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Indice

 

Introduzione: Riflessioni sull’antropologia dei disastri                            pag.  2

Capitolo I: Rischio e pericolo: la percezione, un inquadramento teorico   pag.  7

Capitolo II: Vulnerabilità sociale e vulnerabilità ambientale                    pag. 12

Capitolo III: Voci, narrazioni e memoria: abitare il territorio                  pag. 16

Capitolo IV: L’alluvione nella Valle del Lys. Contesto e memoria storica  pag. 22

Capitolo V: L’alluvione nella Valle del Lys. L’indagine etnografica           pag. 29

Conclusioni                                                                           pag. 36        

Appendice: Il campione                                                                     pag.  38      

Bibliografia: Ambito antropologico ed etnografico.                              pag.  39

Ambito relativo al rischio e alla sua percezione                                     pag.  42

Ambito legato al governo del territorio                                                pag.  44                                                                                                       

Ambito geografico e cartografico.                                                       pag.  45  

Bibliografia FAD                                                                    pag.  49

Sitografia                                                                         pag.  51

 



Introduzione

Riflessioni sull’antropologia dei disastri

 

Con l’espressione “antropologia dei disastri” si fa riferimento a quel recente ambito di studi specifico in cui le teorie e i metodi propri dell'antropologia sociale e culturale vengono applicate allo studio delle catastrofi. Lo sguardo antropologico è orientato sulle modalità particolari, storicamente determinate, con cui gruppi etnici e sociali, differenti, in differenti angoli di mondo, hanno culturalmente costruito e plasmato i loro concetti e le loro idee di corpo, arte, rito, città, sviluppo, educazione. L’antropologia, in quanto scienza sociale, si basa dunque sul principio epistemologico di base per il quale per studiare e comprendere una data particolarità culturale sia indispensabile ricorrere allo studio di altre particolarità culturali ponendole in connessione tra loro. La domanda centrale che si pone questa disciplina si incentra su cosa si debba intendere con la parola “disastro”, e a quali eventi fisici, ecologici e sociali la si debba applicare (Ligi 2009).

La catastrofe assume significati differenti in diversi ambiti disciplinari. La nozione più comune di disastro è quella che emerge dalla produzione giornalistica, presa in prestito dalle definizioni tecnocentriche di disastro, elaborate dalle scienze matematiche, fisiche, geologiche e ingegneristiche, in base alle quali si identifica un disastro verificandone le caratteristica di tipo fisico e analizzandone gli effetti fisici in termini di danni a cose e persone. I requisiti della calamità vengono ricercati nell'eccezionalità dell'evento in termini di violenza e gravità, di estensione e complessità dei danni.

Una catastrofe è sempre grave, improvvisa e imprevista e la sua gravità è misurata con parametri quantitativi (Ligi, 2009).

La definizione classica del termine “disastro” lo descrive come uno sconvolgimento violento, o distruttivo, di un ordine prestabilito in un contesto umano o naturale, che dà luogo a morti, feriti e produce ingenti danni materiali.

La parola “disastro”, vale la pena di ricordarlo, presenta la curiosa caratteristica di quella che in linguistica viene normalmente denominata “parola spugnosa”, sponge word, o per meglio dire “porosa”: assorbe significato, cogliendo un'esperienza della realtà estremamente complessa e drammatica, ma quando si tenta di “spremerla e strizzarla” per concettualizzarne in termini generali il significato, restituisce assai poco (Ligi 2009). Costruire una o più nozioni scientificamente adeguate di disastro è un'operazione analitica indispensabile in particolare per l'antropologia, che, in quanto scienza sociale, è provvista di strumenti che sono essenzialmente di tipo concettuale, cioè esprimibili mediante parole. L'antropologo lavora con le parole: è impegnato in un costante tentativo di costruzione del senso. La comprensione antropologica è un tentativo di dare senso, fabbricarlo, costruirlo, immergendosi nelle medesime pratiche quotidiane in cui sono impegnate le persone del gruppo sociale di cui ci si occupa.

Un disastro non è qualcosa che semplicemente accade, ma è una situazione, estremamente critica, che si produce quando un agente potenzialmente distruttivo, sia esso di origine naturale o tecnologica, agisce impattando su una popolazione che viene colta in condizioni di vulnerabilità sociale.

La circostanza disastrosa si presenta dunque quando le sfere ambientale, sociale, e tecnologica interagiscono fra loro in una specifica modalità innescando un processo di connessione causale fra eventi che si verificano a catena. Un disastro porta con sé uno sconvolgimento del mondo naturale, al quale si somma l'inevitabile stravolgimento del mondo interiore di chi vi rimane coinvolto. Ne consegue il verificarsi di quello che viene comunemente chiamato “shock antropologico”, un evento che trasforma irreversibilmente il modo di pensare e di comportarsi degli individui, in riferimento non solo alla tecnologia e all'ambiente naturale (Beck 1995), ma anche alla propria identità e alla propria cultura. La catastrofe, causando una vera e propria “crisi di senso” e il “collasso del quotidiano”, fa emergere un grave senso di disagio e impotenza, esperito ed espresso in molteplici e differenti modi.

Gli eventi disastrosi che caratterizzano la nostra "seconda modernità" (Beck 2001) possono essere suddivisi in tre grandi categorie:

 

1-     “eventi naturali estremi”, ovvero tutti quei fenomeni prettamente naturali come terremoti, bradisismi, inondazioni, eruzioni vulcaniche, o indotti dalla presenza dell’uomo, quali frane, alluvioni, incendi non confinati.

2-     “catastrofi tecnologiche”, ovvero tutti quei fenomeni disastrosi legati ad un intervento tecnologico quali contaminazioni radioattive, esplosioni, inquinamento ambientale, sversamenti di sostanze tossiche.

3-     “eventi sociali disastrosi”, ovvero possono essere causa di catastrofe anche fenomeni quali l’improvvisa migrazione di una popolazione, i disastri di natura bellica (insurrezioni, conflitti armati), e quelli di natura biologica e sanitaria (epidemie, malattie infettive, carestie).

 

Di fronte a questo preoccupante scenario di instabilità l’antropologia dei disastri si pone due obiettivi (Hoffman, Oliver-Smith 1999):

 

1-   sottolineare l’importanza dello studio e dell'analisi dei momenti di crisi nei sistemi sociali nei quali esse si manifestano per comprenderne meglio la struttura ed il funzionamento.

2-   far emergere come gli aspetti socio-culturali di una data società influenzino l'evento catastrofico in ogni sua fase.

 

L'attenzione dell’antropologia dei disastri viene posta sugli aspetti socio-culturali propri degli eventi catastrofici, e questo con l'intento di migliorarne la comprensione, favorirne la prevenzione, ed eventualmente attenuare i danni post-impatto. Ma per poter capire cosa provoca un evento catastrofico è necessario sottoporre ogni azione umana individuale e collettiva ad una attenta osservazione, indagine ed analisi (Ligi 2009).

L’antropologia dei disastri considera prezioso per la sua analisi anche il periodo antecedente la catastrofe, ovvero il “pre-impatto”: l’agente distruttivo è sempre il prodotto di un periodo d’incubazione che si conclude con un evento che fa innescare il disastro.

Uno dei contributi concettuali più profondi dell'analisi antropologica in questo campo consiste nell'aver elaborato una definizione di disastro esterna all'evento fisico, che mette in evidenza come gli effetti della crisi (scatenata da un agente di impatto) siano già potenzialmente iscritti nel sistema sociale colpito, il quale manifesta, per così dire, una quota di vulnerabilità specifica per ogni emergenza.

Il concetto antropologico di vulnerabilità è il primo fattore variabile di tipo essenzialmente socioculturale che caratterizza i sistemi sociali e le comunità.


D (disastro)= I (variabili fisiche) x V (variabili antropologiche)


Il disastro “D” si configura allora come relazione fra un impatto con un agente fisico, naturale o tecnologico “I”, e la vulnerabilità socioculturale specifica della comunità colpita “V”. La relazione mostra perché a parità di intensità di impatto, ovvero con variabili fisiche “I” molto simili, il danno può essere talvolta enormemente differente. Il livello di vulnerabilità può amplificare o diminuire gli effetti fisici dell'agente distruttivo. Non è sufficiente quindi misurare la gravità di un disastro soltanto in termini numerici, con variabili di tipo quantitativo, con le stime dei danni a cose e persone, ma si pone il problema di stabilire delle variabili socioculturali per determinare il livello di vulnerabilità e il grado di disarticolazione sociale della comunità colpita.

Per l’antropologia dei disastri si parte cioè dal presupposto che gli effetti catastrofici della crisi siano già potenzialmente presenti nel sistema sociale colpito, nascosti come pericolosi "nemici invisibili" in particolari aspetti di una data struttura sociale, nei modi in cui i gruppi sono costituiti e connessi, in una data struttura i parentela, nei processi decisionali istituzionalizzati, nel ruolo attivo di un dato sistema di credenze o di un dato schema di relazioni economiche o di potere che influiscono sui comportamenti quotidiani delle persone (Ligi 2009). Da queste considerazioni emergono due domande fondamentali: prevenire un disastro è possibile? È possibile spostare la portata dell'analisi alle condizioni precedenti l'impatto e indirizzarla etnograficamente, in modo preventivo, sulla vita normale e quotidiana di una comunità che potrebbe essere più o meno socialmente vulnerabile a una serie di agenti distruttivi?

Interpretare un disastro come fenomeno sociale, e connetterlo al concetto di vulnerabilità, ha il pregio di togliere all'evento scatenante i connotati della fatalità ineluttabile. I disastri non sono in termini assoluti eventi repentini e imprevedibili, ma sono “processi complessi” che si attivano gradualmente durante un lungo periodo di "incubazione", e che alla fine precipitano dando luogo a una situazione catastrofica. Questi processi hanno delle precondizioni, sono determinati da errori sistemici, da precondizioni che mostrano talvolta delle caratteristiche comuni. Il periodo di gestazione di un disastro è costellato da numerosi piccoli segnali di avvertimento che però vengono in genere ignorati o male interpretati. Secondo l'approccio antropologico ai disastri, il corto circuito nella gestione delle informazioni è sempre legato a molti altri fattori di tipo tecnico, sociale, organizzativo e istituzionale. Alla base delle difficoltà scientifiche di comprendere tutte le cause di un evento naturale estremo, o  di una catastrofe tecnologica, vi sono spesso problemi irrisolti perché mal posti o perché nessuno ha mai pensato di porseli; così come vi sono anche domande piuttosto rilevanti riguardo alla fisiologia dei sistemi sociali e delle culture umane nelle grandi emergenze di massa, alle quali non siamo ancora in grado di rispondere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo I

Rischio e pericolo: la percezione, un inquadramento teorico.

