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Consorzio Interuniversitario per la Formazione e ComunicazioneFor.Com

 

Master in

Progettazione Sociale e Gestione del Territorio”

IV Edizione - a.a. 2014 - 2015

 

 

 

 

 

 

 

Abitare il Centro Vittorio

 

Identità, margini e luoghi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Relatore: Prof. Amedeo Pistolese

 

Candidato: Mariangela Zema

 

 

 

 

 

Anno Accademico 2014-2015

INDICE

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione 3

 

 

1. I presupposti teorici della ricerca 6

1.1 Dalla modernità alla post-modernità e surmodernità 6

1.2 Identità, cittadinanza e rappresentanza 9

1.3 Abitare il territorio 12

1.3.1 Il territorio, il paesaggio e la città 12

1.3.2 Luoghi e nonluoghi 13

1.3.3 L’atto dell’abitare 14

1.4 La progettazione sociale tra mappe e territorio 16

 

 

2. Il Luogo 22

2.1 Ostia: descrizione del contesto generale 23

2.1.1. La struttura urbanistica ed amministrativa 23

2.1.2. La storia 25

2.1.3 I dati demografici 27

2.1.4 I servizi offerti alla popolazione 30

2.2 Il Centro Vittorio: descrizione del contesto specifico 31

2.2.1 La colonia marina Vittorio Emanuele III 32

2.2.2 Il Vittorio occupato e l’associazione Shaka Zulu 34

2.2.3 Il Centro Vittorio 40

 

3. «Da quella parte di Ostia»: La costruzione della marginalità 46

3.1 Memorie, rimozioni e censure 46

3.2 Giudizi e pregiudizi di una realtà disconosciuta 52

 

 

4. «IL CENTRO VITTORIO È FATTO DI MURI»: Vivere la marginalità 57

4.1 Le relazioni del Centro Vittorio con l'esterno 58

4.1.1 Le relazioni con i servizi 58

4.1.2 Le relazioni con le istituzioni 72

4.1.3 Le relazioni con il territorio 83

4.2 Le relazioni interne al Centro Vittorio 85

4.2.1 Le relazioni tra i residenti 85

4.2.2 Le relazioni con il luogo 90

 

 

Conclusioni96

 

 

Appendici

Appendice A: Fonti primarie: Stakeholders, osservazioni partecipanti e note di campo I

Appendice B: Convenzioni per la trascrizione delle interviste III

 

Allegati

Allegato 1:Comunicato stampa Shaka Zulu IV Allegato 2: Lettera aperta Caritas VI

 

Bibliografia

Sitografia

Introduzione

L'obiettivo generale di questo lavoro è fornire un’analisi di contesto del Centro Socio-abitativo, sito presso l’ex-colonia Vittorio Emanuele III ad Ostia, volta a comprendere come questa realtà è percepita dal territorio ospitante e dai residenti che vi dimorano. Gli obiettivi specifici di tale analisi sono: la valutazione e l’interpretazione delle eventuali divergenze tra le percezioni etiche ed emiche riferite all'area d'indagine; l’identificazione delle criticità e delle potenzialità del contesto sociale del centro e la rilevazione dei bisogni dei residenti dello stesso.

Il fine ultimo è quello di restituire un’immagine di questo Centro Socio-abitativo il più possibile esaustiva, affinché possano essere improntati i presupposti per una sua efficace progettazione sociale.

La genesi della presente ricerca è stata promossa dalla partecipazione alle attività di laboratorio, incluse nella didattica della IV edizione del Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio “Tullio Tentori”, finalizzate all’osservazione e alla valutazione della cultura dell’accoglienza, ossia delle pratiche finalizzate ad implementare l’inclusione sociale delle parti di società marginali al loro territorio di riferimento. Nella pratica, il presente lavoro, è stato avviato a seguito dell’osservazione delle azioni d’accoglienza messe in atto dai Teatri di Cintura del Comune di Roma; nello specifico dal laboratorio teatrale per migranti organizzato dal Teatro del Lido di Ostia.

Il teatro, nell’esigenza di porsi quale spazio di supporto ed aggregazione sociale (a partire da gennaio del 2015) e traendo ispirazione dalle precedenti ed efficaci esperienze avviate a Roma dal Teatro Furio Camillo1 e in collaborazione con parte del personale di quest’ultimo, ha avviato il progetto “Enea”: un laboratorio teatrale sul tema della migrazione, del viaggio e delle sue aspettative, riservato alla popolazione straniera del territorio di Ostia e, in particolar modo, ai residenti del Centro Socio-abitativo attiguo al teatro, per lo più d’origine straniera.

Nonostante costituisse una delle poche opportunità d'inclusione sociale per i residenti del centro, il laboratorio teatrale non ha registrato la partecipazione sperata da parte di questi ultimi.

Il mancato riscontro positivo da parte dei residenti del centro ha stimolato molti interrogativi: Per quale motivo i residenti, così vicini al Teatro, hanno deciso di disertare l’invito d’accoglienza nel territorio, rivolto loro attraverso un laboratorio teatrale dedicato? In che modo e perché le azioni progettuali messe in moto dal teatro non sono state efficaci nel coinvolgere i loro beneficiari privilegiati? In generale: in che modo l’accolto partecipa, o meno, all’azione di accoglienza?

Sulla spinta di queste domande si è proceduto ad una prima osservazione sommaria della realtà rappresentata dal Centro Socio-abitativo ed è stato possibile ravvisare, in tale contesto, una generale condizione di disagio e marginalizzazione sociale, unitamente ai connotati di un nonluogo; ciò ha mosso ulteriori quesiti:Quali sono le condizioni esistenziali ed esperienziali degli individui che, privi di tutele politiche e sociali, risiedono nel centro? Cosa significa abitare in un contesto marginale? Cosa accade quando si abita in un nonluogo?

Il progetto “Enea”, dunque, ha costituito il pretesto per l’avvio di una ricerca focalizzata sul Centro Socio-abitativo, con l’iniziale intento di dimostrare in che modo tale contesto è un nonluogo o tende a diventarlo.

Le azioni improntate all’avvio della presente indagine sono quelle tipiche della ricerca etnografica e della progettazione sociale. In via preliminare, si è scelto di adottare una strategia di mappatura basata sul target territoriale,2 nello specifico, si è convenuto stabilire:

  • il luogo di mappatura (inteso come luogo fisico e sociale), definito nell’ex-colonia marina Vittorio Emanuele III e, nello specifico, nel Centro Socio-abitativo in essa situato;

  • la categoria di disagio sociale, individuata nei residenti del Centro Socio-abitativo;

  • la rete delle risorse sociali, rintracciata nei servizi ospitati nell’ex-colonia marina Vittorio Emanuele III;

  • l'obiettivo primario, individuato nella rilevazione dei bisogni dei residenti del Centro Socio-abitativo e nell’individuazione degli interessi e delle aspettative di questi in relazione al luogo di mappatura;

  • gli obiettivi secondari, individuati nella rilevazione della memoria e percezione dell’area d’indagine da parte dei cittadini di Ostia, e nella mappatura delle relazioni tra il Centro Socio-abitativo, le istituzioni e la comunità lidense;

  • gli strumenti di raccolta dei dati, scelti tra: osservazioni partecipanti, interviste aperte e focus group formali ed informali;

  • le azioni di ricerca, da intraprendere sul campo d’indagine e mediante gli strumenti di raccolta dei dati con i cittadini di Ostia, con i residenti del Centro socio-abitativo e con gli operatori dei servizi ospitati all'interno dell’ex-colonia Vittorio Emanuele III.

 

La ricerca è stata divisa in due fasi:

  1. Una prima fase (da marzo a giugno 2015), durante la quale ci si è interfacciati con: i cittadini di Ostia, per rilevare la memoria e le percezioni che questi hanno sull’area d’indagine; con i residenti del Centro Socio-abitativo, al fine di rilevare i loro bisogni e le loro aspettative in merito al luogo in cui vivono;

  2. Una seconda fase (da giugno 2015 a maggio 2016), in cui si è proceduto ad un dialogo più approfondito con gli operatori dei servizi presenti nella struttura dell’ex-colonia (allo scopo di conoscere le risorse offerte nell’area di indagine ed la loro relazione con il Centro Socio-abitativo) e con i residenti di quest’ultimo (al fine di vagliare i rapporti che questi intrattengono tra di loro e con il luogo in cui risiedono).

Insito in ogni processo d’indagine è l’affinamento, in fase di analisi ed interpretazione dei dati, dei presupposti stabiliti nel progetto di ricerca; per questo motivo gli obiettivi stabiliti vengono a convogliarsi nell’obiettivo generale esposto all’inizio di questa introduzione; in base a quest’ultimo si struttura il presente elaborato. Nel dettaglio si inizierà, nel primo capitolo, col fornire un quadro teorico di riferimento, mediante il quale inquadrare le tematiche principali affrontate in sede di analisi. Si procederà nel secondo capitolo con una descrizione del contesto generale e del contesto specifico della ricerca, facendo ricorso, per la prima parte alle narrative formali ed istituzionali e a dati quantitativi secondari raccolti nelle reti formali, per la seconda parte, invece, tali fonti saranno implementate con dati qualitativi raccolti in fase di indagine. Successivamente, nel terzo e quarto capitolo, mediante l’interpretazione dei dati primari raccolti sul campo e provenienti dalle reti informali, si fornirà un’analisi del contesto specifico e, dal confronto tra questi due capitoli, si espliciteranno le eventuali discrepanze tra la visione etica e la visione emica attinenti al terreno d’indagine. Specificatamente, nel terzo capitolo, si esporrà come il Centro Socio-abitativo è percepito dal territorio ospitante e in che modo le rimozioni e le censure nella memoria dell’ex-colonia, unitamente ai giudizi ed ai pregiudizi circa questo centro, abbiano concorso alla marginalizzazione di quest’ultimo. Nel quarto capitolo, invece, si analizzeranno le relazioni che il Centro Socio-abitativo intrattiene al suo esterno (con i servizi ad esso limitrofi, con le istituzioni e con il territorio lidense), unitamente ad un’analisi dei rapporti vigenti tra i residenti del centro e tra questi e il luogo in cui vivono; contestualmente, si offrirà un’interpretazione delle criticità e delle potenzialità del centro stesso, inteso come luogo sociale. Infine, nelle conclusioni, si individueranno, sotto forma di una generale proposta meta-progettuale, i presupposti per una rivalutazione sociale del Centro Socio-abitativo.

 

1. I presupposti teorici della ricerca


 

Per comprendere meglio cosa significhi abitare il Centro Vittorio è necessario capire come l’esperienza dell’abitare questo luogo si sviluppi in un percorso di costante negoziazione di significati tra l’individuo (i residenti del centro), il luogo eletto a casa (il Centro Vittorio) e il territorio circostante (Ostia). Il tentativo di interpretare queste negoziazioni, vagliando la qualità del nesso tra individuo, luogo e territorio, non può prescindere da una preventiva disamina della nostra società e dall’assunzione di una situazione di partenza identificabile in uno stato di esclusione sociale. Per tal motivo, procederemo ad inquadrare la presente ricerca all’interno di un quadro teorico di riferimento in cui l’esclusione sociale è ascrivibile ad un processo crescente di marginalizzazione ed estraneazione dal territorio, frutto del passaggio dalla modernità alla post-modernità, fino a giungere alla surmodernità che ha come esito la società attuale, ossia la società complessa. Successivamente, per meglio comprendere il rapporto tra individuo, luogo e territorio, si vaglieranno i concetti di identità, cittadinanza e rappresentanza, e si offrirà un quadro teorico con il quale dar senso al concetto di luogo e all’esperienza dell’abitare un territorio. Infine, nell’ottica di configurare l’oggetto di studio del presente lavoro in un progetto di gestione territoriale, si procederà ad inquadrare il tema della progettazione sociale all’interno della dialettica che intercorre tra mappe e territorio.

