrano in particolari attività per le loro tradizioni culturali.
Tali concentrazioni in particolari nicchie occupazionali sarebbero invece un paradossale effetto dell’attivazione di catene migratorie le quali facilitano in primo luogo l’inserimento lavorativo e successivamente, soprattutto se all’interno di relazioni comunitarie, quello abitativo e sociale. Queste reti informali funzionano come efficace canale per mettere in contatto domanda e offerta di lavoro[48].
Per alcuni gruppi nazionali le “reti etniche” funzionano meglio perché i gruppi sono appunto meglio organizzati, per altri queste reti sono meno coese e producono minori capacità di solidarietà e di aiuto reciproco tra gli individui.
Conclusioni
I dati primari e secondari raccolti, oltre che le suggestioni fornite dagli incontri di prima mano con alcuni migranti del X municipio, non permettono di presentare conclusioni generalizzabili rispetto ad un quadro del municipio stesso.
Tuttavia, è possibile individuare delle tendenze la cui verifica si auspica venga approfondita da future ricerche.
- Nessuno degli intervistati ha fatto riferimento a reti e servizi istituzionali che si occupano sul territorio di lavoro, come i centri per l'impiego, i C.O.L. (Centri di Orientamento al lavoro), i sindacati e i CAF come agenzie di tutela da condizioni di lavoro prive di garanzie contrattuali o sottopagati.
- Molti fanno riferimento a reti informali come strumenti di accesso al mercato del lavoro e successivamente di integrazione, con la doppia medaglia della segregazione in settori a forte caratterizzazione etnica.
Immaginare un'amministrazione municipale che interviene sul territorio senza considerare i meccanismi di partecipazione e le relazioni che si animano al suo interno, potrebbe essere sintomo di una cecità politica e occorrerebbe, quindi, rivalutare il ruolo della progettazione partecipata come strumento di superamento di approcci verticistici e nascita di un sistema integrato che si faccia carico della complessità.
I tavoli di concertazione sociale municipali dovrebbero allora studiare ed individuare progetti di intervento trasversali, che non siano limitati a progetti “spot” su questioni considerate spesso slegate tra loro. La questione lavoro, ad esempio, è strettamente correlata per i migranti con quella documentale, alloggiativa e sanitaria.
Questo comporta altresì un necessario cambiamento di ottica ed il passaggio da una visione del migrante come problema a quella che lo identifica come risorsa e motore di crescita sia economica che socio- culturale del territorio.
La presente ricerca ha messo in evidenza una distanza tra istituzioni locali e migranti, che preferiscono affidarsi a reti informali, piuttosto che a quelle istituzionali, spesso più lente, complicate e poco accessibili per problemi di matrice linguistica, sociale, culturale.
Una progettazione che si basa unicamente sui dati ufficiali, scarta una parte numericamente significativa di migranti “invisibili”, perché privi di lavoro, documenti e spesso alloggio e destinati, quindi, a scomparire dalle statistiche e dalle rilevazioni ufficiali. Far finta che questi soggetti, portatori di bisogni e diritti, non esistano vuol dire delegare la maggior parte delle volte gli interventi alle associazioni, al volontariato ed al terzo settore, che continuano a lavorare isolati e con scarse risorse a disposizione.
Mappare il territorio è utile all'istituzione perché consente di individuare in anticipo il problema e progettare interventi strutturati che non lavorino solo sull'emergenza.
La progettazione partecipata potrebbe allora essere una via possibile per avviare un processo di costruzione di un' “Integrazione civica” e di socializzazione alla cittadinanza, attraverso la partecipazione a forme di cittadinanza attiva e quindi alla presenza nei processi di policy making al fine di tutelare diritti, curare beni comuni e rafforzare soggetti in difficoltà.
BIBLIOGRAFIA
· Augè Marc, Non Luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 1996 (op. orig. Non Lieux, Seuil, Parigi, 1992), trad. it. di Dominique Rolland;
· Borofsky R. (a cura di), L’antropologia culturale oggi (op. orig. : Assessing cultural anthropology, 1994), trad. it. Di Bernardelli A., Caruso P., D’Eramo G., Di Loreto S., Federici E., Perri A., Vereni P, Meltemi, Roma, 2000;
· Callari Galli M., Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità locali, stati nazione e flussi culturali globali, Guaraldi, Rimini, 2004;
- Centro Studi e ricerche Idos, Gli Immigrati nel mercato del lavoro, 2012;
- Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro - Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri; Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali DG dell’immigrazione e delle politiche di integrazione, rapporto su Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, 19 Novembre 2012 ;
- Dal Lago A., Non Persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999;
- Farmer Paul (2006: 265-300 e VII) “Sofferenza e violenza strutturale. Diritti sociali ed economici nell’era globale”, in Antropologia Medica, a cura di Ivo Quaranta, Raffaello Cortina Editore Milano;
- De Certeau M., L'invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001;
- Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio- II Edizione- Materiale FAD Modulo II- Lezione Dott.Amedeo Pistolese su Introduzione alla ricerca etnografica, Roma 24 giugno 2012;
- Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio- II Edizione- Materiale FAD Modulo I- Lezione Dott.ssa Anna Bovolini su La Concertazione Territoriale. Realtà Urbane e Mondi Sociali Comntemporanei, Roma 24 giugno 2012;
- Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio- II Edizione- Materiale FAD Modulo II- Lezione Dott.ssa Madia Ferretti su Antropologia delle Società Complesse e delle marginalità Urbane, Roma 8 Settembre 2012;
- Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio- II Edizione- Materiale FAD Modulo III- Lezione Dott.ssa Luisa Saba su Progettazione Sociale e pratica Interculturale, Roma 7 Ottobre 2012;
- Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio- II Edizione- Materiale FAD Modulo IV- Lezione Dott.G. Manganiello su Il Project Cicle Management, la gestione del ciclo di progetto- Strumenti metodologici, Roma 3- 4 Novembre 2012;
- Foucault M., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978;
- Geertz C., Gli usi della diversità, in R. BOROSFKY (a cura di), L'antropologia culturale oggi, (op. orig. : Assessing cultural anthropology, 1994), trad. it. di Bernardelli A., Caruso P., D’Eramo G., Di Loreto S., Federici E., Perri A., Vereni P, Meltemi, Roma, 2000;
- Geertz, C., (ed.or 1973) Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1988.
- Giddens A., Ulrich B., Modernizzazione riflessiva, Asterios, 1999;
- ISTAT, Rapporto sulla presenza straniera in Italia, Roma;
- Lynch Kevin, “L'immagine della città”, 2006, Marsilio Editore
- Municipio XIII U.O.S.E.C.S. Servizi Sociali, Piano Sociale Municipale 2011/2015, Roma 2011;
- Sayad Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002 (La double absence, Paris, Editions du Seuil, 1999);
- Sayad Abdelmalek, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul pensiero di stato, in aut-aut, pag. 275;
- Thomas, W.I. 1997 Gli immigrati e l’America. Tra il vecchio mondo e il nuovo, trad.it. Roma, Donzelli (edizione originale: 1921; edizione italiana a cura di R.Rauty);
- Zanfrini L., Sociologia delle migrazioni, Roma- Bari, Laterza, 2004;
SITOGRAFIA
[4]
Dalle scorse elezioni comunali è cambiata la numerazione dei Municipi della Capitale e il XIII °Municipio è diventato il X°.
[14] Marcus G., Fischer J., Antropologia come critica culturale, Meltemi Editore, 1998, p.204
PER LEGGERE E SCRIVERE COMMENTI OCCORRE ESSERE REGISTRATI
|