 

La riflessione sul “senso del male”, nozione culturalmente e localmente determinata, produce un corpus di conoscenze complesso riguardo al mondo e alla natura umana, attraverso il quale il nesso uomo-luogo viene continuamente messo in discussione e rinegoziato. La ricostruzione del sapere sul senso male è strettamente legato alla teoria della causalità, alla percezione del rischio, all'idea del pericolo, alla posizione dell'uomo di fronte al proprio ambiente. Al verificarsi di un evento disastroso la sensazione di precarietà e di impotenza, i dispositivi simbolici e culturali di comprensione e interpretazione della realtà perdono completamente ogni potere esplicativo: le lenti attraverso cui guardiamo e comprendiamo la realtà, attraverso cui diamo senso all’esistenza, vengono meno, perdono di significato. Ed allora la cultura deve necessariamente entrare in gioco e operare una profonda e accurata ricostruzione del sociale e dell'individuale per consentire nuovamente la vita (Rosaldo 2001), implicata in continui processi storici, sociali e culturali (Ligi 2009) ed è proprio in risposta a questi eventi che il potere antropopoietico della cultura, il suo “fabbricare” umanità, emerge con tutta la sua forza.

Per reggere un disastro, sopportarne le conseguenze, renderlo culturalmente pensabile e socialmente accettabile, occorre dargli un senso e le società non possono evitare di ricercare motivazioni, classificazioni e rimedi (Remotti, 1996). Caratteristica comune a tutte le società è l’elaborazione da parte dei propri membri di definizioni e classificazioni del concetto di “male”, operazione da cui si originano  riflessioni e domande inerenti la “natura” del male, le sue tipologie, i rapporti gerarchici che tra queste vengono a stabilirsi, le modalità di reazione, le spiegazioni che il verificarsi del male richiede, i processi di attribuzione di colpa e la ricerca delle colpe. Si tratta di problematiche di natura squisitamente culturale, comprensibili solo alla luce di determinati contesti. I fenomeni che vengono collocati in quelle particolari categorie legate alle declinazioni del male in tutte le sue forme, richiedono un'immediata interpretazione, un conferimento di senso da parte delle società a cui fanno riferimento. Si pone così come necessario e urgente affrontare da un punto di vista sociale e antropologico le modalità attraverso le quali il male produce e costruisce conoscenze/coscienze locali riferite ad esso, etnograficamente variabili, frutto di lunghi e intensi processi storici, per poter studiare meglio la vulnerabilità ai disastri e comprenderne gli effetti sulle modalità culturali che orientano la percezione del rischio (Ligi 2009).

I “sistemi di credenze” in base ai quali i membri della società elaborano le proprie visioni del mondo mettono in evidenza come, nei diversi contesti culturali di riferimento, venga plasmata l'idea di precarietà umana, di incompletezza antropologica, di destino, della colpa, della causalità degli eventi. È sulla base di assunti di questo tipo che gli individui agiscono e operano determinate scelte nel tentativo di dare un senso e reagire al disastro, è in quei contesti che si pongono gli interrogativi sulle cause, sul senso complessivo da attribuire all'evento estremo. In genere viene stabilita una stretta corrispondenza tra “male materiale” e “male morale”, grazie alla quale, di fronte all’evento catastrofico, la società tende ad elaborare un'interpretazione dell'evento in termini di ricerca delle cause, come analisi empirica dei nessi causali. Questo si traduce in un processo di attribuzione di colpa e tende a spostare la questione in termini di valori e di responsabilità individuali (Ligi 2009).

Allo studioso, all’antropologo, come al progettista sociale, si impone allora la necessità di studiare attentamente le modalità attraverso le quali, nelle diverse società, vengono stabiliti i differenti “nessi causali” sul significato del male, sul perché si sia verificata una data disgrazia, e sul perché si sia verificata proprio in determinate circostanze.

L’analisi e la comprensione di queste problematiche risulta indispensabile per comprendere la percezione locale del “rischio”, nozione etnograficamente e storicamente variabile.

L'antropologia dei disastri si configura essenzialmente come una antropologia delle concezioni locali di rischio, e, va ricordato, l'espressione “concezione locale” si riferisce direttamente al concetto antropologico geertziano di “local knowledge”, inteso come il senso che si attribuisce alle differenti nozioni di “rischio” nei differenti sistemi nativi di significato. La questione è complessa; mentre i disastri possono essere più facilmente riconosciuti e definiti, il rischio non è una caratteristica fisica della realtà, infatti, come realtà oggettiva non esiste, non è un “oggetto naturale”, non è un dato di fatto misurabile in senso assoluto, ma è una “categoria cognitiva”. Il rischio è un costrutto della nostra comprensione mediante il quale rappresentiamo correlazioni fra eventi concreti, così da poterli governare con tecniche particolari e per particolari obiettivi. Altrimenti detto: il rischio è una categoria del pensiero che rende rappresentabile e manipolabile - in termini statistici, sociologici, epidemiologici - una data serie di eventi e fenomeni concreti e tangibili.

«I rischi abbondano ovunque. Ma non tutti i rischi interessano alla gente: l'attenzione selettiva si concentra su pericoli specifici, trascurandone altri»[1]. Per Mary Douglas le risposte sociali al rischio sono determinate dai modelli culturali di appartenenza, la percezione di ciò che temiamo è mediata dai sistemi di credenze che condividiamo col gruppo di appartenenza, ovvero dalla cultura.

L'essere umano è un soggetto sociale condizionato dall'ambiente in cui vive e la risposta ad ogni evento è il frutto di una profonda ed elaborata costruzione razionale. Gli attori sociali si autodefiniscono attraverso il senso che l'ambiente incorpora (Massey, Jess 2001) ed esso è un contesto in continua mutazione che media il nostro stesso modo di concepirlo, che influenza le nostre percezioni e le nostre scelte. La vita umana è il risultato di questo scambio, con la consapevolezza che nulla è indifferente a qualsiasi altra cosa, intatto e senza contatto (Bauman 2007). Secondo l'approccio antropologico ai disastri solo attraverso lo studio dei diversi contesti sociali, composti da complessi processi che costruiscono le azioni e i ruoli, è possibile approfondire le diverse tipologie di razionalità elaborate dall'uomo e i modi di percepire il rischio. Grazie all'elaborazione e all'ausilio di alcuni modelli di riferimento (Douglas 1996; Schwarz, Thompson 1993), è stato possibile elaborare la raffigurazione di alcuni tipi di razionalità di base, alle quali corrispondono diversi modi di percepire la natura. A determinare il comportamento “da tenere” in occasione di un disastro o in presenza di un pericolo, sono le specifiche percezioni e razionalità che definiscono inoltre il grado di vulnerabilità del sistema. All’interno della percezione del rischio le conoscenze locali s'intrecciano sempre con le istituzioni, a cui le persone affidano il compito di prendere decisioni importanti davanti ad un ventaglio di scelte. Il rischio, di conseguenza, è strettamente connesso alla cultura, alla politica e all’etica di una determinata società. La percezione si riferisce ad un livello di pre-coscienza o pre-categoria, mentre il rischio ambientale è inerente a quello dell'incertezza e/o della probabilità. Alla diversità culturale corrisponde sempre una diversità percettiva, elaborata a livello sociale, risultato di un processo culturale localmente e storicamente determinato. Quelli che scegliamo di identificare come rischi svolgono un ruolo importante nell'interpretazione di noi stessi e dei nostri mondi sociali e materiali. Le società necessitano di questa selezione in quanto essa è l'elemento che determina e permette il loro continuo funzionare. La selezione e la gestione dei rischi risultano essenziali per l'attuazione del loro ordinamento, per la loro capacità di funzionare e per la ridefinizione dell'identità degli individui e delle culture. In questa prospettiva, secondo la sociologa Deborah Lupton[2], emergono come principali problemi di ricerca due elementi:

 

1. valutare secondo quali modalità il concetto di rischio operi nelle società occidentali contemporanee

2. esaminare le implicazioni in riferimento ai modi in cui interpretiamo noi stessi, gli altri, l'ambito sociale, politico, istituzionale e il mondo non umano.

 

Il rischio andrebbe interpretato come una costruzione culturale, legata ai sistemi di significato che indirizzano le pratiche sociali, per poi evidenziare e analizzare la conseguente crisi del sistema di significati, di credenze e valori di una società che l'evento catastrofico determina. Quando si è di fronte ad una catastrofe i riferimenti e le strutture razionali saltano, rivelando la fragilità della propria cultura. In una situazione di crisi, l’antropologia dei disastri si attiva anche per ri-scoprire la nozione di catastrofe prodotta dalla società colpita, chiedendosi se esistano definizioni diverse da quelle occidentali. Queste definizioni “altre” esistono e permettono di capire come si sia formata l’idea della precarietà umana, del destino e della colpa nei diversi contesti culturali.

Essendo il problema ambientale un’urgenza morale e relazionale, esso dovrebbe anche essere affrontato come prodotto della costruzione socio-culturale umana, partendo dal presupposto che l’ambiente è un tutt’uno con la persona. (Lupton 2003; Ligi 2009).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo II

Vulnerabilità sociale e vulnerabilità ambientale

 

Il termine vulnerabilità deriva dal verbo latino vulnerare, ovvero ferire. In generale, il concetto di “vulnerabilità” sta ad indicare una condizione opposta a quella di sicurezza. In senso stretto, il concetto rimanda alla caratteristica peculiare di quell'individuo (o società) che può essere facilmente ferito o attaccato. La vulnerabilità sociale, tema centrale affrontato nell’ambito del Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio - da cui prende le mosse la presente tesina di ricerca -, è un concetto che solo di recente è emerso in relazione alle tematiche legate al rischio e al disastro, assumendo un'importanza sempre più rilevante.

Ogni sistema sociale e culturale è caratterizzato da un diverso grado di vulnerabilità, la quale, messa in relazione con l’intensità dell’agente fisico, determina la gravità del disastro. A parità d’impatto, i danni possono avere natura ed entità diverse.

La capacità umana di agire o, meglio, reagire o meno, di fronte ad un evento catastrofico non si manifesta mai con le stesse modalità, ma assume i connotati di pluralità multiple, le quali dovrebbero essere osservate ed analizzate considerando alcuni aspetti di fondamentale importanza, quali :

 

·         il livello di resistenza delle risorse naturali, in riferimento alla loro accessibilità o meno

·         le risorse culturali e istituzionali, sufficientemente o insufficientemente valide

·         l’accesso all’informazione, in tutte le sue forme, che sia essa adeguata o inadeguata

·         la specificità propria del rischio, intesa sia a livello locale, che a livello globale

·         le disponibilità tecnico-economiche disponibili

·         gli interventi esterni, di varia natura e origine (pre o post evento)

 

Il venir meno di uno di questi aspetti comporta la generazione di una potenzialità/vulnerabilità sociale, culturale, fisica, che condiziona la situazione al momento dell'impatto e della successiva emergenza.

La vulnerabilità sociale, tematica emersa con forza nelle ricerche condotte sul campo dal “gruppo Master romano” nel territorio dell’ormai ex XIII Municipio di Roma, è il risultato della somma di diverse vulnerabilità individuali e soggettive. Posta davanti allo stesso tipo di rischio essa si presenterà in modalità differenti, che variano da soggetto a soggetto, in base ad una serie di selezioni di informazioni prodotte a livello sociale (media, informazione scientifica, conoscenza locale, esperienza individuale).