 

 

1.1 Il passaggio dalla modernità alla post-modernità e surmodernità

Per comprendere al meglio il passaggio dalla modernità alla post-modernità è opportuno assumere come quadro generale di partenza il precedente passaggio dalle società comunitarie a quelle moderne, delineato per la prima volta da Durkheim (1893) nell’opera “La divisione del lavoro sociale” nella quale l’autore distingue le prime (anche definibili come società semplici), basate su una forte similitudine tra gli individui ed un rapporto immediato tra questi e la società, dalle seconde (ovvero le società complesse), nate con la divisione e differenziazione del lavoro che diventa principale fondamento della coesione sociale. Partendo da questa distinzione è possibile comprendere come le società di tipo complesso, corrispondenti alla post-modernità, siano frutto di un sistema casuale in cui i mutamenti sono imprevedibili e veloci, sia a livello sincronico sia diacronico, per via della presenza di variabili non controllabili; mentre le società semplici, quelle moderne, si basano su un sistema di tipo causale i cui mutamenti sono totalmente prevedibili.3 Un simile impianto teorico è quello dell’antropologo e linguista Edward Sapir (1985) che contrappone le culture cosiddette “genuine” da quelle “spurie”. Le prime sono quelle in cui vi è corrispondenza tra i bisogni della società e quelli dei propri singoli membri, nelle seconde, invece, non vi è questo nesso, pertanto, nonostante la loro efficienza economica, si caratterizzano per la loro incapacità di rispondere in maniera organica alle aspirazioni degli individui.

La società contemporanea è, per la gran parte, una società complessa di tipo spurio in cui imperversa l’incertezza, non essendoci più un nesso stabile tra i bisogni e il soddisfacimento degli stessi.4La società, così plasmatasi, corrisponde a quella che Bauman (2002b) definisce “modernità liquida”, in cui sia le esperienze individuali, sia le relazioni sociali, presentano strutture che si scompongono e si ricompongono velocemente in maniera incerta, vacillante e, per l’appunto, fluida. Tale incertezza viene rintracciata nella trasformazione dei membri della società da produttori a consumatori e nell’avvento della globalizzazione che inaugura la società dei consumi in cui, per effetto di un processo intenso di delocalizzazione, il luogo di produzione e quello di consumo non coincidono; ne consegue che lo spazio è sempre più virtualizzato e capitale e conoscenza sono indipendenti dalla loro dimensione locale (Id., 2000:126); tutto ciò esercita implicazioni forti sui servizi: mentre nella società industriale i servizi erano assistenziali rispetto alla produzione, nella società complessa servono per incentivare il consumo di beni che si producono altrove.5 In tal senso, il legame organico, delineato da Durkheim, con l’avvento della postmodernità, si struttura intorno al consumo (anziché alla produzione come avveniva per le società moderne) definendo l’odierna fase della globalizzazione.

Il contesto finora delineato diventa più complesso se si considera che la globalizzazione intrattiene un rapporto dialettico con il fenomeno suo opposto, quello della localizzazione; si tratta di quella situazione che Robertson definisce “glocalizzazione”, in altre parole la tendenza alla globalizzazione, per quanto concerne il capitale e l’informazione, e la contemporanea tendenza alla localizzazione, per quanto concerne la politica. Ne consegue che, mentre la circolazione di capitali ed informazioni è esternalizzata rispetto al territorio, le istituzioni politiche continuano ad essere ancorate alla dimensione locale, facendo perdere, in tal modo, sempre più potere agli stati nazionali, ormai incapaci di controllare i processi di integrazione sociale. Lo Stato moderno, dunque, si trova a delegare ad altri soggetti, spesso autonomi dallo stato stesso, il controllo di questi processi (Id.,2001:95).

Un’ulteriore evoluzione del postmodernismo è quella che Augé (1992) definisce “surmodernità”, ossia lo sviluppo delle società complesse con la fine della fase postindustriale e la diffusione della globalizzazione. Per Augé la surmodernità è caratterizzata da tre figure della sovrabbondanza: la sovrabbondanza di avvenimenti (l’eccesso di tempo); la sovrabbondanza di spazio (l’eccesso di spazio); la sovrabbondanza dei riferimenti (l’eccesso di ego). La sovrabbondanza di avvenimenti attiene alla condizione sociale odierna per la quale vi è un’accelerazione della storia per via di una moltiplicazione di avvenimenti imprevedibili; la sovrabbondanza spaziale è connessa al restringimento del pianeta con la diffusione dei mezzi di trasporto rapido, che accorciano notevolmente le distanze, e dei mass-media, che riproducono immagini di avvenimenti in maniera istantanea in qualsiasi parte del mondo; infine, la sovrabbondanza di riferimenti per la quale l’individuo si percepisce e considera come scardinato dal resto del mondo: le storie individuali sono strettamente imbrigliate nella storia comune, nonostante ciò, i riferimenti dell’identificazione collettiva sono sempre più fluttuanti.

Esito della postmodernità e della globalizzazione, dunque della surmodernità, è un incalzante processo di estraneazione dal territorio che è la principale causa della marginalità sociale: una condizione nella quale il lavoro non è più garanzia di uno status sociale e l’attività lavorativa, di conseguenza, è sempre più flessibile e precaria e non concorre alla determinazione della propria posizione nella società e delle condizioni in cui poter vivere il territorio.6 Nello specifico, la società contemporanea è caratterizzata da una schizofrenia tra status, inteso come posizione sociale, e ruolo, inteso come il modo in cui ogni persona attiva lo status, sulla base delle aspettative sociali che ricadono sullo stesso; in sostanza la società dei consumi, con gli individui intesi esclusivamente come consumatori, ha fatto perdere al lavoro la sua funzione di integrazione sociale, cedendola al consumo.7 Il rischio in questo passaggio di testimone è, come fa notare Bauman (2004), l’aumento di situazioni di miseria che vanno oltre le forme di povertà classiche (come l’indigenza economica e materiale, e la sofferenza fisica) e che si distinguono da quest’ultime per essere esito di condizioni psicologiche e sociali critiche; le moderne forme di povertà ed emarginazione sono, dunque, rintracciabili nell’impossibilità o incapacità di consumo che, nella società odierna, diventa motivo di frustrazione e colpa (Marcus e Fisher, 1998:204).

Esito dei processi di marginalizzazione sociale è l’esclusione sociale che, nell’ottica finora delineata, equivale all’impossibilità materiale di poter usufruire delle risorse. I rapporti di produzione che si sviluppano sui territori post-moderni e globalizzati hanno cambiato il modo in cui si costruiscono le nuove marginalità che, nella società odierna, si esplicano con forza soprattutto nella figura dell’immigrato, sia esso regolare o irregolare:8 egli è l’emblema della marginalità odierna, poiché uomo al margine di due società, di due culture, senza risoluzione che queste possano incontrarsi (Pollini, Scidà, 2002:62).

In generale, l’esclusione sociale, unitamente al sempre più incalzante processo di esternalizzazione dei territori e di inadeguatezza delle istituzioni, fa si che i cittadini siano potenzialmente marginali e sempre più sostituibili, vittime di un progressivo indebolimento di valori e norme comuni e, quindi, di diseguaglianza sociale. L’incertezza che caratterizza le società attuali coinvolge anche, e soprattutto, l’esistenza sociale in senso ampio, con ripercussioni negative su tutto ciò è identificato come “altro” e “diverso”. L’alterità è dunque concepita come rischio e ne consegue che i processi di integrazione siano profondamente ostacolati, in generale, da una crescente perdita di legami interpersonali, nello specifico: sia da forme di esclusione provenienti da quella porzione di società che è il “noi”, sia dall’“altro” stesso che, trovandosi senza punti di riferimento, può intraprendere percorsi di autoesclusione.

Nelle forme odierne di esclusione ed autoesclusione sociale diviene palese quanto il territorio, perdendo la sua originaria funzione di rifugio, sia diventato terreno di molteplici confini immaginari in cui sempre più astratta è la linea di demarcazione tra centro e periferia.9 Una riconciliazione con il territorio, da parte della società civile e delle istituzioni, risulta necessaria per arginare la deriva della società odierna, per ristabilire i legami sociali perduti e per contrastare i fenomeni di disuguaglianza sociale.

 

 

1.2 Identità, cittadinanza e rappresentanza

In una società come quella attuale, in cui imperversa l’incertezza, ogni pretesa di attribuire alla realtà un senso certo ed univoco si perde in favore di definizioni che si basano sui concetti di differenza e molteplicità che, a loro volta, determinano il concetto stesso di identità.

L’appartenenza di un individuo ad un gruppo è possibile solo se si condividono, almeno parzialmente, determinati modelli culturali; allo stesso tempo, in maniera complementare, la definizione dell’identità collettiva avviene tramite la costruzione di confini tra quello che si stabilisce essere il “noi” e gli “altri” (Fabietti, 2010:149). Stabilire questi confini implica necessariamente una relazione tra il “noi” e l’“altro”, non sempre scevra di conflitti (Cliffor, 1993; Fabietti, 2013:215), in cui l’“altro”, prima ancora di essere distinto dal “noi”, è interiorizzato; per tal motivo, l’alterità diventa elemento costitutivo dell’identità (Longo De Cristofaro, 1993:59). Il Sé collettivo, dunque, si realizza attraverso dinamiche di appartenenza e di distinzione; quest’ultime, in un’epoca come quella attuale in cui sempre più ampi sono gli ambienti concorrenziali e conflittuali, risultano essere amplificate e l’identità è sempre più “costruita” o “inventata”, in altre parole, la si decide nel tentativo di salvarla dal flusso inesorabile del mutamento (Remotti, 1996). Decidere l’identità è un processo complesso e incerto, come Vattimo (2011) fa notare, nella società odierna, un primo effetto di identificazione è da rintracciare nel cosiddetto “spaesamento”, dettato dalla frammentazione del contesto sociale che si riversa anche in quello esistenziale, contemporaneo ed opposto, alla tendenza all’internalizzazione dell’economia e delle informazioni. Una conseguenza di questa complessità sociale, con la sua differenziazione funzionale dei ruoli, è il moltiplicarsi delle identità (Longo De Cristofaro, 1993), pertanto l’identità, all’interno del contesto sociale odierno, va ridefinita come ibrida (García Calclini, 1998).

Essendo l’identità soggetta ad entrare in crisi al contatto con l’alterità, l’altro, lo straniero, inquieta, poiché mette in discussione l’ordine sociale costituito (Tentori, 1987); con l’avvento della società complessa e la perdita delle identità nazionali, il rischio delle certezze provocato dal contatto con l’altro si è amplificato al punto da contribuire alla costruzione della figura dello straniero come capro espiatorio. Ad aggravare ulteriormente tale situazione, infatti, sono le dinamiche di identificazione con il gruppo di appartenenza che costruiscono ulteriori confini tra il “noi” e l’“altro”, alimentando la paura dell’ignoto; accade così che l’altro da “noi” diventa minaccia, figura inquietante, e che lo straniero, il migrante, sia sempre più un simulacro di se stesso (Pirani, 2000). L’“altro”, così inteso, è facilmente vittima di quello che Farmer (2006:265-300) definisce “violenza strutturale”: la forma di violenza prodotta dall’organizzazione sociale non egualitaria, frutto di processi storici, politici ed economici, che viene esercitata, in modo indiretto, su quella parte di individui marginalizzati da profonde disuguaglianze sociali. Tale forma di violenza, inquadrata all’interno della società dei consumi, risulta essere la risultanza dell’impossibilità, dei soggetti marginalizzati, di avere i mezzi per scegliere come meglio condurre la propria esistenza (Bauman, 2002a:96). Nelle società complesse, dunque, lo straniero è posto ai margini della società, è sempre più inteso come simulacro di sé stesso e vittima di violenza strutturale; inoltre, esso è costretto a vivere una condizione ambigua di “doppia assenza” per la quale: non è cittadino a pieno diritto né della società di provenienza, né di quella di approdo, subendo su di sé una sempre crescente delegittimazione del suo status (Sayad, 2002).