La vulnerabilità ambientale – intendendo per “ambiente” la natura come luogo dell’agire umano, degli animali e delle piante – viene intesa sia considerando le trasformazioni effettuate ad opera dell’uomo, con i conseguenti nuovi equilibri (e disequilibri), sia come “patrimonio” da conservare e preservare dalla distruzione, dalla degradazione e dall’inquinamento. In senso strettamente scientifico la vulnerabilità è una caratteristica che si manifesta “in relazione a” qualcos’altro, ad esempio in relazione a concetti come quello di resilienza e adattamento, termini che rimandano all’idea di sopravvivenza.

Per le scienze sociali la vulnerabilità viene trattata non solo come una condizione che pone problemi pratici e applicativi, ma soprattutto come una situazione sociale complessa la cui interpretazione chiama in causa questioni teoriche più generali sulla natura e il funzionamento dei sistemi sociali. La questione del rapporto fra catastrofe e mutamento sociale, ad esempio, si pone come nodo cruciale nell'analisi antropologica. Il disastro produce infatti una trasformazione profonda nell'organizzazione sociale e fisico-spaziale della comunità colpita, che deve attraversare un periodo di dis-integrazione, per poi riorganizzarsi e integrarsi in un ordine nuovo volto a ricreare la "normalità". Va ricordato che il livello di vulnerabilità a un dato genere di catastrofe è determinato in larga misura proprio dai fenomeni di mutamento sociale non correttamente pianificato, attivati da errori o sottovalutazioni, riguardanti:

a) progetti rivolti espressamente alla prevenzione dei disastri naturali o tecnologici (locazioni di comunità, abbattimento di insediamenti tradizionali e ricostruzione di abitazioni secondo norme di sicurezza), oppure

b) progetti di cooperazione allo sviluppo che possono non essere in relazione diretta con il disastro, e che talvolta si possono rivelare inefficaci o addirittura dannosi.

Una catastrofe può dunque anche essere il fattore di stimolo determinante per il mutamento sociale, in forme dirette e indirette: predisponendo le condizioni ambientali al cambiamento, alterando o arrestando temporaneamente il flusso delle consuetudini normali, riconfigurando le istituzioni, esasperando o rendendo manifeste tensioni latenti, conflitti economici e sociali o dissensi politici. Analizzare gli effetti di un disastro su un sistema sociale significa analizzare indirettamente la natura stessa dei sistemi sociali, le loro dinamiche interne, i loro processi costitutivi e disgregativi. Non si tratta dunque di condurre ricerche sugli effetti di un disastro su una comunità (paradigma tecnocentrico) ma di fare ricerche sugli effetti di un agente distruttivo che impatta con un sistema sociale vulnerabile producendo un disastro, vale a dire uno sconvolgimento profondo dell'organizzazione sociale e del sistema nativo di significati (paradigma socio-antropologico).

Si tratta di “storicizzare la vulnerabilità”, circoscrivere e relativizzare la dinamica e le strategie interpretative degli eventi estremi ai contesti specifici nei quali si sono verificati. Storicizzare, ovvero ricostruire la storia politica, economica, sociale, religiosa dell’area colpita, seguendo l’evolversi delle tendenze successive anche quelle apparentemente estranee al disastro, come le variazioni demografiche, i flussi migratori o turistici.

Il cuore dell’approccio socio-antropologico agli eventi estremi è quello secondo cui il disastro è un fenomeno che si manifesta nel punto di connessione fra società, tecnologia e ambiente (Oliver-Smith 1999), e può essere interpretato come effetto eccezionale causato dalle profonde interazioni di questi tre elementi. Dunque “storicizzare la vulnerabilità” vuol dire ricostruire la storia politica, economica culturale, e affettiva delle persone e delle comunità; ma contemporaneamente vuol dire anche ricostruire la storia fisica, climatica e geologica dei luoghi, dei territori, e dell’ecosistema colpiti; significa infine porre in relazione queste “biografie” di comunità e di contesti con la storia e le caratteristiche specifiche delle tecnologie utilizzate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo III

Voci, narrazioni e memoria: abitare il territorio

 

Uno spunto importante - possiamo dire centrale - per la definizione di questo capitolo ha preso le mosse dall’interessante volume curato dagli antropologi urbani Federico Scarpelli e Angelo Romano: “Voci della città[3], opera che raccoglie i recenti contributi di alcuni studiosi, antropologi, geografi e urbanisti, che a vario titolo si occupano del dibattito contemporaneo intorno ai concetti di spazio, città, territorio. Le voci di cui si parla nel volume rinviano non solo al linguaggio degli esperti, linguaggio che analizza spazi e territori secondo metodologie e conoscenze di tipo specialistico, ma anche al linguaggio degli abitanti, delle persone che abitano e popolano quei territori. L’incontro di queste voci, di questi saperi, ha dato così vita ad un vero e proprio “dialogo” che è alla base dei più recenti approcci interdisciplinari alla questione del governo del territorio. Il tema, in tutta la sua complessità, è stato oggetto di un interessante tematizzazione nel corso del V modulo del Master PSGT, in cui i due antropologi sono intervenuti in qualità di docenti. 

Come ci spiegano Scarpelli e Romano, il primo significato che si può dare alla parola “voci” sta nei diversi modi di descrivere gli insediamenti umani che si sono sviluppati e consolidati nella storia di varie discipline, che hanno costruito metodologie e vocabolari, elaborato teorie generali, identificato fenomeni, tentato previsioni. Il territorio, sia esso costituito da città, piccoli paesi, o interi aree, è un oggetto di studio inafferrabile con un unico sguardo, è una trama fitta di insediamenti, circoli, vicinati, case, natura. È una rete di strade, vie, corsi d’acqua, ma anche di servizi, percorsi quotidiani e relazioni sociali, incontri, scontri, storie. Ma «cosa accade quando espressioni care agli specialisti – come territorio, comunità, spazi pubblici o qualità della vita – non vengono usate da (o in qualità di) esperti, ma da (o in qualità di) cittadini? Sappiamo che le stesse parole possono indicare cose differenti e che, passando da un campo disciplinare all’altro, i “territori” diventano “spazi” oppure diventano “luoghi”, ma in bocca agli abitanti ciascuna di queste parole si fa più irrequieta e meno limitata, meno precisa, forse, ma più densa» (Scarpelli, Romano 2011). Secondo Andrea Filpa[4], urbanista, le “voci della cittadinanza” hanno una natura intrinsecamente interdisciplinare, capace di mettere in relazione e far dialogare temi che si è soliti tener separati, sollecitando risposte da specialisti diversi.

Un dato che emerge con chiarezza nel dibattito contemporaneo sulla gestione territorio e coinvolge in egual misura rappresentazione etnografica, oggettività cartografica, e pianificazione urbana tradizionale, è la “crisi” dei grandi modelli esplicativi, della loro epistemologia, applicabilità, e metodologia. Le vecchie categorie conoscitive diventano sempre più difficilmente utilizzabili, ed occorre spostare l’attenzione alla parte “vivente” del territorio: uomini, natura, relazioni, storie, incontri, per costruire nuove cornici di riferimento e di analisi.

Il paesaggio è fatto di “immagini” che riconosciamo, di “memorie”, è costituito da una certa disposizione delle cose che ci appare come “naturale”, un po’ come avviene per le parole della propria lingua madre. Noi abitiamo i luoghi, i paesaggi, e li costruiamo e ricostruiamo attraverso un incessante lavoro “sociopoietico”.

Come ci ricorda Alberto Sobrero[5], antropologo urbano, esistono nella nostra cultura poche idee “più nobili e intricate” dell’idea stessa di abitare. Come è ancora possibile osservare in molte lingue indoeuropee, il termine “abitare” (nell’esito italiano forma frequentativa di habère, “continuare ad avere”, “avere consuetudine”) ci rimanda direttamente all’idea di essere e di vivere. Per essere occorre esistere, stare in un posto, in un luogo, avere un proprio posto nel mondo.  Anche Heidegger, in un famoso saggio[6] del 1954, evidenzia come per il senso comune l’idea di abitare sia consequenziale a quella di costruire: si costruisce al fine poi di abitare, ma, secondo il filosofo tedesco, si tratterebbe di una semplificazione. L’abitare, scrive, non segue il costruire come il fine segue il mezzo, non c’è un prima e un dopo: «il costruire non è soltanto mezzo e via in vista dell’abitare, il costruire è in se stesso già un abitare». Abitare e costruire partecipano dell’atto stesso con il quale l’uomo sta al mondo, dell’atto con il quale fonda uno spazio, altrimenti indistinto e indefinito, se ne prende cura e trasforma questo spazio nel luogo in cui riconosce il proprio esserci: il proprio rifugio, la città, la strada, la stanza, il proprio mondo, e sé stesso nel mondo. «Noi non abitiamo perché abbiamo costruito, bensì costruiamo e abbiamo costruito intanto che abitiamo». L’uomo non riempie uno spazio già dato, ma dà vita e riconosce l’esistenza dello spazio quando è capace di riempirlo di luoghi.

L’atto di abitare non è una condizione data una volta per tutte, -non è semplicemente riempire un luogo già dato- ma un “processo” che richiede di continuare a costruire per tutto il tempo che si abita. L’abitare è un continuo e costante lavoro di costruzione e di cura; una relazione con il mondo. Ciò che caratterizza la natura umana è il costruire, la necessità di costruire. Ortega y Gasset scriveva: «l’abitare non gli viene dato subito, ma se lo fabbrica egli stesso»[7]. Abitare e costruire, spiega Sobrero[8], appaiono così come prospettive fondanti di uno stesso atto, provvisorio e conflittuale, un tentativo, mai soddisfatto, di conquistare nuovi spazi, continuando a costruire il proprio luogo.  Abitare significa vivere, entrare in relazione, legare gli eventi, produrre storie, costruire. Costruire, abitare ed essere: concetti distinti, o parte dello stesso processo? La storia delle parole, continua Sobrero, ci viene in aiuto, superando quei dualismi che il senso comune tende a proporre come ben definiti. Il termine bauen[9], costruire, originariamente significava abitare, e rimanda ancora all’idea stessa di essere, to be. Nelle parole di Heiddeger « l’antica parola bauen ci dice come l’uomo sia nella misura in cui egli abita »[10].  Dunque anche l’etimologia dimostra come fra abitare e costruire, fra abitare ed essere il legame sia inscindibile. Da tempo la linguistica ci ha insegnato che la parola e l’azione sono espressione di un unico atto: non c’è parola che non apra una relazione dialogica, che non richieda una risposta. Abitare significa vivere, ma significa anche “entrare in relazione”, legare gli eventi, “produrre storie”. L’azione produce sempre delle storie. (Arendt 1964)

L’ambiente naturale, percepito con i sensi, viene sempre in qualche modo “ri-costruito” culturalmente dalle comunità che lo abitano, ed è questa opera di incessante manipolazione che produce lo spessore storico ed emozionale dei luoghi trasformandoli in “paesaggi”. Nelle loro città, paesi, campagne, nei loro contesti fisici di vita, alle prese con le normali attività della loro vita quotidiana, le persone non si muovono mai fra i punti geometrici di uno spazio astratto, indefinito e neutro, ma si orientano fra nodi significativi in una rete di micro-esperienze. (Ligi 2009) Come scrive Tim Ingold, «places do not have locations, but histories» (Ingold 2000, p. 219), ed è proprio per questa caratteristica che il paesaggio acquisisce valore di risorsa, di patrimonio, di bene culturale, di elemento che organizza e rafforza la memoria collettiva. Si viene a creare così un nesso, strettissimo tra uomo e luogo, tra comunità umana e ambiente naturale, tra saperi ecologici “nativi”, o locali, e pratiche sociali.

Ma cosa accade quando questo nesso si rompe? Quando cioè, ad esempio a causa di una catastrofe, queste correlazioni di tipo economico, affettivo, storico, subiscono un radicale sconvolgimento? La cultura si dimostra molto fragile, vulnerabile, e precaria, ma al contempo indispensabile e insostituibile: le stesse categorie cognitive, le strutture simboliche mediante le quali una comunità percepisce e comprende il mondo rendendolo “pensabile”, smarriscono il loro significato proprio nel momento in cui se ne avrebbe più bisogno. Sembra allora che letteralmente il mondo finisca. (Ligi 2009). Ernesto De Martino notava come la “fine dell’ordine mondano” potesse essere considerata in due sensi distinti, ovvero come un tema culturale, storicamente determinato, e anche come “rischio” antropologico permanente. « Come rischio antropologico permanente il “finire” è semplicemente il rischio di non poterci essere in nessun modo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente […] la catastrofe di qualsiasi progettazione […]. La cultura umana in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia – per così dire – la tecnica esorcistica adottata » (De Martino 1977, p. 219). In un disastro naturale (o tecnologico) non si ha purtroppo soltanto una penosa conta di vittime, l’arresto di un ciclo produttivo, o l’alterazione geomorfologica di un territorio, ma ci si trova dinnanzi a una profonda cisi di interi “microcosmi” (Ligi 2009). È quella condizione, che De Martino spiega introducendo il concetto di “crisi della presenza”, che descrive il senso di spaesamento, l’incertezza mista a sgomento, che sperimentano gli individui in particolari circostanze (malattie, morte, conflitti, calamità in senso lato), quando temono di smarrire i punti di riferimento e di significato della vita quotidiana. Con il manifestarsi di un disastro assistiamo ad un vero e proprio stravolgimento delle geografie della memoria.  All’”indomani” della catastrofe, al problema ingegneristico e urbanistico del dover ricostruire ciò che è andato distrutto (strutture fisiche, architettoniche), si aggiunge quello, antropologico, del dover far fronte allo spaesamento dei sopravvissuti, e del contribuire alla ricostruzione del loro paesaggio culturale. Ma come curare allora le ferite del paesaggio? Cosa fare delle strade, delle piazze, delle case ridotte a macerie? Ricostruire tutto in modo identico? Riprogettare tutto? Scrive Jean Cuisenier: «le case sono  fatte di pietra e di terra, di legno e di stoppie non meno che di operazioni e categorie dello spirito»[11] (Cuisenier 1991, p. 12).

Siamo di fronte ad un problema che è essenzialmente di natura antropologica: occorre comprendere come le costellazioni simboliche di significati, affetti e valori si saldino alle strutture fisiche dei centri abitati e degli ambienti naturali. Non è sufficiente ricostruire la struttura fisica dei luoghi, se non si tiene conto della struttura di sentimento e memoria che li anima; né, d’altro canto, è possibile occuparsi del recupero affettivo, emotivo, psicologico, relazionale delle vittime in un modo del tutto indipendente dai luoghi in cui si trovano, dalla ricostruzione fisica dei riferimento concreti, materiali, che hanno orientato nel tempo la loro vita quotidiana e che ora rimangono nella memoria come preziose “ancore di nostalgia”. (Ligi 2009)

De Martino scriveva « Quando gli uomini non sono al loro giusto posto. Ha avuto luogo un cambiamento. [...]. Gli uomini non hanno più le loro cose con sé e le cercano. [...] Essi vogliono riavere le loro cose e la loro patria. Il bel mondo non si può ricomporlo in modo giusto. Il mondo di prima non c'è più, il bel mondo. (Ora com'è?) Mutato. (Che cos'è mutato?) Le case, le strade. Il globo terrestre è rimpicciolito, i monti non ci sono più. Essi più non sanno dove passano i confini. Il mondo è più piatto. Anche io non sono più al posto giusto. (Qual è il posto giusto?) Dove si è a casa. [...] (Quando andranno meglio le cose nel mondo?) Quando essi riavranno le case, quando saranno di nuovo a casa loro (avranno il loro ambiente domestico nel luogo giusto). Quando tutto tornerà in ordine. »[12] (De Martino 1977, p. 197).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo IV

L’alluvione nella Valle del Lys. Contesto e memoria storica.

 

Nell’ambito del percorso del Master in Progettazione sociale e Gestione del Territorio si è pensato di poter indirizzare la ricerca etnografica oltre che su aspetti relativi alla vulnerabilità sociale, all’immigrazione, all’integrazione, anche ad aspetti legati alla gestione del territorio e delle criticità di natura ambientale. In tale direzione, e per agevolare le ricerche degli studenti fuori sede, è stata stipulata una convenzione quadro tra il consorzio interuniversitario For.Com e la Regione Valle d’Aosta, accordo che consente lo svolgersi di attività formative, di ricerca e studio presso il Dipartimento aostano di Difesa del Suolo e Risorse idriche. In accordo con la direzione Didattica del Master si è scelto di affrontare il caso della gravissima alluvione che nel 2000 colpì il territorio valdostano, ed in particolare la Valle del Lys. 

La Valle del Lys, percorsa dall’omonimo torrente, è la parte più orientale della Valle d’Aosta: confina a nord col Vallese, ad ovest con la val d'Ayas, a sud-est con la valle della Dora Baltea, a sud e ad est con le province di Biella e di Vercelli. È articolata in 9 Comuni, 7 dei quali sono ubicati lungo il corso del torrente Lys (Gressoney La Trinité, Gressoney Saint Jean, Gaby, Issime, Fontainemore, Lillianes e Perloz), mentre i restanti 2 Comuni (Pont Saint Martin e Donnas) si trovano a fondo valle, nella piana costituita dal fiume Dora Baltea, alla confluenza  fra i due corsi d'acqua.

La Valle è spesso interessata da piogge torrenziali, riconducibili al clima della vicina pianura padana, che hanno nel corso del tempo segnato profondamente la sua morfologia.

La carta della “Pericolosità geologica e idraulica”, contenuta nel Piano Territoriale Paesistico[13] regionale del 1998 –precedente quindi all’alluvione del 2000 – riporta una situazione di criticità naturale già piuttosto elevata.

(Figura 1. e Figura 2.)

 

 

 

 

 

Figura 1. Legenda della Carta della Pericolosità geologica e idraulica

 

Figura 2. Carta della Pericolosità geologica e idraulica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il territorio considerato è abitato da circa 10.000 persone[14], poco meno di un decimo degli abitanti di tutta la Regione Valle d'Aosta; i residenti con 18 anni di età o più sono circa 8500. La popolazione della zona si distribuisce in modo fortemente asimmetrico: da un lato oltre il 60% delle persone risiede nei due Comuni di fondo valle, mentre la restante parte risulta frammentata quasi equamente (con percentuali che variano fra il 3% e l'8%) in piccole comunità che raggiungono appena le trecento persone (Gressoney La Trinité).

In Valle d'Aosta l'evento alluvionale dell'ottobre 2000 viene ricordato come uno dei più gravi accaduti negli ultimi 250 anni, in termini di distruzione, perdita di vite umane, intensità e diffusione degli effetti “geomorfici” sul territorio: un bilancio ben peggiore di quello, già severo, legato ai due precedenti episodi alluvionali del settembre 1993 e del luglio 1996 (Luino 1993; Bonetto et al., 1996). Le frane più superficiali furono le prime, in ordine di tempo, a rispondere all’intenso evento meteorologico che stava sviluppandosi a partire dal 12 ottobre, anche in funzione delle elevate intensità di pioggia che, localmente, venivano raggiunte. A seguire si innescarono frane di ben maggiori dimensioni, con coinvolgimento di volumi detritici e/o rocciosi dell'ordine di diverse decine di migliaia di m³ sino ad alcuni milioni di m³. È  lecito presumere che l'entità di questi movimenti più profondi sia stata incrementata dalle forti piogge cadute alla fine del mese di settembre su tutto l’arco alpino nord occidentale.

«L'eccezionale quantità di pioggia caduta sulla Valle d'Aosta nell'ottobre del 2000 provocò, nel bacino del torrente Létze [Lys] vicino a Gressoney Saint Jean, la riattivazione di un antico “corpo di frana” con un’enorme colata detritica, che causò ingenti danni a case di recente costruzione. Un'attenta considerazione della memoria storica avrebbe forse consigliato maggiore prudenza nell'ulteriore antropizzazione di quei luoghi». (Mortara 2002). La configurazione meteorologica dell’alluvione del 2000 infatti ripropone uno scenario che, in Valle d’Aosta, si era già purtroppo manifestato nell'autunno del 1846, con sostanziale coincidenza per quanto riguarda le aree maggiormente colpite, l'intensità di effetti e di danni associati. Anche allora due giorni di forti piogge a fine settembre precedettero il terribile evento del 16, 17 e 18 ottobre, anch'esso caratterizzato da diffuse inondazioni e dal distacco di frane di ingenti dimensioni. In una relazione risalente al 30 ottobre 1846 si legge: «Le torrent de Litze, à Bosmatto, il a presque  enseveli diverses habitations et couvert les plus belles propriétés d'une enorme quantité de pierrailles, qui empêcheront la culture à l'avenir. Ce malheureux hameau est encore menacé de la chute d'une partie de la montagne qui le domine et qui, ayant de grosses crevasses, s'est déja  abaissée de plusieurs mètres… »[15] (Pleod 1846).  