Un’altra condizione di ambivalenza, in cui versa lo straniero, è quella che Bauman (1999) mette in luce in relazione alle cosiddette “identità a palinsesto”: identità individuali provvisorie che assumono maschere sempre cangianti, a definizione di una personalità fragile e mutevole, senza punti di riferimento stabili con i quali costruire percorsi esistenziali ed identitari duraturi. Per Bauman, lo straniero vive sia questa condizione di precarietà, anonimato e solitudine (diventando invisibile al pari degli altri cittadini), sia una condizione in cui, in quanto portatore di “differenza”, desta curiosità e si rende irrimediabilmente visibile agli occhi della collettività; la curiosità che egli desta è a sua volta ambivalente perché se da un lato è vista come risorsa (in quanto rottura con la monotonia e spinta all’innovazione), dall’altro è portatrice di significati destabilizzanti per il residuo di certezza ancora rimasto nella società. L’altro, in quanto portatore di diversità, destabilizza ed infastidisce anche perché resiste all’in-globalizzazione dell’io e si oppone all’esodo di massa verso la monocultura; ne consegue che risulta difficile prevedere i consumi globali delle diversità se quest’ultime non vengono inglobate. Per tal motivo il capitalismo ha concepito la tolleranza delle differenze che sta alla base del funzionamento dello stato sociale postmoderno.

All'interno di queste complesse dinamiche ed ambivalenze si sviluppa il concetto di cittadinanza che, al pari di quello dell’identità, non sfugge alla morsa dell’incertezza che attanaglia la società odierna: l’assenza di confini certi nelle città contemporanee (quindi la mancanza di un centro e di una periferia), l’esternalizzazione dei capitali dai territori e, in generale, la distanza tra istituzioni e società civile, rende il concetto di cittadinanza indefinito e sfuggente, sempre più dipendente dalle relazioni che si sviluppano nel tessuto urbano e che riguardano, essenzialmente, la possibilità per gli individui di esercitare diritti ed usufruire di servizi sociali e culturali. Per tal motivo, è necessario intendere la cittadinanza, com’anche la nazionalità, come processi di identificazione attivi nel più ampio contesto della società globale che si riversano nella quotidianità del singolo. Questo fenomeno, in generale, corrisponde alla dinamica tra locale e globale in base alla quale le gerarchie e i rapporti di forza internazionali si riversano nel locale.10 Il concetto di cittadinanza, nel contesto sopra delineato, assume le forme di quella che Neveu definisce “cittadinanza locale” o “cittadinanza dal basso”, ossia:

 

le molteplici maniere attraverso cui gli agenti stessi definiscono, praticano, percepiscono l’impegno in uno spazio pubblico, ma anche l’appartenenza a una collettività, a una comunità politica, così come gli ostacoli che incontrano e le possibilità che essi si creano (Neveu, 1999:9).

 

Praticare l’“impegno in uno spazio pubblico” attiene, in maniera imprescindibile, alla rappresentanza degli interessi della popolazione, i quali, soprattutto nel caso degli immigrati, emergono innanzitutto come diritti di cittadinanza (Codres, 2000:7). Riguardo la rappresentanza degli interessi, di particolare importanza è la distanza che si viene a produrre tra i cittadini e la rappresentanza dei loro interessi, e le istituzioni e la rappresentanza delle stesse; centrale, infatti, è l’agentività dell’individuo nei processi di partecipazione democratica che è influenzata dal rapporto tra: legittimazione (del cittadino da parte delle istituzioni), consenso (all’istituzione da parte del cittadino) e controllo sociale (della popolazione da parte delle istituzioni). Il legame tra questi tre fattori delinea i rapporti di forza politici, attivi in un dato territorio, e sviluppa il meccanismo della governance11, tramite la quale è possibile rimediare al gap tra i cittadini e le istituzioni, tra gli interessi rappresentanti dei primi e la rappresentanza delle seconde. Si tratta, in altre parole, di attivare un processo di integrazione dei cittadini nei processi decisionali politici e di socializzare la cittadinanza mediante la partecipazione a forme di cittadinanza attiva, allo scopo di garantirne gli interessi, tutelarne i diritti e rafforzarne la possibilità di accedere ai servizi, con l’obiettivo generale di scongiurare il rischio di esclusione sociale dei soggetti svantaggiati.

 

 

1.3 Abitare il territorio

1.3.1 Il territorio, il paesaggio e la città

Il territorio è lo spazio nel quale l’uomo si identifica ed opera, il punto di partenza in cui è possibile la sua conoscenza del mondo. Esso, infatti, nonostante sia costituito da città, strade, case, è anche fatto di servizi, vissuti, relazioni sociali, incontri e narrazioni; perciò, per poterlo al meglio analizzare, è necessario focalizzarsi sul suo aspetto umano. L’ambiente naturale, infatti, è sempre manipolato e ricostruito culturalmente dalle comunità che lo vivono, attraverso un’incessante lavoro sociopoietico; questa azione trasforma lo spazio in paesaggio in un’insieme di immagini e memorie, costruite culturalmente e mascherate di natura. Il territorio è dunque uno spazio con delle storie (Ingold, 2000:219) in cui gli individui si muovono in una rete di micro-esperienze (Ligi, 2009) e, così facendo, si rende il paesaggio una risorsa, un patrimonio ed un bene culturale.

Analogamente al paesaggio, la città è il posto in cui è possibile la convivenza, l’identità e l’incontro, dove, in altre parole, l’uomo cerca di trovare le regole di convivenza il più armoniose possibili.12 Tuttavia, in questa ricerca, l’uomo è ostacolato dalla labilità delle relazioni che si costruiscono nella società attuale, difficili da cogliere e quantificare; per tal motivo, la città odierna assume il ruolo di mediazione di una rete di relazioni, tra istituzioni ed entità territoriali, aperta verso l’esterno; ciò concorre alla perdita dei confini netti tra il centro e le periferie: lo spazio urbano perde i suoi confini e l’opposizione con lo spazio rurale non ha più alcun valore (Sobrero, 1998).

Nella società complessa il territorio è l’esito dei vigenti rapporti di egemonia; esso, infatti, è sempre frutto di compromessi ma, attualmente, questi hanno raggiunto un’intensità tale da legittimarne il furto, soprattutto in Italia e nel paesi a basso reddito.13 Il furto del territorio, cioè il suo crescente distacco con gli individui che lo abitano, è esito della delocalizzazione dei mezzi di produzione, detenuti dall’egemonia, che ha permesso al consumo di diventare una condizione territoriale che, separata dalla produzione, retroagisce su altri territori (quelli di produzione), incentivando una sempre più crescente virtualizzazione del territorio che ha aperto la strada al suo furto.14

 

1.3.2 Luoghi e nonluoghi

Lo spazio, come abbiamo visto, non è vissuto dall’uomo così come è dato, ma viene da lui riconosciuto quando è capace di riempirsi di luoghi. Il luogo è la realtà in cui si percepisce la convivenza, la dimensione dove si realizza la nostra esperienza, memoria e storia: senza l’esperienza dei luoghi è impossibile la conoscenza dello spazio.15 Per luogo, dunque, s’intende quella costruzione simbolica e concreta dello spazio in cui un individuo mantiene la sua identità individuale e, al contempo, ne acquisisce una collettiva. Nello specifico, ci si riferisce al “luogo antropologico”, inteso come quel luogo identitario, relazionale e storico in cui sono iscritti il legame sociale e la storia collettiva, nel quale vi è connessione tra individuo e società, in cui le relazioni sono sollecitate e i soggetti condividono una storia comune o a questa fanno riferimento. Per Augé (1996) il luogo, per dirsi tale, deve essere; identitario (permette di individuare l’identità di chi lo abita); relazionale (stabilisce una reciprocità tra gli individui funzionale ad una comune appartenenza); storico (mantiene costante la consapevolezza delle proprie radici in chi lo abita). In contrapposizione ai luoghi antropologici, Augé definisce i “nonluoghi” come spazi incentrati solamente sul presente e rappresentativi della precarietà della nostra epoca; i non luoghi, infatti, sono frutto della surmodernità che, incapace di integrare a sé i luoghi antropologici, banalizza questi ultimi e li marginalizza. Il nonluogo è quindi uno spazio senza identità in cui gli individui vi transitano, ma non vi abitano, non vi si riconoscono come appartenenti ad esso e sono sempre più omologati e spersonalizzati dal consumismo; ne consegue che nei nonluoghi l’individuo perde la propria identità individuale, in favore di una provvisoria e precaria. Esempi di nonluoghi sono gli aeroporti, le stazioni, le autostrade e i centri commerciali, tutti spazi pensati a prescindere dalle relazioni interpersonali, dove il rapporto principale, infatti, si esplica tra il luogo e l’individuo e non tra gli individui all’interno del luogo.

Bauman (2002:113) mette in luce come, mai prima d’ora, i nonluoghi occupano uno spazio sempre più crescente e, riprendendo da distinzione Lévi-Strauss tra la strategia antropoemica e quella antropofagica, fa notare come questi siano concepiti sia come spazi antropoemici, in cui la socialità è disincentivata poiché l’alterità è respinta; sia come spazi antropofagici, perché costruiti in modo tale da assimilare i soggetti e privarli della loro unicità. I nonluoghi, dunque, respingono l’alterità ma, poiché è inevitabile che vengano frequentati anche porzioni consistenti di essa, realizzano una condizione particolare per la quale chi li frequenta deve sentirsi come se fosse a casa propria, ma senza comportarsi come se effettivamente lo fosse. L’individuo nel nonluogo è, perciò, privo di un ruolo e viene inteso, in linea con il volere del consumismo, come un cliente o fruitore di un servizio, come un’entità anonima.

Una particolare forma di nonluogo individuata da Augé (1996) è quella che emerge in relazione ai rifugiati che, analogamente alla doppia assenza teorizzata da Sayad (1999), sono doppiamente destinati al nonluogo poiché sono in duplice negazione: recidono i legami con il luogo di provenienza e, privati dell’identità d’origine, non ne intessono di nuovi, in quello di approdo, in grado di fargli acquisire un’identità collettiva. In rapporto ai rifugiati e, in generale, a quelle frange di popolazione altra dal “noi” e marginalizzata, emerge un’ulteriore distinzione tra: i nonluoghi dell’abbondanza (quali ipermercati e centri commerciali), che tendono a diventare, per alcuni frequentatori, veri e propri luoghi, e i nonluoghi della miseria (come i campi profughi e centri di accoglienza), in cui è impossibile una loro riconversione in luoghi, poiché concepiti come contesti nei quali l’identità è pericolosa per chi ci vive, in quanto espone al rischio costante di espulsione o incarcerazione.

Nella realtà la distinzione tra luoghi e nonluoghi è spesso molto labile, raramente infatti essi esistono in forma pura e, sempre più spesso, sono interrelati al punto che la possibilità del nonluogo è costante in qualsiasi luogo, per via della compresenza nello spazio sociale di luoghi della solitudine, della non permanenza e dell’interazione strumentale e contrattuale (Augé, 1996).