Aldo Comé, che nel 2000 era sindaco di Gressoney Saint Jean, racconta in un’intervista[16] della stessa frana di Bosmatto come della più grave conseguenza causata dall’alluvione nella zona: « dormivo in comune in quei giorni, perché lì c’era l’unico telefono funzionante: uno di quei vecchi telefoni a disco, quando verso le 6 del mattino ho ricevuto una telefonata che mi richiedeva aiuto dal piazzale del Bosmatto, sono subito corso sul posto. La situazione era effettivamente drammatica. Non dimenticherò mai l’odore della terra trasportata dall’acqua ». L’episodio è certamente rimasto impresso della memoria locale, e  tutte le persone che ho avuto modo di intervistate sul campo ricordano i fatti di quei giorni del 2000: un'ampia maggioranza di persone (quasi l'80%) è stata presente o, comunque, direttamente coinvolta nell'evento; i restanti sono stati informati dai parenti (circa 12%) e un'esigua minoranza (meno del 8%,) è venuta a conoscenza del disastro tramite i mezzi di informazioni o altre fonti. Nella sola Valle d'Aosta i danni materiali furono ingentissimi e, oltre ai feriti, si registrarono 17 morti (di cui uno proprio nel Comune di Donnas). La cronaca locale, a distanza di un paio di giorni, descriveva così la situazione: « Dietro alle nubi che avvolgono l'alta Valle del Lys, si cela la più grande catastrofe che abbia colpito la terra dei walser. A Pont Saint Martin un cartello avverte "strada chiusa per frana". Una frase che dice nulla, perché non può spiegare ciò che è accaduto oltre Fontainemore, nel cuore della comunità valdostana di lingua germanica. Nessuno è ancora salito in auto lassù, soltanto gli elicotteri riescono a superare il disastro provocato dal torrente Lys. Issime e Gressoney Saint Jean sono devastate, un ammasso di fango, pietre, mobili, tubi. L'acqua ha cancellato tutto. E la paura, anziché diminuire, aumenta. » (Stefano Sergi, La Stampa, 18 ottobre 2000)[17]. L'importanza della memoria storica, in questo caso relativa ai dissesti idrogeologici, potrebbe costituire un patrimonio indispensabile per gestione del territorio e per la prevenzione dei possibili futuri episodi di disastro ambientale, eppure risulta, inspiegabilmente, poco sfruttato. Se l’80% degli intervistati era presente, e quindi ricorda molto bene le circostanze della catastrofe, si pensi che oltre il 60% ricorda, - o ha sentito parlare di - almeno un altro evento alluvionale oltre a quello dell'ottobre 2000; dal 1948 (anno dell'episodio più antico fra quelli riportati) ad oggi sono stati decisamente pochi i periodi in cui non si sia manifestato un qualche disastro di questo tipo. Emergono i ricordi delle grandi alluvioni che, oltre al territorio locale, hanno investito ampie zone dell'Italia del nord (1948 e 1993), e a questi si affiancano anche numerosi episodi di “minore” entità, circoscritti sul piano territoriale, ma, non per questo, meno devastanti per le persone direttamente coinvolte. Renato Miceli riporta un’interessante cronologia[18] che contiene l’elenco completo delle inondazioni che hanno riguardato la "Vallaise", Valle del Lys, a partire dal lontano 17 giugno 1620. Tra questi sono stati selezionati alcuni significativi episodi:

·         « 4 settembre 1948: inondazione devastante causata da un temporale occorso dalle 3 alle 4 del mattino. Da Gressoney a Pont Saint Martin fiumi di fango con tronchi trascinano con sé anche animali e persone. A Pont Saint Martin il Ponte Nuovo è danneggiato … Poco dopo le ore 8 del mattino le acque del Lys strappano il doppio ponte ferroviario alla stazione »

·         « 3 novembre 1968: piogge incessanti trasformano la Vallaise in un acquitrino con smottamenti e danneggiamenti alla sede viabile »

·         « 8, 9 e 10 ottobre 1977: inondazione da parte della Dora Baltea. A Pont Saint Martin danni in zona Cascine Dora con 20 cm d'acqua nelle abitazioni »

·         «7/10 agosto 1978: inondazioni di grandi proporzioni nella Vallaise. Crollo di diversi ponti tra Gressoney e Lillianes […] rottura degli acquedotti, case evacuate per smottamenti »

·         « 22 settembre 1981: inondazione paragonabile a quella del 1948. Vittime a Fontainemore e Lillianes. Pont Saint Martin flagellata dalle acque del Lys »

·         «24/25 settembre 1993: grande inondazione di tutta la Vallaise. A Pont Saint Martin il Ponte Nuovo rischia il crollo, insieme col ponte ferroviario della Stazione. La linea ferroviaria è interrotta »

·         «6/8 novembre 1994: tre giorni di piogge incessanti. Il torrente Lys e la Dora Baltea in piena. Da noi danni limitati […] danneggiamenti all'area industriale. Gravissima la situazione da Ivrea a Torino: ponti e strade crollati. Morti e dispersi in tutto il Piemonte. Danni per miliardi ». (Miceli 2006)

Tutti gli episodi sopra riportati sono stati anche ricordati (per esperienza diretta o indiretta) e riferiti dagli intervistati nel corso delle interviste.

 

 

 

 

 

Capitolo V

L’alluvione nella Valle del Lys. L’indagine etnografica

 

Quale contributo l’antropologia può dare alla comprensione di un disastro come l’alluvione del 2000? Attraverso quali metodi e strumenti?

«L’idea nuova», suggerisce Scarpelli, «e al tempo stesso lusinghiera e impegnativa, è che il sapere antropologico possa rivelarsi - in un mondo di progettisti con grandi competenze tecniche – come portatore di concretezza […]. Il punto qualificante sembra essere, più che l’antropologia, l’etnografia. È avvicinando lo sguardo alla varietà del mondo, abbastanza per coglierne i dettagli minuti, che si mette più efficacemente in discussione ogni tentativo di razionalizzazione degli spazi su larga scala.» (Scarpelli, Romano 2011, p. 104).

Sottolineare l’utilità di pratiche etnografiche non equivale di per sé a rivendicare un tema all’antropologia. Fanno ricerca sul campo - sempre più spesso qualitativa – urbanisti e geografi, così come altre scienze sociali. L’antropologia lavora valorizzando conoscitivamente le differenze dei contesti locali e sociali – non marginalizzandole, come ”accidenti” entro processi generali” – e produce le sue interpretazioni a partire dal punto di vista di chi fa riferimento a un certo contesto, che dev’essere al tempo stesso pertinente e specifico (Scarpelli, Romano 2011, p. 113). L’intervista, strumento per eccellenza della ricerca etnografica, sembra aprire a molte possibilità di ricerca ed è stata adottata nelle indagini condotte sul campo nella valle del Lys, facendo riferimento al recente modello dell’ “history-telling” .

L’”history-telling”[19] è un genere di intervista narrativa utilizzata in ambito etnografico che prende forma dal dialogo e dall’incontro con lo studioso, e può essere riadattata alla “narrazione dei luoghi” attraverso una pratica di intervista non direttiva, entro un metodo di lavoro che attribuisca centralità alle “voci”. Una sorta di “place-telling”, un racconto del luogo, narrato da tante voci e focalizzato sul luogo anziché sul gruppo sociale, che valorizzi la specificità di cornici comunicative localizzate e degli usi che della memoria vengono fatti nella costruzione di interpretazioni dei luoghi. (Scarpelli, Romano 2011). Da un punto di vista metodologico, la registrazione e la trascrizione consentono la rilettura, la memorizzazione, la messa fuoco di dettagli, di convergenze e differenze, di ridefinizioni continue, parallelismi e ambivalenze. Un lavoro molto difficile, che punta a ri-costruire i significati che i soggetti intervistati attribuiscono ai luoghi che abitano, alla memoria che ne hanno, alle esperienze di vita che hanno deciso di narrare. «Un insieme di conoscenze e di domande che è costitutivo - per noi come per altri specialisti che possono usare l’etnografia e le voci – del modo in cui partecipiamo all’intervista, la trascriviamo, e la rileggiamo, individuando ciò che ci sembra simile a qualcos’altro, espressivo, anomalo, importante, meditato, ironico, personale. Così come la presenza dello storico, anziché del fiabista, è uno dei più probabili e concreti criteri di differenziazione dell’history-telling dallo storytelling, nel caso di una qualche sorta di placetelling è uno specifico tipo di persona – un antropologo ad esempio - » (Scarpelli, Romano 2011, p. 117).

Il lavoro scientifico di interpretazione, attraverso terminologie, concetti e bibliografie, serve prima di tutto a dare ordine, connessioni e significatività a quegli aspetti della conoscenza del territorio che hanno ambiti di circolazione più limitati e caratteristiche più sfuggenti. A rendere più fruibili, più leggibili queste rappresentazioni “vicine all’esperienza”. Quello che può risultare da questo approccio è dunque un contributo conoscitivo di tipo permanente.

L'indagine etnografica nella valle del Lys è stata condotta “sul campo”, fra gli abitanti, attraverso interviste narrative, “guidate” seguendo una traccia di massima, una sorta di canovaccio suddiviso per grandi temi che riporto qui di seguito:

 

·         Riferimenti (data, luogo)

·         Domande socio-demografiche (nome, età, professione, residenza dell’intervistato)

·         Memoria storica (ricordo di eventi simili nel corso del tempo) ed eventuale esperienza diretta

·         Esposizione al rischio ambientale: quali rischi si corrono in quel territorio?

·         Esposizione a rischi sociali: quali sono?

·         L’alluvione del 2000. Racconto del disastro. Esperienza diretta.

·         Paure, ansie, memorie olfattive, visive… sensazioni provate.

·         Danni subiti.

·         Esiste un “prima” e un “dopo” alluvione?

·         Sicurezza: dove e come vive l’intervistato oggi.

·         Informazioni sui rischi ambientali (eventuali corsi, partecipazione a incontri, dibattiti, internet).

·         Strategie da adottare in caso di emergenza, ce ne sono?

 

 

e attraverso l’analisi e il confronto di fonti documentarie e di archivio conservate nella Banca dati della Memoria, un fondo che racchiude interviste, rassegne stampa, fotografie ed altri materiali audio e video raccolti in occasione dell’anniversario dei 10 anni dall’alluvione.

L’obiettivo principale di questa ricerca è stato quello di indagare la memoria e la percezione del rischio e del pericolo legata ai disastri - alluvioni - da parte della popolazione locale dei territori del Lys.

Per la scelta del campione si è optato di avvalersi di testimoni privilegiati, a cui è stato garantito l’anonimato: si tratta di 4 uomini e 6 donne di età compresa tra i 28 e 73 anni, di diversa condizione lavorativa, (si veda in Appendice), e residenti nei comuni interessati e particolarmente attivi sul territorio.

In un periodo di tempo piuttosto limitato, di una decina di giorni, (nella seconda metà del mese di aprile), si è proceduto ad effettuare il lavoro di ricerca sul campo attraverso la conduzione delle interviste. Negli incontri, della durata di massimo mezzora, si è chiesto agli intervistati di raccontare la loro esperienza diretta dell’alluvione del 2000. Tutte le interviste sono state registrate (audio) e in parte selezionate e trascritte.

Con specifico riferimento al rischio alluvionale (e le conseguenti frane o smottamenti) si è partiti chiedendo agli intervistati di raccontare la propria percezione, di parlare della propria preoccupazione e delle proprie ansie, e di un eventuale “prima” e “dopo” alluvione. La dimensione del tempo è estremamente rilevante dal punto di vista soggettivo e interiore delle persone; il disastro viene percepito e rappresentato come una ferita cronologica non più rimarginabile che taglia in due le storie di vita, la memoria individuale e quella della comunità.