 

1.3.3 L’atto dell’abitare

Il termine “abitare” deriva dal latino “habère” che letteralmente significa “continuare ad avere” e, comunemente, si riferisce all’“avere consuetudine in un luogo”, pertanto caratterizza l’atto dell’abitare in un arco di tempo lungo, potenzialmente permanente. Heidegger (1950), partendo dal termine tedesco “bauen”, che significa “costruire”, ma originariamente significava “abitare”, mette in relazione l’atto di costruire con quello di abitare e, in ultima analisi, con quello di essere: abitare e costruire partecipano all’atto stesso con il quale l’uomo fonda uno spazio, lo trasforma, lo cura e lo rende luogo in cui riconoscersi e, quindi, esserci e stare nel mondo. Abitare, quindi, come espresso da La Clecla (1993), significa creare un’abitudine ad un luogo, interessarsi alla sua specificità, assumere un comportamento ed uno stile di vita che caratterizzano l’uomo e gli permettono di comprendere il territorio che abita. In altre parole, significa conoscere il proprio ambiente vitale, non solo attraverso la propria personale esperienza ma, soprattutto, attraverso l’esperienza pregressa della collettività: un deposito di conoscenze ed abitudini che si tramandano e, così facendo, diventano tradizione. L’atto dell’abitare, dunque, non è una condizione data ed immutata, ma un processo di continua costruzione e cura di un luogo, di relazione con l’ambiente e con gli individui che condividono il medesimo spazio e, quindi, di incessante produzione di narrazioni. Se non vi è separazione tra gli individui e lo spazio vitale, l’abitare assume, inoltre, la valenza di luogo sentito, non soltanto costruito, ed orienterà i vissuti di chi lo abita (La Cleca, 1993).

L’atto di abitare e, di conseguenza, quello di costruire non sono però circoscritti ad un luogo fisso nel tempo; i luoghi, infatti, possono nascere e sopravvivere solo attraverso una costante relazione con l’esterno (La Cleca, 1988); questi, inoltre, sono proiettati all’esterno anche per la continua tensione conflittuale dettata dalla conquista di nuovi spazi: abitare e costruirerappresentano due azioni fondanti di un medesimo atto che è quello di acquisire nuovi spazi, pur continuando a costruire il proprio luogo (Sobrero, 1998).

Il concetto di “abitare” rimanda a quello di “abitazione” che, nell’odierna società dei consumi, rappresenta essenzialmente un bene; tuttavia, l’abitazione, meglio intesa col suo sinonimo di “casa”, rappresenta anche un bisogno, oltre che materiale, soprattutto simbolico, poiché fornisce un orizzonte di significati attraverso il quale l’individuo può riconoscere i valori che lo hanno guidato nel passato.16 Il bisogno abitativo nasce con l’individuo, in risposta all’esigenza di avere uno spazio proprio in cui svolgere la propria esistenza, e prosegue e matura nel tempo accompagnandosi al bisogno di auto-rappresentazione; l’esperienza dell’abitare, dunque, concorre alla costruzione dell’identità e l’analisi del bisogno abitativo rappresenta un valido strumento conoscitivo per indagare il sia il “noi”, sia l’alterità.

L’abitare, nell’ottica dei rapporti tra il singolo e le istituzioni, si esplica con forza attraverso il concetto di “residenza” che consente: il riconoscimento del soggetto, il suo raggiungimento e la sua tutela attraverso la fruizione dei servizi. Unitamente all’assistenza, la residenza conferisce all’individuo una legittimazione giuridica che consente alle istituzioni sia di garantirgli rappresentanza politica, sia di esercitare su di esso forme di controllo; ne consegue che la perdita della residenzialità comporta svariate forme di esclusione sociale e politica (Bindi, 2000). Ecco che il non possedere una residenza si configura come un ampio contesto di privazione: il cittadino senza residenza è un cittadino senza diritti, privo di appartenenza culturale e di legami con il territorio. Tale situazione di privazione è spesso scardinata dal luogo in cui l’individuo effettivamente svolge la propria esistenza: sempre più la residenza non corrisponde al domicilio e questo, da solo, non garantisce al cittadino un suo riconoscimento completo da parte delle istituzioni e lo stesso accesso ai servizi possibile dalla residenza. Ne consegue che la residenza è un fattore di identità istituzionale indipendentemente dal luogo vissuto dall’individuo e la sua eventuale perdita condanna il soggetto ad essere privato della rappresentatività istituzionale che, ad oggi, è l’unico canale possibile per garantirsi, quanto meno potenzialmente, un completo accesso al welfare (Bindi, 2000).

L’esperienza dell’abitare, in definitiva, coinvolge non solo lo spazio della casa, ma anche quello ampio e relazionale dei paesaggi urbani, del territorio tutto, al punto che questa può, a ragione, essere intesa come forma di conoscenza profonda del territorio in cui si vive (La Cecla, 1993). Il riconoscere l’esperienza dell’abitare al contesto ampio del territorio, potrebbe essere un valido strumento per scongiurare il rischio della proliferazione dei nonluoghi. Nella surmodernità, infatti, la possibilità per l’uomo di perdersi nello stesso ambiente in cui vive è costante: ritrovarsi fuori luogo e spaesato, essere esattamente dove si vuole ma non sapendo dove si è (La Cleca, 1988). Il territorio, perdendo il suo legame con l’individuo che lo vive, diventa un luogo in cui si abita a vuoto, in cui i comportamenti sono indotti e vi è una completa mancanza di attenzione al mondo circostante, con la conseguenza di una perdita totale dei luoghi dell’accoglienza, in cui è possibile l’incontro.17

 

 

1.4 La progettazione sociale tra mappe e territorio

In un contesto sociale come quello attuale, in cui il rischio dell’esclusione e marginalizzazione sociale è costante, gli spazi e le relazioni sono continuamente rinegoziati, il rapporto degli individui con il proprio territorio è sempre più virtuale ed agiscono relazioni di potere egemoniche. Fare progettazione sociale implica operare in un territorio “liquido” ed in costante mutamento con lo scopo di ridurre il rischio della marginalizzazione ed esclusione dell’individuo dalla propria comunità, garantendogli il diritto di poter agire sul proprio territorio e, dunque, sulla propria realtà. Il compito della progettazione sociale è dunque quello di ridistribuire i valori in una data società, affinché sia garantito un equo accesso alle risorse del suo territorio. Questo tipo di progettazione infatti può dirsi sociale solo se non trascende la dimensione locale, solo se prende in considerazione le reti locali attive in un determinato territorio, unitamente a quelle nazionali ed internazionali, poiché sono queste a creare i territori.18 Il presupposto della progettazione è dunque la conoscenza del territorio in cui intende operare ma, dal momento che esso è incerto e mutevole, la possibilità stessa di conoscerlo è messa in dubbio. Con l’avvento della post-modernità e surmodernità (vedi 1.1) la pretesa di attribuire un significato univoco alla realtà ha perso valore,19 lasciando il passo all’“epistemologia del dubbio”20 che mette in discussione la conoscenza ontologica, ossia la possibilità stessa di conoscere univocamente e definitivamente l’oggetto che si osserva. Ne consegue che il ricercatore potrà conoscere del territorio solo ciò che gli permette di formulare una mappa: una delle possibili ed infinite interpretazioni e rappresentazioni del territorio che, dato il suo carattere mutevole per le variabili casuali, sarà valida solo per un tempo dato corrispondente a quello dell’osservazione. Nonostante ciò, la possibilità di conoscere il territorio tramite mappe è un valido strumento per far fronte ai numerosi problemi, in fatto di percezione, sorti con l’aumento della complessità del contesto sociale a partire dal XX secolo (vedi 1.1). Uno dei primi teorizzatori delle mappe come strumenti conoscitivi è Lynch (2006) che, alla fine degli anni ’80, concepisce le mappe urbane per mettere in luce la modalità con cui la gente immagina le città. Egli parte dall’assunto che gli individui, per orientarsi nei contesti urbani, utilizzino mappe mentali e che, per l’individuazione del percorso, facciano ricorso all’immagine ambientale, ovvero una mappa generalizzata del mondo fisico esterno. Questa immagine è il prodotto di una sensazione immediata e del ricordo delle esperienze passate; quando viene meno la capacità dell’individuo di costruire per sé tale immagine emerge la condizione che Lynch definisce “illeggibilità” del territorio, per la quale l’uomo vede compromesse le funzioni vitali di: orientamento, identificazione dei luoghi, relazione con lo spazio emotivamente sicura e produzione di simboli aggreganti per una comunità che permettono la comunicazione tra i suoi membri.

Per quanto concerne invece l’utilizzo di mappe a livello epistemologico, Bateson (1999, 2001) fa emergere come la costruzione di mappe sia l’unico strumento possibile per conoscere, approssimativamente, un territorio e che, essendo la mappa l’unico oggetto conoscibile, la mappa coincide con il territorio. Ne consegue che la mappa comunicherà la relazione che il ricercatore instaura con il territorio e che è l’esperienza che l’osservatore fa con il territorio a trasformarsi in conoscenza. Ciò che si riporta sulla mappa sono essenzialmente le differenze poiché, se un territorio fosse uniforme, nulla verrebbe trasferito sulla mappa eccetto i suoi confini (Bateson, 2001:492); il ricercatore dunque, in una mappa, procede per negazioni e, in definitiva, misura la distanza tra ciò che non corrisponde alla realtà e ciò che potrebbe corrispondere (Bateson, 1999:42).

Dati i limiti finora esposti, risulta necessario integrare i dati quantitativi e statistici con dati qualitativi che meglio riescano ad individuare ciò che si osserva (pur consapevoli del fatto che non corrisponde alla realtà) e a fornire informazioni in merito all’orientamento e alle tendenze delle azioni nel contesto osservato. Si tratta di quella che Geertz (1998a) definisce “descrizione densa” che, orientata sul punto di vista emico e sul contesto dell’azione, è in grado di cogliere e restituire la differenza.

Una mappatura che possa dirsi valida quindi è il frutto di una ricerca etnografica che, mediante l’integrazione di dati secondari e dati qualitativi, rileva e restituisce la dinamica e la tendenza delle azioni osservate. La ricerca etnografica costituisce pertanto il punto di partenza delle attività di progettazione ma anche una costante in ogni stadio di quest’ultime: le fasi della ricerca sono immanenti nella progettazione e si susseguono in un processo ricorsivo che permette alla ricerca e alla progettazione di rendersi un percorso continuo di apprendimento.21

La progettazione sociale necessita di conoscere il territorio, nelle possibilità fin qui descritte, nella maniera più esaustiva completa, mettendo in luce anche le relazioni di forza che lo attraversano. Progettare e gestire un territorio è uno dei compiti delle Istituzioni e rientra nel sistema di consenso che queste mettono in atto, ne rappresenta la sua riproduzione e contribuisce a generare forme di controllo sociale. Le istituzioni infatti offrono legittimazione ed ottengono il consenso da parte di quella porzione di società civile che, di volta in volta, risulta destinataria delle sue attenzioni mediante la realizzazione di progetti e/o sotto forma di erogazione di fondi tramite bandi. Ne consegue che gestire un territorio ed attivare su di esso azioni di progettazione equivale ad inserirsi nel sistema di delega-rappresentanza e legittimazione-consenso, che sta alla base delle relazioni che le istituzioni intrattengono con i cittadini.  

Il territorio è dunque il risultato di una mappa creata egemonicamente con il sistema di deleghe,22 pertanto chi progetta socialmente è un operatore degli operatori del consenso che interviene per diminuire il divario che si crea tra rappresentazioni e rappresentatività.23 Questo operatore è il progettatore sociale: un mediatore tra le istanze delle Istituzioni e quelle della società civile che si attiva per far comunicare i bisogni della seconda con le prime, soprattutto nei contesti di marginalità ed esclusione sociale dove l’interlocuzione con i referenti politici è complicata e le necessità e i bisogni trovano difficoltà ad emergere.

La figura del progettatore sociale va distinta da quella del semplice progettista: mentre quest’ultimo è colui che tecnicamente scrive un formulario di progetto e che è avulso dalla ricerca sociale (si tratta spesso di tecnici esterni alla realtà in cui operano), il progettatore sociale intrattiene un rapporto necessario con la ricerca ed è interno alla realtà attraverso azioni di osservazione partecipante.24 In altre parole: i progettisti rappresentano indicatori di efficienza, ossia di potenzialità senza applicazione, mentre i progettatori sono indicatori di efficacia che, nel loro lavoro, producono un cambiamento fattivo.25

La progettazione sociale, affinché sia efficace e produca un cambiamento sul territorio, deve essere il più possibile partecipata. Dal momento che la mappa è un’elaborazione culturale ed ogni mappatura è il passaggio da una mappa all’altra, è il modo in cui si cambia una mappa che produce un cambiamento sul territorio. La modifica di una mappa può produrre risultati non ripercorribili o, al contrario, essere un’azione ripercorribile poiché implica il coinvolgimento degli attori e delle Istituzioni.26 In quest’ultimo caso la possibilità di modificare nei fatti un territorio è maggiore. L’obiettivo della progettazione dunque è il progetto del cambiamento che, se è partecipato, è più efficace.27 Tale processo equivale ad integrare, nei metodi della progettazione sociale, la ricerca-azione, ovvero quel modo di concepire la ricerca per il quale fondamentale è l’analizzare una pratica, relativa ad un campo di esperienza, coinvolgendo gli attori sociali affinché questi possano condividere e partecipare alla ricerca delle azioni volte ad introdurre dei miglioramenti nella pratica stessa.28 Uno degli scopi della mappatura è proprio quello di trovare gli indicatori giusti per valutare ed orientare l’intervento.

La mappa è efficace, inoltre, quando è il risultato di un’azione di mappatura agita su una mappa precedente, cioè quella dei bisogni; per questo motivo è necessario coinvolgere gli attori sociali portatore di interessi e bisogni, i cosiddetti stakeholders, del resto, sono questi a richiedere le competenze di gestione territoriale ai progettatori, non viceversa; analogamente, le istituzioni devono eseguire, non decidere, un piano di mappatura ed intervento basato sui bisogni di coloro che dovrebbero rappresentare.29

In qualsiasi intervento di progettazione sociale e gestione del territorio, il coinvolgimento degli stakeholders è di fondamentale importanza poiché questi rappresentano la memoria del territorio e ne sono i rappresentanti. La memoria è la sequenza delle mappe che si sono susseguite in un territorio ed è detenuta da chi ha la gestione di un territorio. Dal momento che, nella società attuale, la distanza tra Istituzioni (delegate alla gestione dei territorio) e la società è sempre più ampia, si assiste ad una mancata tutela della memoria e, sempre più spesso, ad una sua perdita. La memoria è pertanto manipolata, persa e mal restituita dalle istituzioni (le quali invece dovrebbero esserne i garanti) è, per tal motivo, rappresenta l’esito di rapporti di egemonia. L’obiettivo della progettazione è quello di cambiare questi rapporti coinvolgendo gli stakeholders; si tratta di una vera e propria azione politica in grado di generare un cambiamento tangibile sul territorio. In generale, la progettazione ha lo scopo di sopperire al rischio di perdita della memoria poiché, nonostante rappresenti un’azione proiettata al futuro, poggia le sue fondamenta nel passato.30

Affinché la progettazione sia partecipata e risponda ai bisogni della collettività, è necessario che questa scongiuri il rischio di costruire mappe egemoni e garantisca percorsi di democrazia “dal basso” efficaci, rivalutando e rivalorizzando il senso di appartenenza degli individui ad una comunità e ad un territorio. Il rischio che siano costruite mappe egemoni non è imputabile unicamente ad un operato scorretto da parte delle Istituzioni, nel non curare gli interessi della collettività, ma può essere anche l’esito della ricerca e progettazione stessa. Una delle insidie che chi fa progettazione sociale deve affrontare, infatti, è la presenza di una gerarchia di valori che rende impossibile, per il ricercatore, la neutralità e l’obiettività, poiché ogni epistemologia è sempre personale (Bateson, 1999:48-49). Ne consegue che a veicolare visioni soggettive della realtà non sono soltanto gestioni malsane del territorio da parte di chi lo governa, ma persino un processo conoscitivo partecipativo quale quello della progettazione sociale. Un modo per arginare questa deriva è rendere la progettazione partecipata un processo educativo che risponda alle regole della ricerca-azione. Questo è il caso, ad esempio, dei Piani di Zona e dei Tavoli partecipati previsti dalla legge 328 del 2000 che, basata sul concetto di sussidiarietà orizzontale, rappresenta il principale strumento normativo in grado di delegare la gestione del territorio mediante la compartecipazione di più soggetti. Nello specifico, con i Piani di Zona e i Tavoli partecipati, si è proceduto a coinvolgere i cittadini in qualità di attori del cambiamento e promotori di innovazione e sviluppo sul territorio e, in tal modo, questi prendono parte attiva alla progettazione e al mutamento che ne consegue. L’intento è quello di rendere la progettazione un processo educativo nel quale: si dia riscontro alla dinamicità delle relazioni e del contesto; si coltivi una prospettiva dialogica e critica e la si metta in pratica attuando cambiamenti nella realtà. Tramite questo approccio, la conoscenza diventa azione per poi ritornare conoscenza, garantendo la ricorsività propria dei processi di apprendimento.

In definitiva, fare progettazione sociale vuol dire approcciarsi ad un lavoro complesso di concertazione in cui il progettatore non soltanto dovrà conoscere il territorio e le relazioni di forza che lo attraversano e mediare tra le istanze della società civile e quelle delle Istituzioni, ma dovrà anche essere in grado di favorire il dialogo e la condivisione di temi, bisogni e percezioni, tra gli attori sociali, condividendo con quest’ultimi, a sua volta, la medesima mappa e visione del territorio e dei bisogni.

Fine ultimo del fare progettazione è scongiurare l’esodo inarrestabile verso il nonluogo globale e inglobante che si innesta innanzitutto in noi, ossia nella nostra incapacità di accogliere l’altro empaticamente perché oramai incapaci di accogliere noi stessi, perpetuiamo inconsapevolmente la negazione della memoria e, con essa, delegittimiamo i territori privandoli della loro storia. Ne consegue che la mappa è il territorio, che senza memoria non vi può essere alcun territorio e che la memoria stessa si costituisce quale progetto etico.

 

2. IL LUOGO


 

Il Centro Vittorio è situato nel quartiere di Ostia Ponente (che corrisponde alla zona urbanistica di Ostia Nord), all’interno del Lido di Ostia, frazione che, assieme ad altre, costituisce il territorio del X Municipio di Roma Capitale (ex XIII Municipio).

Nell’immaginario identitario della popolazione romana il Centro Vittorio è un luogo eletto a simbolo del passato e del presente di Ostia, comunemente intesa, quest’ultima, come somma del quartiere di Ostia Ponente e di Ostia Levante.31

Sulla base dei presupposti sopracitati, si procederà nel primo paragrafo ad una descrizione del contesto del X Municipio incentrata sulla frazione del Lido di Ostia e le zone urbanistiche di Ostia Nord ed Ostia Sud; nello specifico ci si soffermerà sulla struttura urbanistica ed amministrativa, sulla storia del territorio, sui dati demografici (con particolare attenzione alla popolazione straniera residente) e sui servizi di natura prevalentemente sociale rivolti ai cittadini presenti nelle zone di riferimento.

Nel secondo paragrafo si offrirà invece una descrizione del contesto particolare del Centro Vittorio e della sua storia, unitamente ad un'esposizione dei cambiamenti che, nel corso del tempo, sono intercorsi mutando i connotati di questo luogo fino a fargli assumere il volto che oggi ci presenta. La prima parte di questo capitolo sarà dunque dedicata alla descrizione del contesto generale oggetto di studio e si basa su fonti secondarie, ossia dati quantitativi raccolti nel circuito delle reti formali. Per la natura di questa tipologia di dati e di fonti, si farà riferimento principalmente alle narrative sul territorio ufficiali ed istituzionali, così come disponibili alla collettività, dunque passibili di alterazioni o non completamente rispondenti alla realtà di fatto (date le fonti corrispondenti o intrinsecamente connesse ai sistemi di potere). La seconda parte verterà invece sulla descrizione del contesto specifico oggetto del presente studio e, basandosi su fonti sia secondarie sia primarie, cioè su dati quantitativi (come sopra descritti) e su dati qualitativi,32 offrirà una prima comparazione tra una descrizione del luogo così come ci viene offerta “dall’alto” (dalle istituzioni e dai sistemi di potere in genere) e una descrizione dello stesso pervenutaci “dal basso”, cioè dalle fonti primarie rintracciabili nei cittadini di Ostia (alcuni dei quali rappresentanti di servizi dedicati alla collettività) e nei residenti del Centro Socio-abitativo.

In definitiva si esporrà una descrizione del luogo oggetto d’indagine nella sua accezione di luogo istituzionale e, in funzione delle trattazioni successive, si delineerà una preliminare narrazione dello stesso nella sua accezione di luogo antropologico.

 

 

2.1 Ostia: descrizione del contesto generale

2.1.1 La struttura urbanistica ed amministrativa

Il X Municipio di Roma Capitale è stato istituito dall’Assemblea Capitolina l’11 marzo del 2013 ed ha ufficialmente sostituito, come esito di una politica comunale di accorpamento dei municipi, il precedente XIII Municipio, già circoscrizione XIII.33 A livello amministrativo, il territorio del X Municipio è suddiviso in varie frazioni tra le quali figura quella litoranea del Lido di Ostia che storicamente costituisce il comprensorio dei cosiddetti “quartieri marittimi” di cui fanno parte: il Lido di Ostia Ponente, il Lido di Ostia Levante e il Lido di Castel Fusano. Quest’ultime corrispondono a tre delle dieci zone urbanistiche in cui è diviso ulteriormente il territorio: Ostia Nord (Lido di Ostia Ponente), Ostia Sud (Lido di Ostia Levante) e Castel Fusano (Lido di Castel Fusano).