Nel “canovaccio” utilizzato come guida dell’intervista è stata posta attenzione anche alla percezione di tutta una serie di rischi a cui, come abitanti di quel territorio possono, o meno, sentirsi esposti: oltre a rischi di tipo idrogeologico, quali frane, alluvioni, valanghe, slavine, gli abitanti delle zone colpite hanno segnalato anche altri tipi di rischio ambientale, motivo per loro di preoccupazione, come l'inquinamento dei suoli, quello delle acque, dell’aria, lo smaltimento dei rifiuti pericolosi. Un paio di domande, per approfondire la “vulnerabilità sociale” del territorio, sono state poste in modo diretto, e riguardano i furti nelle abitazioni, gli scippi, le truffe, l’eventuale mancanza di risorse economiche e politiche, il rapporto con gli immigrati. Questi “rischi” sociali sembrano destare minor preoccupazione rispetto a quelli ambientali.

Si è cercato poi di far raccontare agli intervistati la propria esperienza personale dell’alluvione, così per come se la ricordavano, attraverso anche il ricordo di odori, rumori, e sensazioni visive dei quei giorni. Si è chiesto loro se avessero subito dei danni, o la perdita di amici e familiari, se avessero avuto disagi nei mesi/anni successivi. Se avessero tentato di dare una spiegazione a quanto accaduto, colpe, responsabilità politiche, significati simbolici. È stato chiesto loro, inoltre, di pensare ad eventi simili, che potessero aver coinvolto la comunità e creato disagi in anni precedenti, o successivi al 2000.

A questo punto si è cercato di comprendere lo stato di informazione sui rischi idrogeologici da parte degli intervistati, e si è chiesto loro se avessero un’idea di un piano di evacuazione/emergenza, se avessero letto o cercato in rete informazioni specifiche sull’argomento, o se fossero mai stati invitati dai rappresentanti istituzionali ad incontri ed eventi mirati.

Quanto ai risultati dell’indagine emerge da subito come la storia locale e il flusso dei ricordi personali degli intervistati si orientino a partire dal "prima" e dal "dopo" l’alluvione. « Abitavo vicino al torrente, d’estate era fresco, tutto verde, pieno di alberi, e c’era un suono così bello, ma ora mi fa un po’ paura »[20]. Prima il torrente Lys non faceva paura, era un “amico”, un sottofondo piacevole, poi, dopo l’alluvione, è diventato un potenziale nemico invisibile, una fonte di insicurezza. Un chiaro esempio di questo sentimento di paura e smarrimento è nella descrizione che ne fa un anziano di Donnas: «quello che è rimasto più impresso è che subito [allora] abbiamo reagito molto bene a tutta questa situazione, senza paura – diciamo -, passato il tutto, invece, quando adesso inizia a piovere… abbiamo l’agitazione qua [si tocca il petto] abbiamo proprio la paura di quello che può accadere »[21]. Il lessico è un indicatore importante degli assunti teorici di fondo: negli studi sui disastri si può vedere come il linguaggio venga utilizzato per mantenere il senso di discontinuità e di alterità, che separa questi eventi dal resto delle relazioni uomo/ambiente e della vita sociale. Il fiume diventa un luogo “altro”, una testimone racconta: «si vedeva passare di tutto nell’acqua [la Dora Baltea], animali, le auto una alla volta… gli alberi. Poi è salita… la potenza dell’acqua è riuscita a piegare le rotaie della ferrovia, che sono grandi, di ferro… io avevo un’attività, vendevo materiali elettrici, un tronco mi ha spaccato la vetrina, vedevo la mia roba che usciva… la potenza dell’acqua non si può immaginare»[22]. Nel caso della valle del Lys, la terminologia utilizzata per descrivere gli eventi si incentra sul senso di isolamento provato nei momenti dell’alluvione « mio figlio era via all’università, non potevo avvisarlo, dirgli che eravamo salvi, non avevo ancora il cellulare, e poi tanto non avrebbe funzionato […] non potevamo comunicare con nessuno »[23]. Un uomo, all’epoca poco più che un ragazzo, racconta: « Era scuro, come di notte, non vedevi la strada, solo acqua, acqua dappertutto […] sapevi che dovevi aspettare, ma non sapevi quanto. Non passavano mai le ore »[24]. Il tempo è alterato, i punti di riferimento saltati, non ci sono più coordinate riconoscibili, i luoghi perdono la familiarità acquisita in una vita intera di memorie; di fronte al disastro si resta smarriti, atterriti, paralizzati, in attesa. I luoghi, gli spazi conosciuti assumono forme diverse, spaventano. Il sindaco di Issime all’epoca dei fatti, Emanuela Vassoney, racconta con commozione di aver visto uno degli assessori del suo comune arrivare a piedi da Pont Saint Martin la domenica mattina del disastro: « è arrivato nel momento un cui crollava il ponte, e piangeva, aveva visto la sua terra devastata […] lui era un uomo adulto… Fino a quel momento non mi ero resa conto, ma in quel momento lì ho capito che era grave, era un dramma »[25].

La preoccupazione e la valutazione della probabilità di accadimento relative ad un nuovo evento alluvionale nel prossimo futuro si distribuiscono fra le diverse zone dell’area indagata, fra i generi e fra le classi di età in maniera sostanzialmente omogenea[26]: gli intervistati ritengono molto probabile che si ripresentino le condizioni che hanno dato luogo al disastro. La metà circa degli intervistati teme per la propria vita e per quella dei propri familiari, ma ritiene normale che eventi così drammatici si presentino in aree di montagna. Il 30% circa considera la propria abitazione esposta al rischio diretto di essere colpita da frane o inondazioni.

Quanto alle “cause” del disastro, gli intervistati attribuiscono responsabilità principali a fattori umani, tecnici, o comunque legati alla cattiva amministrazione locale, quali una peggiorata qualità della manutenzione dei corsi d’acqua, la modifica del corso dei torrenti, i cambiamenti climatici, e l’eccessiva “antropizzazione” e l’edificazione delle aree a rischio. Dunque la cattiva gestione del territorio sarebbe la causa principale delle disastrose conseguenze dell’alluvione nella valle del Lys.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni

 

Le cosiddette “nozioni tecnocentriche”, definite nell'ambito delle scienze “esatte”, (fisica, biologia, ingegneria), come abbiamo avuto modo di vedere, mettono in relazione un disastro con caratteristiche di un agente di impatto di tipo fisico, e ne rilevano gli effetti in termini di danni a cose e persone. Allo stesso modo le analisi delle condizioni pre-impatto, è posto dagli organi politici, tecnici e amministrativi quasi esclusivamente in termini di miglioramento dei saperi tecnici, dell’expertise, dei modelli esplicativi geofisici, degli strumenti di rilevamento, delle carte di zona. La gravità dell'evento finisce così per essere misurata unicamente attraverso parametri quantitativi: come le scale di magnitudo, stime numeriche sul tipo e l'estensione dei danni fisici, e mediante il calcolo del numero delle vittime e la loro classificazione. Questo approccio tecnocentrico all'analisi e alla gestione dei disastri è ovviamente utile, eppure presenta dei limiti concettuali profondi: il necessario miglioramento dei modelli geofisici o informatici, e delle tecniche di gestione degli impianti si è dimostrato fortemente insufficiente e inefficace per comprendere, prevedere ed evitare un disastro.

Non esiste mai un rapporto lineare di proporzionalità diretta fra intensità dell'impatto e gravità del danno. Se un evento estremo si verifica con la stessa intensità ed è caratterizzato grosso modo da simili variabili fisiche in due differenti sistemi sociali, i danni che produce in ciascun sistema non risultano mai uguali e talvolta sono anche difficilmente paragonabili, perché non dipendono soltanto dalla fisica dell'evento e degli agenti d'impatto, ma derivano soprattutto dalle relazioni sociali che si attivano durante e dopo la crisi, in funzione del tipo di cultura specifico posseduto da ciascun sistema sociale nei confronti di quell'evento.

Concepire i disastri, come l’alluvione nella valle del Lys, in termini di eventi culturali, di fatti sociali, significa di fatto assimilarli a tutti gli altri fenomeni di cui si occupano di norma gli antropologi, e significa cioè renderli essenzialmente simili ai matrimoni, ai riti di iniziazione, alle grandi cerimonie, alle elezioni politiche: avvenimenti che non solo coinvolgono le persone passivamente, ma vengono in qualche modo posti in essere attivamente, "costruiti" dalle società mediante pratiche e processi di interazione sociale che si svolgono su scala individuale, familiare, comunitaria, e contemporaneamente su più livelli: simbolico, politico, religioso, rituale, istituzionale.

La gravità della crisi, come nel caso dell’alluvione del 2000, non va determinata in funzione dell'intensità fisica degli agenti di impatto – che pure in quel caso erano stati notevoli -, ma deve essere invece studiata rispetto al fatto che tali agenti non possono essere controllati direttamente e completamente dalla conoscenza esistente. Si deve spostare l’attenzione dalle varie scale di misurazione e grandezza, e dai dispositivi di rilevamento, alla effettiva capacità della popolazione di utilizzare tali strumenti e delle informazioni da essi fornite. Il punto essenziale non è più solo quello di assumere con urgenza informazioni scientificamente adeguate sulla situazione di emergenza, ma quello di verificare se poi queste informazioni circolano, vengono recepite correttamente, risultano coordinate tra loro e non ambigue, e se quindi le risposte sociali che ne seguono sono appropriate. Gli interventi di prevenzione e contenimento della catastrofe risultano spesso poco efficaci nonostante il forte impegno economico e tecnico-scientifico dei governi, delle istituzioni preposte forme di protezione civile, delle organizzazioni pubbliche e private di controllo e monitoraggio del territorio. La questione chiave è il fatto che la risposta delle persone di fronte ai disastri o ai rischi naturali non corrisponde, in genere, all'idea che di essi si fanno i tecnici in base alla loro conoscenza "oggettiva". Occorre indagare maggiormente la cultura delle popolazioni locali, la loro risposta alla crisi, le loro pratiche, le loro attribuzioni di senso e di significato a concetti complessi come quelli di “rischio”, “pericolo”, “vulnerabilità”, ma anche le loro idee locali di “ambiente”, “natura”, “società”. Solo così sarà davvero possibile apportare un contributo efficace, concreto, alla gestione del territorio.

 

 

 

Appendice

 

Il campione

 

Sono stati individuati 4 uomini e 6 donne, di età compresa tra i 28 e 73 anni, provenienti da ambiti lavorativi differenti, tutti residenti nei 9 comuni della valle del Lys colpiti dall’alluvione del 2000. Per ragioni di privacy l’indicazione delle generalità è riportata con le sole iniziali puntate di Nome e Cognome, genere, comune di residenza ed età. L’indicazione della professione è riportata esclusivamente in appendice.

 

Comuni di residenza e intervistati:

 

·         Gressoney La Trinité: K. C., donna, 39 anni, guida turistica.

·         Gressoney Saint Jean: P. G., uomo, 73 anni, commerciante in attività.