Lido di Ostia si sviluppa principalmente lungo un ampio lungomare che si affaccia sul Mar Tirreno ed è delimitata a nord con la foce del Tevere, accanto alla quale si estende la zona dell'Idroscalo, e a sud dal Lido di Castel Fusano, nel cui territorio si sviluppa l'omonima pineta che rappresenta uno dei primi parchi aperti al pubblico della zona.34

L'intero territorio, che si estende su uno spazio di 15.3603 km2, è collegato alla Capitale dalla Ferrovia Roma-Lido e dagli assi viari fondamentali della via Ostiense, della via del Mare e della via Cristoforo Colombo, mentre la via Litoranea conduce al litorale meridionale. L'assetto viario del territorio si completa con il lungomare Paolo Toscanelli da cui si irradiano strade, per buona parte ortogonali, sul resto della città. Tale impostazione risale parzialmente al piano urbanistico istituito nel 1926 che, col suo impianto razionalista, divise il territorio in una fascia lungo il mare, con villini utilizzati soprattutto come residenze estive dai romani abbienti, e in una fascia residenziale dedicata alla popolazione operaia, in risposta allo sventramento che interessò in quegli anni i rioni storici del centro romano.35 Malgrado tale impostazione urbanistica di tipo razionale, il tessuto residenziale, nel tempo, si è caratterizzato per la presenza di numerose costruzioni non a norma, tanto che il X Municipio è attualmente quello, tra i municipi del comune di Roma Capitale, che presenta più abusi edilizi.36

Come già accennato all’inizio del presente capitolo, nonostante le numerose ed eterogenee suddivisioni amministrative, è un dato di fatto che ci si riferisca alle zone di Ostia nord e di Ostia sud, semplicemente con il termine “Ostia” o, per differenziarla da Ostia Antica, con il termine “Ostia Lido”, rivendicando di fatto una loro indipendenza informale dal resto del X Municipio ed una valenza di tessuto cittadino unitario. Non è un caso che, negli ultimi decenni, ben due siano stati i referendum indetti che hanno riguardato proposte di distacco di Ostia da Roma: il primo nel 1989, dove ha prevalso il “NO”, e il secondo, nel 1999, dove non si raggiunse il quorum.37 Nonostante gli esiti negativi dei due referendum, una maggiore autonomia amministrativa di Ostia è rimasta una necessità negli anni a seguire tanto che, nel 2008, è stato stilato un progetto chiamato “Patto per Ostia e il XIII Municipio” che è confluito, il 24 novembre del 2009, in un accordo per il decentramento siglato tra l'allora presidente del Municipio Giacomo Vizzari e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. L'accordo, approvato con delibera in Campidoglio il 19 aprile del 2011, è entrato ufficialmente in vigore il 14 maggio dello stesso anno in forma di “Regolamento speciale del decentramento amministrativo”38 e prevedeva: una maggiore autonomia del Municipio nella formulazione e gestione dei bilanci; l'istituzione di una Commissione di consultazione Roma-Municipio per le materie afferenti al terzo settore; l'autonomia di gestione e progettazione riguardante le aree verdi; un'ampia autonomia in fatto di organizzazione, gestione e progettazione di tutti i servizi sociali. Tuttavia questo percorso di autonomia politica ed amministrativa ha subito una battuta d'arresto con lo scandalo di “Mafia Capitale”39 che ha visto implicato il presidente del municipio Andrea Tassone, dimessosi il 18 marzo 2015 e sottoposto agli arresti domiciliari poco più di un mese dopo. In sostituzione di Tassone, il Sindaco di Roma assegna ad Alfonso Sabella la delega sul litorale di Ostia, fino a quando, il 27 agosto del 2015, la giunta del X Municipio è sciolta per infiltrazioni mafiose e viene istituito dapprima il commissariamento municipale, successivamente il commissariamento prefettizio con a capo Domenico Vulpiani.

 

2.1.2. La storia

Secondo la leggenda, Ostia sorge nei luoghi dove avvenne lo sbarco di Enea, fondatore di Roma e progenitore dei romani; tuttavia, la fondazione della città è attribuita ad Anco Marzio che, alla foce del Tevere, precisamente nella zona che oggi conosciamo come Ostia Antica, fondò la prima colonia romana40 con il nome di “Ostia”, parola di origine latina traducibile per l’appunto con “porta” o “imboccatura del fiume”.41

Il centro abitato attuale si sviluppò sulla riva sinistra del Tevere (spostandosi, rispetto ad Ostia Antica, a circa sei chilometri verso il litorale)42, a partire dal XIX secolo, con la costruzione di abitazioni per i coloni ravennati giunti sul territorio per l’avvio di opere di bonifica nella zona circostante.43 La colonia dei romagnoli, organizzata in cooperative agricole, si insediò oltre le cerchia delle mura del piccolo borgo medievale di Ostia Antica e procedette, a partire dal 1884, alla bonifica delle paludi malariche note come Stagno di Ostia.44 Sul finire del XIX secolo i terreni, ormai bonificati, furono oggetto di svariati tentativi di coltivazione che, a causa della salinità residua della terra, non ebbero mai successo; per tal motivo fu necessario riconvertire Ostia alla sua originaria vocazione di luogo di mare e, sulla base di un piano regolatore approvato nel 1909 (poi aggiornato nel 1916 con il nome di “Piano di Ostia”),45furono avviati i lavori per la costruzione del lungomare (l’allora “Viale della Marina”) che, con la partecipazione attiva delle cooperative dei ravennati, dalla foce del Tevere giunse sino alla Pineta di Castel Fusano.46

Il territorio assunse i connotati di città a partire dagli anni ‘20 del ‘900, soprattutto dopo la costruzione della linea ferroviaria elettrica e dell’autostrada (la “Via del Mare”) che collegarono il nascente centro alla capitale.47

Durante il ventennio fascista Ostia prese ufficialmente il nome di “Lido di Roma” e fu eletta a simbolo della “nuova Italia” nata dalla rivoluzione dei fasci, tanto intensa fu la politica di popolamento della zona, facilitata, oltre che dalla’inaugurazione della ferrovia e dell’autostrada, soprattutto dall’istituzione di un nuovo piano regolatore, nel 1926, e dalla progettazione e/o costruzione di importanti infrastrutture ed edifici: l’idroscalo Carlo del Prete; l’acquedotto che si originava dalla via Prenestina; la Via Imperiale (oggi Via Cristoforo Colombo); l’imponente stabilimento balneare “Roma”; la chiesa Regina Pacis.48

Lo sviluppo di Ostia si arrestò con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’occupazione tedesca che determinarono non soltanto l’arresto dei cantieri delle opere pubbliche, ma anche la distruzione di parte della ferrovia e di varie strutture, tra le quali lo stabilimento balneare “Roma”.49

Il fenomeno di conurbazione residenziale di Ostia riprese con la ricostruzione postbellica ma con nuovi presupposti: la città non è più un satellite della capitale, un centro balneare e un quartiere per villeggiature, ma acquisisce forma di città indipendente. Su questa base, nel 1949, il consiglio comunale modifica ufficialmente il nome della città che, da “Lido di Roma”, assume l’attuale denominazione di “Lido di Ostia”.50

Durante gli anni ’60, fino agli anni ’90, il Lido di Ostia conobbe un’intesa crescita demografica, al pari di un crescente degrado ambientale, per via, soprattutto, di un’incontrollata erosione costiera.

A partire dall’ultimo decennio del ‘900, una forte espansione urbanistica incentivò il sorgere di insediamenti residenziali unifamiliari tra la fascia dei villini sul lungomare e le borgate della periferia, attutendo cosi l’isolamento di queste ultime; furono inoltre promosse opere di ricostruzione delle spiagge erose, di restauro degli stabilimenti balneari e di realizzazione di strutture di pubblico utilizzo.51 Questo sviluppo si protrasse fino agli anni 2000 con la costruzione del porto turistico e la tutela delle dune e della flora mediterranea di svariate spiagge libere.52

2.1.3 I dati demografici

La popolazione complessiva del X Municipio ammonta a 230.544 abitanti e le zone di Ostia Nord ed Ostia Sud sono le più popolose con, rispettivamente, 45.334 e 37.119 abitanti,53 per un totale di 82.453 residenti.54

L’ammontare dei residenti e una porzione di anziani al di sopra dei 65 nettamente inferiore rispetto al totale comunale fa della popolazione del X Municipio una tra le più giovani e numerose della Capitale.55 Tuttavia, se si analizzano i dati specifici di Ostia Nord ed Ostia Sud, si riscontra un trend opposto: le due zone presentano la maggiore incidenza di popolazione anziana oltre i 65 anni e la minore incidenza di bambini la di sotto dei tre anni d’età.56

Per quanto concerne la popolazione straniera del X Municipio, questa si concentra nelle zone di Ostia Nord ed Ostia Sud dove, quella iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015, ammonta a 8.720 abitanti.

Di seguito, in dettaglio, i dati disaggregati per zona e sesso, messi a confronto con quelli relativi alla popolazione italiana:

 

Popolazione straniera e italiana iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015

per zona urbanistica e sesso

TAB. 2.1

Zone urbanistiche

Popolazione straniera

Popolazione italiana

Popolazione straniera e italiana

M
F
MF
M
F
MF
M
F
MF

Ostia Nord

2.446
2.642
5.088
19.055
21.191
40.246
21.501
23.833
45.334

Ostia Sud

1.652
1.980
3.632
15.879
17.608
33.487
17.531
19.588
37.119
Totale
4.098
4.622
8.720
34.934
38.799
73.733
39.032
43.421
82.453

FONTE: Roma Statistica – ufficio di statistica di roma capitale

 

 

Incidenza della popolazione straniera sul totale della popolazione straniera e italiana

iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015 per zona urbanistica e sesso57

TAB. 2.2

Zone Urbanistiche

Popolazione straniera

M
%
F
%
MF
%

Ostia Nord

2.446
2,97
2.642
3,2
5.088
6,17

Ostia Sud

1.652
2
1.980
2.4
3.632
4,4
Totale
4.098
4.97
4.622
5.6
8.720
10,57

FONTE: Roma Statistica – ufficio di statistica di roma capitale

 

Come si evince dalle tabelle n.2.1 e n.2.2, la popolazione straniera residente delle zone di Ostia Nord ed Ostia Sud è a maggioranza femminile, più alta nella prima zona ed ha un’incidenza, sul totale della popolazione delle due zone urbane (straniera ed italiana), pari al 10,57%; dato questo lievemente superiore all’incidenza della popolazione straniera registrata per l’intero municipio (10,4%)58, ma inferiore a quella registrata per la Capitale (12,73%)59.60

Per quanto concerne l’età, la popolazione straniera di Ostia Nord ed Ostia Sud, in linea con quella totale del X Municipio,61 si concentra principalmente nelle classi di età che vanno dai 30 ai 49 anni, pari al 48,13% della popolazione straniera totale, come di seguito riportato nei dettagli:

 

Popolazione maschile e femminile straniera iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015

per zone urbanistiche e classi di età quinquennali

TAB. 2.3

Zone urbanistiche

Classi quinquennali - maschi e femmine straniere

0-4
5-9
10-14
15-19
20-24
25-29
30-34
35-39
40-44
45-49
50-54
55-59
60-64
65-69
70-74
75-79
80-84

Ostia Nord

275
291
229
194
217
406
564
707
655
547
380
317
159
69
29
25
15

Ostia Sud

159
188
143
144
136
321
421
472
415
418
319
203
158
70
29
18
10
Totale
434
479
372
338
353
727
985
1.179
1.070
965
699
520
317
139
58
43
25

incidenza %62

4,98
5,48
4,27
3,88
4,05
8,34
11,29
13,51
12,26
11,07
8,02
5.95
3,63
1,58
0,66
0,48
0,29

FONTE: Roma Statistica – ufficio di statistica di roma capitale

Se si analizzando i dati sulla base di particolari classi di età, però, si rileva come i residenti stranieri minorenni rappresentino una porzione di popolazione straniera non indifferente, la maggior parte della quale si concentra nella classe d’età dagli 0 agli 11 anni (pari al 12,10% del totale della popolazione straniera), nello specifico:

 

Popolazione maschile e femminile straniera iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015

per zone urbanistiche e particolari classi di età

TAB. 2.4

Zone urbanistiche

Particolari classi di età

 

<1
<3
=5
=6
0-11
6-13
=14
14-17
=65

 

Ostia Nord

57
161
58
57
660
429
33
153
10

 