·         Gaby: D. F., uomo, 34 anni, impiegato presso la comunità montana.

·         Issime: A. C., donna, 54 anni, insegnante presso scuola primaria.

·         Fontainemore: P. P., uomo, 28 anni, studente universitario.

·         Lillianes: L. S., donna, 41 anni, commerciante.

·         Perloz: B. C., donna, 68 anni, pensionata.

·         Donnas: M. T., donna, 48 anni, albergatrice.

·         Pont Saint Martin: M. B., donna, 33 anni, impiegata comunale.

 

 

 

Bibliografia

 

I testi selezionati sono stati suddivisi in quattro ambiti principali di riferimento: quello antropologico ed etnografico, quello relativo al rischio, quello urbanistico, ed infine quello geo-cartografico (mappe). Inoltre è stata inserita una selezione bibliografica FAD, relativa a testi di cui si è discusso in aula nel corso dello svolgimento dei moduli del Master PSGT.

 

 

Ambito antropologico ed etnografico

 

La bibliografia di riferimento raccolta in questa sezione raggruppa i principali contributi teorici dell’antropologia e dell’etnografia contemporanea in materia di ambiente, territorio, identità locale e memoria. I testi selezionati rinviano al dibattito contemporaneo che ruota intorno ai concetti dell’abitare il territorio, dell’identità locale e globale, e della storia e della memoria dei luoghi. Particolare attenzione è stata riservata al tema della narrazione e delle interviste etnografiche, e a quello della raccolta dei dati sul campo.

 

-          Abélès M. (2001), Politica, gioco di spazi, Meltemi, Roma.

-          Appadurai A. (2001), Modernità in polvere, Meltemi, Roma.

-          Augé M. (1992), Un etnologo nel metrò, Elèuthera, Milano.

-          Augé M. (1993), Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano.

-          Bagnasco A. (1999), Tracce di comunità. Temi derivati da un concetto ingombrante, Il Mulino, Bologna.

-          Bateson, G. (1977), Verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi.

-          Bateson, G. (1984), Mente e natura, un'unità necessaria, Milano, Adelphi.

-          Bocchi G., Ceruti M. (a cura di) (2007), La sida della complessità, Bruno Mondadori, Milano.

-          Bonesio L. (2007), Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia.

-          Cassano F. (2004), Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari.

-          Caniglia Rispoli C., Signorelli A. (a cura di) (2008), La ricerca interdisciplinare tra antropologia urbana e urbanistica. Seminari sperimentale di formazione, Guerini e Associati, Milano.

-          Clemente P. (2009), Ascoltare, in “AM – Antropologia Museale”, VIII, 22.

-          Clemente P. (2010), L’antropologo che intervista. Le storie di vita, in Pistacchi (2010).

-          Cuisenier J. (1991), La maison rustique. Logique sociale et composition architecturale, Presses Universitaires de France, Paris.

-          De Martino E. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.

-          Dei F. (2000), La libertà di inventare i fatti: antropologia, storia, letteratura, in “Il Gallo Silvestre”, 13, pp. 180-96.

-          Dei F. (2007), Storia, memoria e ricerca antropologica, in C. Gallini, G. Satta (a cura di), Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Meltemi, Roma, pp. 40-67.

-          De Varine H. (2005), Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, CLUEB, Bologna.

-          Fabietti U., Matera V. (2000), Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo, Meltemi, Roma.

-          Ferrarotti F. (2010), Osservazioni sull’intervista, in Pistacchi (2010), pp. 185-201.

-          Foucault M. (1977-78), Sécurité, Territoire, Population. Cours au Collège de France 1977-1978, Gallimard, Paris (trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1978-1978), Feltrinelli, Milano 2005).

-          Gallini C., Satta G. (a cura di), Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Meltemi, Roma.

-          Gupta A., Ferguson J. (1997), Anthropological locations, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London.

-          Heidegger M. (ed. or. 1950) (a cura di M. Barison, in Taddio), (trad. It. 2010), Costruire abitare pensare.

-          Herzfeld M. (2003), Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, l’ancora del mediterraneo, Napoli.

-          Hoffman S. M., Oliver-Smith A. (a cura di) (1999), The Angry Earth. Disaster in Anthropological Perspective, Routledge, London.

-          Ingold T. (2001), Ecologia della cultura, Meltemi, Roma.

-          La Cecla F. (1993), Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano.

-          La Cecla F. (2000), Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari.

-          La Cecla F. (2008), Contro l’architettura, Bollati-Boringhieri, Torino.

-          La Cecla F. (2009), Shadowing, in “AM – Antropologia Museale”, VIII, 22, pp. LVI-LVIII.

-          Palumbo B. (2003), L’UNESCO e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia Orientale, Meltemi, Roma.

-          Pistacchi M. (a cura di) (2010), Vivere voci. L’intervista come fonte di documentazione, Donzelli, Roma.

-          Portelli A. (2007), Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli, Roma.

-          Portelli A. (2010), L’inter-vista nella storia orale, in Pistacchi (2010), pp. 3-12.

-          Remotti F. (1996), Contro l'identità, Laterza, Bari.

-          Scarpelli F. (2007), La memoria del territorio. Patrimonio culturale e nostalgia a Pienza, Pacini, Pisa.

-          Scarpelli F., Romano A. (a cura di) (2011), Voci della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma.

-          Shore C., Wrights S. (1997), Anthropology of Policy, Routledge, London.

-          Signorelli A. (1996), Antropologia urbana, Introduzione alla ricerca in Italia, Guerini e Associati, Milano.

-          Sobrero A. M. (1992), Antropologia della città, Carocci, Roma.

-          Tosco C. (2009), Il paesaggio storico, Laterza, Roma-Bari.

 

 

 

Ambito relativo al rischio ed alla sua percezione

 

 

I testi selezionati in questa sezione racchiudono buona parte del dibattito contemporaneo sul rischio e sulla sua percezione. I contributi hanno un orientamento di tipo antropologico e psico-sociologico, e si incentrano con particolare attenzione sulla risposta culturale delle persone e della società al rischio e al pericolo. 

 

-          Alexander D. (1993), Il tempo e lo spazio nello studio dei disastri, in Botta G. (a cura di) (1993), Eventi naturali oggi. La geografia e le altre discipline, Cisalpino, Milano.

-          Arnol’d V.I. (1990), Teorie delle catastrofi, Bollati-Boringhieri, Torino.

-          Bankoff G., Frerks G., Hilhorst D. (a cura di) (2004), Mapping Vulnerability. Disaster, Development and People, Earthscan, London.

-          Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna.

-          Beck U. (2001), La società del rischio. Verso una nuova modernità, Carocci, Roma.

-          Bianchi E. (1993), Uomo, rischio, natura: considerazioni intorno allo stato presente della ricerca, in Botta G. (a cura di) (1993), Eventi naturali oggi. La geografia e le altre discipline, Cisalpino, Milano.

-          Botta G. (1987), Calamità naturali e studi geografici, in G. Corna-Pellegrini (a cura di), Aspetti e problemi della geografia, Marzorati, Settimo Milanese, vol. I.

-          Botta G. (a cura di) (1991), Prodigi, paure, ragione. Eventi naturali oggi, Guerini, Milano.

-          Botta G. (a cura di) (1993), Eventi naturali oggi. La geografia e le altre discipline, Cisalpino, Milano.

-          Caplan P. (a cura di) (2000), Risk Revisited, Pluto Press, London.

-          Castel R. (2004), L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino.

-          Castelli C., Sbattella F. (2003), Psicologia dei disastri. Interventi relazionali in contesti di emergenza, Carocci, Roma.

-          Douglas M. (1991), Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano.

-          Douglas M. (1996), Rischio e colpa, il Mulino, Bologna.

-          Douglas M. (2003), Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e tabù, il Mulino, Bologna.

-          Hewitt K. (1983), Interpretation of Calamity, Allen & Unwin, London.

-          Ligi G. (2009), Antropologia dei disastri, Editori Laterza, Roma-Bari.

-          Lombardi M. (2005) (a cura di), La comunicazione dei rischi naturali. Un confronto internazionale, Vita e Pensiero, Milano.

-          Lupton D. (2003), Il rischio. Percezione, simboli, culture, il Mulino, Bologna.

-          Marinelli A. (1993), La costruzione sociale del rischio, FrancoAngeli, Milano.

-          Massey D., Jess P. (2001) (a cura di), Luoghi, culture e globalizzazione, Libreria Utet, Torino.

-          Morgia F. (2007), Catastrofi: istruzioni per l’uso, Meltemi, Roma.

-          Remacle C., Favrier R. (2006) (a cura di), Gestione sociale dei rischi naturali, Regione Autonoma Valle d’Aosta.

-          Slovic P. (2000), The Perception of Risk, Earthscan, London.

-          Trentini M. (2006), Rischio e società, Carocci, Roma.

-          Turner B. A., Pidgeon N. F. (2001), Disastri. Dinamiche organizzative e responsabilità umane, Edizioni di Comunità, Torino.

-          Vineis P. (1990), Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Einaudi, Torino.

-          White G. (1974), Natural Hazard: Local, National, Global, Oxford University Press, New York.

 

 

 

 

 

 

 

Ambito legato al governo del territorio

 

In questa sezione sono raccolti i contributi legati alla progettazione, alla pianificazione territoriale, ed alla gestione e governo del territorio. In particolare sono stati selezionati testi a carattere socio antropologico.

-          Balducci A. (2000), Trading Zone un concetto utile per alcuni dilemmi della pianificazione, in http://www.audis.it/binary_files/allegati_notizieitalia/atelier_II_94151.pdf.

-          Cottino P. (2009), L’Utopia del luogo. Spazio, luoghi, comunità nella città contemporanea, in “Ri-Vista”. Ricerche per la Progettazione del Paesaggio”, Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze.

-          Crosta P. L. (1998), Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale, FrancoAngeli, Milano.

-          Crosta P. L. (2010), Pratiche. Il territorio “è l’uso che se ne fa”, FrancoAngeli, Milano.

-          Filpa A., Talia M. (2009), Fondamenti di governo del territorio. Dal piano di tradizione alle nuove pratiche urbanistiche, Carocci, Roma.

-          Gregotti V. (2008), Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino.

-          Magnaghi A. (2010), Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino. 

-          Mortara G., Sorzana P.F., Villi V. (1986), L’evento alluvionale del 6 agosto1985 nella Vallata del Fiume Isarco tra Fortezza ed il passo del Brennero, mem. Scienze Geologiche, XXXVIII, Padova.

-          Pleod L. (1846) Cataclysme du 18 octobre 1846, Le Feuille d'Annonce d'Aoste, 30 ottobre 1846.

-          Sclavi M. (a cura di) (2012), Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti, Elèuthera, Milano.

-          Secchi B. (2000), Prima lezione di urbanistica, Laterza, Roma-Bari.

-          Taddio L. (a cura di) (2010), Costruire, abitare, pensare, Mimesis, Milano.

-          Vanolo A., Rossi U. (2010), Geografia politica urbana, Laterza, Roma-Bari.

-          Vitta M. (2008), Dell'abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Einaudi, Torino.

 

 

 

 

 

Ambito geografico e cartografico

 

I testi selezionati rinviano al dibattito contemporaneo che ruota intorno alla crisi della “rappresentazione” in ambito geografico e antropologico, ed alle nuove possibilità di sviluppo di una cartografia di tipo “qualitativo”.

-          Azzari M., Favaretto A. (a cura di) (2005), Beni ambientali e culturali e GIS. Atti del Workshop (Firenze, 18 novembre 2003), Firenze University Press, Firenze (CD-ROM).

-          Bertazzon S., Lando F. (2002), GIS e paesaggio: dalla scomposizione dei paesaggi reali alla creazione dei paesaggi virtuali, in De Spuches (2002), vol. 2, pp. 79-95.

-          Borruso G. (2010), La nuova cartografia creata dagli utenti. Problemi, prospettive, scenari, in “Bollettino dell'Associazione Italiana Cartografia”, 138, pp. 241-52.

-          Casti E. (a cura di) (2007), Cartografia e progettazione territoriale. Dalle carte coloniali alle carte di piano, De Agostini Scuola, Novara.

-          Casti E., Lévy J., Dematteis G. (2010), Le sfide cartografiche. Movimento, partecipazione, rischio. Il Lavoro Editoriale, Ancona.

-          Clifford S., King A. (eds.) (1996), From place to PLACE: Maps and parish Maps, Common Ground, London.

-          Clifford S., Maggi M., Murtas D. (2006), Genius loci : perché, quando e come realizzare una mappa di comunità, IRES-Piemonte, Torino.

-          Cosgrove D. (1990), Realtà sociali e paesaggio simbolico, UNICOPLI, Milano.

-          Dematteis G. (1995), Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Feltrinelli, Milano.

-          De Spuches G., Guarrasi V., Picone M. (2003), La città incompleta, Palumbo, Palermo.

-          Farinelli F. (1992), I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, La Nuova Italia, Firenze.

-          Farinelli F. (2007), L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo.

-          Farinelli F. (2009), La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino.

-          Gold J. R. (1985), Introduzione alla geografia del comportamento, FrancoAngeli, Milano.

-          Magnaghi A. (2005), La rappresentazione identitaria del territorio: atlanti, codici, figure, paradigmi per il progetto locale, Alinea, Firenze.

-          Petrarulo G. (2010), Lo stato dell’arte dei software Open Source di ausilio alla realizzazione e alla pubblicazione su Internet della cartografia digitale, in “Bollettino dell’Associazione Italiana di Cartografia”, 138, pp. 235-40.

-          Tarpino A. (2008), Geografie della memoria, Einaudi, Torino.

-          Varotto M. (2006), Abitare oltre le abitazioni: aperture geografiche, in “Rivista Geografica Italiana”, 113, pp. 261-84.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia FAD

 

I testi selezionati in questa sezione racchiudono in modo esaustivo il materiale consigliato o utilizzato come riferimento in aula nel corso dello svolgimento dei moduli del Master PSGT. I contributi hanno un orientamento multidisciplinare e trasversale rispetto alle tematiche affrontate in sede di tesi.

 

(FAD II Modulo)

-          Bauman Z., (2003), Modernità Liquida, Laterza.

-          Bauman Z., (2009), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli.

-          Bauman Z., (2007), Il disagio della post-modernità, Bruno Mondadori.

-          Farmer P., (2004) Pathologies of Power: Health, Human Rights, and the New War on the Poor,  University of California Press.

-           Fassin D., (2011) HUMANITARIAN REASON. A MORAL HISTORY OF THE PRESENT, Didier University of California Press.

-          Giddens A., (2007), L’Europa nell’età globale, I Robinson, Letture.

-          Giddens A., (2000), IL MONDO CHE CAMBIA. COME LA GLOBALIZZAZIONE RIDISEGNA LA NOSTRA VITA, Intersezioni, 2000.

-          Gnocchi R., (2009), LE PERSONE SENZA DIMORA. LA DIMENSIONE MULTIPLA DEL FENOMENO, Carocci.

-          Mantovani G., (2004), INTERCULTURA, Il Mulino.

-          Pellecchia U., Zanotelli F. (2010), La Cura e il Potere: salute globale, saperi antropologici, azioni di cooperazione sanitaria transnazionale, ED.IT, Firenze.

-          Quaranta I., (2006), Corpo, potere e malattia, Antropologia e AIDS nei Grassfields del Camerun, Meltemi, Roma.  

-          Quaranta I., (2006), ANTROPOLOGIA  MEDICA. I TEST FONDAMENTALI, Cortina Raffaello.

-          Sen A., (2010), LA DISEGUAGLIANZA. UN RIESAME CRITICO, Biblioteca paperbacks.

-          Sen A., (2010), LA MISURA SBAGLIATA DELLE NOSTRE VITE. PERCHÉ IL PIL NON BASTA PIÙ PER VALUTARE BENESSERE E PROGRESSO SOCIALE, Economia e storia economica.

-          Sen A., (2008), Identità e violenza, Laterza.

-          Taylor C., (1999) IL DISAGIO DELLA MODERNITÀ, Laterza.     

 

(FAD III Modulo)               

-          Eberhard Ch, Towards  an Intercultural  Legal Theory, The Dialogical Challenge, in Social e legal studies, An International Journal , N10, 2001.

 

-          Eberhard Ch,  Droits de l’Homme  et dialogue  Interculturel, Editions  des Ecrivains Paris 2002

 

-          Panikkar Raimon , Pace e interculturalità , Jaca Book, Milano, 2006.

 

-          Panikkar Raimon , Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, Assisi,2011

 

-          Panikkar R.  I diritti dell’uomo  sono una nozione occidentale? Intercultura N° 5. 2006

 

-          Pandolfi  Luca , L’interpretazione dell’altro, per un’antropologia dialogica, Ediz . Aracne, Roma 2005.

 

-          Magli  Ida , Dopo l’Occidente, Rizzoli, Bur, Milano 2012.

 

 

(FAD V Modulo)

 

-          Lowenthal D. (1985), The Past is a Foreign Country,  Cambridge University, Cambridge.

 

-          Lowenthal D. (1998), The Heritage Crusade, Cambridge University Press, Cambridge.

 

-          Palumbo B. (2003), L’UNESCO e il campanile, Meltemi, Roma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sitografia

 

-          http://www.regione.vda.it/ Regione Autonoma Valle d’Aosta

-          http://www.regione.vda.it/territorio/territorio/rischiidrogeologici/ricordare_il_passato/valluvione/banca_della_memoria/default_i.asp Banca della Memoria

-          http://www.aineva.it/normative/NORMATIVE%20allegate%20Regione%20VALLE%20AOSTA/VA%20LR%201998-13.pdf Piano Territoriale Paesistico della Regione VDA

-          http://www.arpa.piemonte.it/arpa-comunica/events/eventi-2011/6-risknat-ps-insar-2010-vda.pdf Arpa: studio della frana di Bosmatto

-          http://www.protec-italia.it/ed2012/public/abstract/61_SRATTO.pdf Protezione civile VDA

-          http://www.istat.it/it/ ISTAT

 

 



[1] Douglas M. (1991), Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano, p. 8.

[2] Lupton D. (2003), Il rischio. Percezione, simboli, culture, il Mulino, Bologna.

[3]  Scarpelli F., Romano A. (a cura di) (2011), Voci della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma.

 

[4] Voci della città. Op. cit. p. 81 e seguenti.

[5] Voci della città. Op. cit. p. 19 e seguenti.

[6] Heidegger M. (ed. or. 1950) (a cura di M. Barison, in Taddio), (trad. it. 2010), Costruire abitare pensare. P. 25.

 

[7]Voci della città. Op. cit P. 28

[8]Voci della città. Op. cit P. 28

[9] Ibidem

[10] Ibidem

[11] Riportato in Ligi G. (2009), Antropologia dei disastri, Editori Laterza, Roma-Bari, p. 77.

[12] Riportato in Ligi G. (2009), Antropologia dei disastri, Editori Laterza, Roma-Bari, pp. 77 – 78.

[13] Il PTP, come prevedono la legge n. 142 del 1990 e quella regionale n. 1 del 1993 (con le successive modificazioni), è formato dalla Regione col concorso dei comuni e delle comunità montane. Esso deve costituire il quadro di riferimento per tutte le attività, pubbliche e private, che investono l’assetto del territorio, gli sviluppi urbanistici, la

tutela e la valorizzazione del paesaggio, dell’ambiente e del patrimonio storico, secondo quanto stabilito dalla legge regionale n. 1 del 1993 e successive modificazioni.

[14] Dati ISTAT- Censimento Popolazione e abitazioni 2011, dati definitivi.

[15] «Il torrente Lys, a Bosmatto, ha quasi completamente sepolto diverse abitazioni e ricoperto le più belle proprietà agricole di un’enorme quantità di pietrisco che nei prossimi anni impedirà le coltivazioni. Questa sfortunata frazione è inoltre minacciata dalla caduta di una parte di montagna che la sovrasta, e che, essendo costituita da profondi crepacci, si è già abbassata di molti metri».

[16] Disponibile presso la Banca della memoria, all’indirizzo web: http://www.regione.vda.it/pressevda/focus/banca_della_memoria/comuni_i.asp

[17] Disponibile alla sezione “Rassegna stampa” della Banca dati della memoria. Dipartimento Difesa Suolo e Risorse idriche della Regione Autonoma Valle d’Aosta.

[18] Lavoro condotto dalla maestra Silvana Minotti per una ricerca scolastica effettuata presso l’istituzione scolastica primaria di Pont Saint Martin.

[19] Alessandro Portelli, professore ordinario di storia, ne ha teorizzato il genere. L’”history-telling” si differenzia dallo “storytelling”, ovvero un genere tradizionale di racconto facente parte della narrativa orale e della fiabistica.

[20] Intervista del 16/4/2013 ad una donna residente nel comune di Issime (A. C., d, 54)

[21] Intervista al signor Graziano Masiero, disponibile integralemente nella Banca dati della Memoria all’indirizzo:  http://www.youtube.com/v/hXugIxmbZyA?fs=1&hl=it_IT&color1=0x006699&color2=0x54abd6

[22] Video intervista di Annamaria Follioley, disponibile presso la Banca della memoria, all’indirizzo web: http://www.youtube.com/v/IJO3J2I7380?fs=1&hl=it_IT&color1=0x006699&color2=0x54abd6

[23] Intervista del 16/4/2013 ad un signore residente nel comune di Gressoney Saint Jean (P. G., u, 73)

[24] Intervista del 13/4/2013 ad un uomo residente nel comune di Gaby (D. F., u, 34)

[25] Video disponibile presso la Banca della memoria, all’indirizzo web: http://www.youtube.com/v/gl94Ww8MTac?fs=1&hl=it_IT&color1=0x006699&color2=0x54abd6

 

[26] La percezione del rischio sembra maggiormente avvertita tra i giovani, mentre con l’aumentare dell’età sembra decrescere.


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