Ostia Sud

16
102
35
38
396
269
27
110
19

 

Totale
73
263
93
95
1.056
698
60
263
29

 

incidenza %63

0,84
3,02
1,07
1,09
12,1
8
0,69
3,07
0,32

 

 

FONTE: Roma Statistica – ufficio di statistica di roma capitale

 

La popolazione straniera residente nel territorio oggetto di analisi è prevalentemente non coniugata, tuttavia il distacco di questa con la porzione celibe/nubile non é marcato; mentre risulta minima l’incidenza sul totale dei cittadini stranieri vedovi/e e divorziati/e (rispettivamente 1,64% e 3,46%); nel dettaglio:

 

Popolazione maschile e femminile straniera iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015

per zone urbanistiche e stato civile

TAB. 2.5

Zone urbanistiche

Stato civile - maschi e femmine stranieri

Celibi/Nubili
Coniugati/e
Vedovi/e
Divorziati/e

Ostia Nord

2.562
2.270
84
172

Ostia Sud

1.840
1.602
59
131
Totale
4.402
3.872
143
303

incidenza %64

50,47
44,39
1,64
3,46

 

FONTE: Roma Statistica – ufficio di statistica di roma capitale


 

Infine, prendendo in esame la variabile rappresentata dalla cittadinanza, si evince che la popolazione straniera residente nelle zone di Ostia Nord ed Ostia Sud è per la maggior costituita da rumeni (34,73%), seguiti da polacchi (11,01%), egiziani (10,93%), ucraini (7,17%), filippini (3,5%) e bangladesi (3,45%). Di seguito i dati, nel dettaglio, relativi alle dieci cittadinanze dei residenti stranieri più rappresentate nelle due zone di riferimento:

 

Popolazione straniera maschile e femminile iscritta in anagrafe al 31 dicembre 2015

per zona urbanistica e cittadinanza

TAB. 2.6

Cittadinanza

Continente politico

 

Zona urbanistica - Maschi e Femmine

Ostia Nord

Ostia Sud

Totale

incidenza %65

ROMANIA

EUROPA COMUNITARIA

1.834
1.196
3.030
34,73
POLONIA

EUROPA COMUNITARIA

533
427
960
11,01
EGITTO
AFRICA
527
426
953
10,93
UCRAINA

EUROPA NON COMUNITARIA

335
290
625
7,17
FILIPPINE
ASIA
201
104
305
3,5
BANGLADESH
ASIA
190
112
302
3,45
MOLDOVA

EUROPA NON COMUNITARIA

161
106
267
3,05

REP. POP. CINESE

ASIA
177
59
236
2,71
PERU'

AMERICA DEL SUD

120
77
197
2,26
ALBANIA

EUROPA NON COMUNITARIA

72
81
153
1,74

 

FONTE: Roma Statistica – ufficio di statistica di roma capitale

 

Se tali dati sono però accorpati in base al continente politico di provenienza vediamo come, in generale, gli stranieri residenti ad Ostia Nord ed Ostia Sud sono per più della metà europei comunitari ed europei extracomunitari, per la restante parte si rileva una maggioranza di africani, seguita da asiatici, americani del centro-sud e percentuali minime di apolidi e individui provenienti dai restanti continenti.66

 

2.1.4 I servizi offerti alla popolazione

I servizi afferenti al terzo settore, a gestione prevalentemente municipale o associazionistica, presenti nelle zone di Ostia Nord ed Ostia Sud sono molteplici. Per quanto concerne il settore dell’infanzia e dell’educazione il territorio conta: 4 nidi comunali, 25 scuole dell’infanzia (di cui 13 paritarie) ed 11 scuole statali.67

La popolazione afferente al settore della terza età, invece, gode di 9 centri anziani, un centro diurno per anziani fragili, 2 case di riposo e vari progetti municipali di assistenza domiciliare.68

Nell’ambito dei servizi di accoglienza di primo livello volti al contrasto di situazioni di estrema povertà, nelle zone di riferimento è attivo un servizio di accoglienza notturna e mensa gestito dalla Caritas.

Per quanto riguarda invece la tutela della salute, le zone di Ostia Nord ed Ostia Sud ricadono nel distretto sanitario X, attivo nella zona con 11 unità operative, unitamente ad un centro di salute mentale; affianco a questi servizi la popolazione gode di un ospedale con pronto soccorso, di un centro di riabilitazione per paraplegici e di 3 consultori familiari.69

Nelle zone oggetto di analisi, alto è il numero di associazioni, ampiamente diversificate per ambiti: 10 si occupano di ambiente e territorio, 12 di arte ed artigianato, 50 afferiscono all’ambito artistico e dello spettacolo, mentre oltre 60 risultano essere le associazioni culturali.70 Oltre l’operato delle associazioni, Ostia Nord ed Ostia godono dei servizi culturali offerti dai suoi 5 teatri, di cui uno comunale (il Teatro del Lido), della biblioteca Elsa Morante (anch’essa comunale) e di un canale televisivo (canale10) esclusivamente dedicato al litorale romano.71

Per quanto concerne, infine, i servizi per la popolazione riguardanti le aree naturali, nel territorio si contano ben 7 parchi, una pineta, un giardino e un’oasi della LIPU72 comprendente un parco dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini.

 

 

2.2 Il Centro Vittorio: descrizione del contesto specifico

Il Centro Vittorio nasce, originariamente, tra la prima e la seconda decade del ‘900, come colonia marina e, a seguito di molte vicissitudini che lo hanno interessato, diventa, tra gli anni ’90 e il 2000, dapprima il Vittorio occupato, centro sociale e residenziale autogestito, infine il luogo che noi oggi conosciamo: un centro in cui confluiscono servizi e persone, a vario titolo e dagli status più o meno riconosciuti a livello istituzionale.

Di seguito si esporranno i mutamenti a cui questo luogo è stato soggetto, facendo riferimento sia alle narrative istituzionali con le quali il luogo viene descritto, con l’immagine che queste costruiscono dello stesso e ci restituiscono, sia a dati qualitativi in cui centrali sono le narrative dei cittadini di Ostia e soprattutto di chi, a vario titolo, interagisce o vive il luogo; ciò nel tentativo sia di colmare lacune e discrepanze nelle memorie e narrative istituzionali (molto ampie soprattutto in merito alla storia recente del luogo) sia di ricostruire e descrivere il contesto specifico che possa essere assunto come punto di partenza per dar senso alle criticità, connesse al nostro oggetto di studio, che si esporranno nei capitoli successivi.

Si procederà dunque a descrivere il luogo, come sopra accennato, nelle sue tre tappe storiche fondamentali, corrispondenti ad altrettanti usi e connotati ad esso ascrivibili: la colonia marina Vittorio Emanuele III, il Vittorio occupato e il Centro Vittorio.

Se per la prima parte, concernente la colonia marina, è possibile reperire dati quantitativi e fonti storiche nel circuito delle reti formali, più o meno esaustive ed attendibili, per il Vittorio occupato e il Centro Vittorio le narrative istituzionali si diradano, fino a scomparire quasi del tutto, man mano che ci si avvicina alla storia recente e all’attualità; per tal motivo si colmeranno queste lacune facendo ricorso quasi esclusivamente a dati qualitativi.

 

 

2.2.1 La colonia marina Vittorio Emanuele III

La costruzione della colonia marina Vittorio Emanuele III si inserisce nel quadro della politica di urbanizzazione (vedi 1.1.2) che interessò il territorio di Ostia a partire dagli inizi del XIX secolo, allo scopo di espandere la città di Roma sul litorale. Unitamente all’edificazione dei principali assi viari e del lungomare, infatti, si procedette alla progettazione di edifici residenziali e di pubblica utilità e, in quest’ultimo ambito, fu deciso di realizzare la prima colonia marina di Ostia nella zona nord della città. La decisione di realizzazione una colonia, chiamata al tempo “Ospizio marino e colonia di profilassi”73, risale alla proposta consiliare n.659 del 1916 e il suo progetto fu affidato l’architetto Marcello Piacentini.74 I primi padiglioni furono realizzati in cemento armato direttamente sull’arenile, tra il 1916 e il 1920, e presentavano: due grandi camerate per un totale di 80 posti letto, cucine, sale per la ricreazione e refettori, per i ragazzi che vi pernottavano, e due grandi capannoni con copertura in paglia, per i restanti che usufruivano dei servizi esclusivamente diurni.75 Collegata con la capitale da autobus giornalieri, la struttura era predisposta ad accogliere ragazzi dell’intero territorio romano.

Nel 1925, nell’ambito di un piano sanitario voluto dal Governatore di Roma, fu proposto di ampliare la struttura affidandone il progetto all’architetto Vincenzo Fasolo.76 L’ampliamento della colonia si inseriva all’interno di una più generale campagna politica nazionale di salute e benessere, promossa dal regime fascista, volta ad istituire colonie soprattutto nelle località di mare, dove le giovani generazioni avrebbero potuto godere di un ambiente salubre ed adatto alla prevenzione di malattie (soprattutto quelle respiratorie) e alla cura della tubercolosi.77

I lavori di ampliamento iniziarono il 20 gennaio del 1927 e,78 conclusi il 10 aprile 1930, trasformarono la colonia in una struttura che poteva ospitare quattrocento bambini e ragazzi per tutto l’arco dell’anno. La nuova colonia, rispetto gli edifici precedenti, fu costruita al di là del lungomare per proteggerla dalle mareggiate e si ergeva imponente su quattro livelli e duecento metri in lunghezza, per un totale di 16.000 metri quadrati. Si trattava di un edificio complesso, munito, oltre che dei dormitori e delle sale originarie, anche di locali adibiti ad aule scolastiche, di un museo, di un piccolo teatro e di una cappella79.

Nello specifico, la struttura era divisa in due ali distinte: l’ala est, con le cucine, i refettori, i servizi, le aule scolastiche, gli alloggi per il personale, i saloni per le feste e una cappella; l’ala ovest, con i dormitori, il teatro e, nel seminterrato, le lavanderie, le caldaie, e l’infermeria. La struttura, così pensata, consentiva all’utenza di lasciare le scuole di Roma e continuare gli studi e la propria vita, senza stravolgimenti, per tutto il periodo della loro cura.80 Difatti la colonia era gestita dalle suore della Carità di San Vincenzo che si occupavano, oltre che delle cure sanitarie, di impartire l’istruzione elementare e l’educazione ginnica ai ragazzi sulla spiaggia antistante l’edificio.81

I lavori di ampliamento ripresero nel 1932, quando fu progettato un sottopassaggio che, correndo al di sotto del lungomare, univa il nuovo fabbricato con quello preesistente sul litorale (adibito al solo soggiorno diurno con verande sul mare e recinzioni della spiaggia), per consentire ai bambini un attraversamento della strada sicuro.82

L’inaugurazione ufficiale della colonia risale al 24 gennaio del 1932, quando, in presenza della regina Elena di Savoia, la struttura assunse ufficialmente il nome di “Ospizio marino e colonia profilattica Vittorio Emanuele III”,83 in onore del 25° anniversario di regno del marito, coincidente con l’inizio dei lavori di ampliamento.84

Durante la seconda guerra mondiale, con l’occupazione tedesca di Ostia e lo sfollamento della sua popolazione (nel settembre 1943), la colonia venne semidistrutta:85 la parte progettata da Piacentini sull’arenile fu completamente rasa al suolo dalle mine, mentre l’edificio di Fasolo fu occupato dalle truppe del comando tedesco.86

L’istituto rimase inattivo fino alla ristrutturazione dei primi anni ’50 che portò alla sopraelevazione dell’ala est, con la costruzione di nuove aule scolastiche, e all’edificazione di una palestra antistante la struttura originale.87 Dagli anni ’50, l’uso della colonia come centro profilattico venne sempre meno e questa, col tempo, fu destinata a collegio per i figli delle famiglie meno abbienti della capitale;88 gestita da suore, dapprima fu utilizzata tutto l’anno, successivamente solo nel periodo estivo, fino alla definitiva chiusura nel 1983.89

 

2.2.2 Il Vittorio occupato e l’associazione Shaka Zulu

Dalla sua chiusura, la struttura (ormai definita “ex-colonia”) dapprima ha ospitato due istituti scolastici,90 diversi uffici istituzionali e la caserma dei vigili urbani;91 a partire dagli anni ’90 e per tutto questo decennio, ha conosciuto una stagione di completo abbandono. Nonostante il disuso degli edifici, durante questi anni, il Comune di Roma ha sempre più preso coscienza delle enormi potenzialità dello stabile ed ha avviato quella frammentazione funzionale che tutt’oggi lo caratterizza,92 seppur limitatamente alla fase programmatica e progettuale.93 Nel 2000, infatti, in occasione del Grande Giubileo, alcune parti dell’ex-colonia furono ristrutturate ed adibite ad ospitare numerosi servizi: l’ostello per giovani della Litus, la mensa della Caritas, i servizi assistenziali della comunità di Sant’Egidio,94 il Corpo della Polizia Municipale e il Centro Anziani. Un anno più tardi fu installata, nell’ala nord dello stabile, la Biblioteca Elsa Morante, una delle più grandi e fornite dell’intera capitale.95

L’interessamento delle istituzioni per l’ex-colonia e l’intenzione di avviare in essa una frammentazione e differenziazione nella destinazione d’uso, che possa dirsi fattiva, è però successiva ad un generale interessamento per le sorti dello stabile (a partire dalla prima metà degli anni ’90) da parte della società civile. La rinascita della struttura, infatti, prende avvio su mobilitazione di parte della popolazione e del mondo associazionistico locale che ha avuto come esito le occupazioni di due zone dell’ex-colonia, diventate, nel 1993, il Vittorio occupato, nel 1997, il Teatro del Lido;96 le quali hanno a lungo condiviso obiettivi, percorsi, esperienze, capitale umano e strategie d'azione.

Il Vittorio occupato, secondo le fonti giornalistiche,97 trae origine dall’occupazione di un mercato di Ostia (quasi completo nella struttura ma mai aperto al pubblico) da parte di alcuni ragazzi (facenti parte del movimento studentesco di protesta “La Pantera”)98 che sfociò, nel 1989, nella fondazione del primo centro sociale lidense: lo “Spaziokamino”. Nel 1993 Spaziokamino ospita una cinquantina di rifugiati somali e, dal momento che i suoi locali non sono sufficienti per far fronte al meglio allo stato di emergenza di questi individui, alcuni ragazzi del centro sociale, organizzandosi nel collettivo L’Officina, decidono di occupare alcuni edifici dell’ex-colonia Vittorio Emanuele III: prima viene occupata la Cappela di Fasolo, successivamente il seminterrato ed altri ambienti della struttura, fino a giungere ad un’occupazione pari a circa 2.500 metri quadrati.99

Sulla base dei dati qualitativi raccolti in fase di ricerca sul campo,100 sappiamo che i profughi somali erano per lo più famiglie rifugiate in Italia per scappare dai conflitti bellici che, a quel tempo, imperversavano nel loro paese d’origine; questi, nel novembre del 1993, vengono sgomberati da un residence a Fiumicino presso il quale risiedevano e, dopo aver vagato per Ostia per tre giorni senza ricevere alcun tipo di assistenza da parte delle istituzioni, vengono soccorsi dai militanti di Spaziokamino che li fanno alloggiare nella zona del seminterrato dell’ex-colonia.

Ai rifugiati somali, ben presto, se ne aggiungo altri delle più svariate origini: per lo più africani del Corno d’Africa e dell’Africa occidentale, pakistani e una famiglia ristretta di rom che, negli anni, è diventata una famiglia estesa. Si forma così il primo nucleo di residenti che ammonta a circa 70/80 individui.101 Al seminterrato si aggiungono altri spazi del Vittorio occupato (al civico 184 del lungomare Paolo Toscanelli) che, divisi in camerate ed attrezzati alla meno peggio, nel giro di sei anni assumono i connotati di un centro socio-abitativo, nonostante i locali in cui alloggiano i rifugiati siano insalubri e in stato di degrado.102

L’esperienza specifica del centro socio-abitato del Vittorio occupato nasce dunque su spinta dell’occupazione dell’ex-colonia da parte dei rifugiati e del collettivo L’Officina, ma anche di una più generale mobilitazione di parte della società civile, del corpo studentesco e di alcune associazioni attive ad Ostia che, avviando una lunga serie di lotte, hanno permesso l’estensione dell’occupazione anche ai locali dei piani superiori della struttura (originariamente adibiti a dormitori).103

Diverse sono le tensioni provocate dall’occupazione che si acuiscono, sul finire degli anni ’90, quando le istituzioni, in vista del giubileo, avviano la progettazione finalizzata alla riconversione di parte dello stabile in ostello della gioventù per i pellegrini. Tale riconversione, infatti, avrebbe implicato lo sgombero di buona parte dei locali del Centro Socio-abitativo e, per tal motivo, dal 1995, il Vittorio occupato è protagonista di numerose mobilitazioni e proteste finché, nel 1998, riesce ad ottenere l’assegnazione ufficiale dei locali dislocati nella zona degli ex-dormitori.104 Decisiva per l’assegnazione è l’istituzione, ex-novo, dell’associazione "Shaka Zulu”, composta da alcuni referenti del Vittorio occupato e, per la maggior parte, dagli stessi rifugiati protagonisti dell’occupazione;105 questa diventa capofila delle associazioni coinvolte in questa battaglia e, assieme agli altri promotori dell’occupazione, lotta affinché la struttura dell’ex-colonia resti sede dedicata ad attività e realtà attive in ambito sociale. Con l’assegnazione dei locali e la loro ristrutturazione,106 l’associazione si è proposta alle istituzioni come ente gestore degli spazi occupati che, configurati in forma di Centro di Prima Accoglienza, le sono stati affidati ufficialmente.107 La permanenza e la costanza dell’associazione, nelle attività di assistenza ai rifugiati, ha fornito carattere di continuità a tutta l’esperienza di occupazione (Comparin 2014), tant’è che il Vittorio occupato si caratterizzava sia come centro sociale sia come centro socio-abitativo e di prima accoglienza, nello specifico si presentava come:

 

un’esperienza multietnica autogestita che può ospitare circa cento persone. È uno dei pochi luoghi gestiti direttamente da immigrati che costituisce, nella realtà di Ostia, un importante punto di aggregazione e uno spazio sociale, all’interno del quale si svolgono spettacoli, proiezioni cinematografiche, corsi di lingua italiana per adulti e bambini.108

 

Caratteristica peculiare del Vittorio occupato, infatti, è stata quella di trasformare l’esperienza di occupazione volta ad arginare lo stato emergenziale dei rifugiati, in un centro socio-abitativo autogestito dai migranti stessi che, per primi, hanno trovato ospitalità nella struttura. Centrale in questa trasformazione è stato il ruolo dell’associazione Shaka Zulu che, coadiuvata dal collettivo L’Officina, ha saputo offrire servizi anche al di fuori del circuito di auto-sostentamento interno, collaborando con associazioni locali ed altre realtà attive nell’ex-colonia (Teatro del Lido, Caritas) e facendosi promotrice di altri servizi che vennero creati successivamente, come la Biblioteca Elsa Morante.109 La capacità di intessere reti con il terzo settore locale ha permesso al Vittorio occupato di costituire, per alcuni anni, uno spazio sociale di aggregazione ed attivismo politico senza precedenti per tutta comunità di Ostia, sopratutto per quella dei giovani.110

Gli spazi oggetto di assegnazione erano su due livelli: al primo piano c’erano trenta stanze, ciascuna ospitava tre persone, tra le quali veniva designato, dalle stesse, un responsabile,111 mentre al piano terra si trovano gli uffici, delle aule (in cui organizzare incontri, eventi e corsi), una lavanderia con quattro lavatrici, le cucine (dove le comunità si alternavano nella preparazione dei pasti) e, infine, la mensa, con un bar frequentato dall’intera cittadinanza112 e una trattoria popolare che offriva pasti serali a prezzi economici (completando l’offerta di pasti diurna gestita dalla Caritas attigua).113 Gli spazi, così organizzati, hanno permesso l’attivazione di diversi servizi:114 uno sportello legale gratuito di assistenza ed orientamento per i migranti (sia della struttura sia provenienti dall’esterno) garantito da un gruppo di avvocati volontari che si occupavano del disbrigo di pratiche riguardanti, per lo più, richieste di asilo e permessi di soggiorno; un servizio di formazione linguistica, sopratutto alfabetizzazione, tre volte alla settimana, anch'esso a titolo gratuito e volontario, la cui affluenza era ampia al punto da coinvolgere non soltanto i residenti del centro e gli stranieri dislocati ad Ostia ma anche parte di utenti provenienti dal resto del comune di Roma; cene africane in cui i residenti, ogni domenica, preparavano ed offrivano piatti tipici dei propri paesi di origine; una palestra popolare; vari eventi culturali e ricreativi (concerti, spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche).115 Questo corollario di attività, che coinvolgeva ampiamente sia la popolazione straniera sia quella italiana di Ostia e della Capitale, rappresentava una delle poche occasioni, sul territorio, in cui vi era un'effettiva ed efficace possibilità di socializzazione tra le comunità straniere e la cittadinanza italiana (Comparin, 2014).

Il Vittorio occupato deve il suo successo in parte al sostegno attivo del presidente dell’allora Municipio XIII Massimo di Somma (dal 1998 al 2000),116 ma, principalmente, alla sua organizzazione interna. Essa era garantita sia dall’istituzione di spazi comuni autogestiti (la cui cura era garantita da turni per le pulizie rispettati da tutti i residenti); sia dalle riunioni organizzate da Shaka Zulu che, a cadenza settimanale (ogni mercoledì), programmavano le iniziative da svolgere ed affrontava le problematiche che, man mano, si presentavano nella gestione del luogo, registrando un’ampia partecipazione tra i residenti,117 nonostante l’alto tasso di ricambio degli stessi (pari a circa il 50% degli ospiti ogni anno) (Comparin, 2014).

Per buona parte della prima decade del 2000 il Vittorio occupato continua a svolgere le sue attività in maniera costante e fruttuosa, continuando ad attirare presso i suoi spazi stranieri in stato di emergenza da tutta la Capitale ed offrendo loro un’occasione per iniziare a condurre una vita dignitosa. Questa, tra le tante, è l’esperienza di Alphonse, residente del Centro socio-abitativo di origini camerunensi che, derubato di ogni avere alla stazione Termini di Roma, poco dopo il suo arrivo in Italia, e senza punti di riferimento sul territorio, approda al centro nel 2006: «il Vittorio per me, quando sono arrivato, era un gran regalo, era pulitissimo ed ordinatissimo.»118;119 ed ancora:

Quando sono arrivato si stava bene: c'era tutto e tutto ben pianificato, con le delle persone ragionevoli che hanno mantenuto l'ordine e la pulizia, poi, senza problemi; ho trovato che il posto era molto bello e accogliente. […] c’è sempre stata un’associazione, in quel momento si faceva presente, vedevamo l’organigramma, vedevamo le persone che si muovevano in nome dell’associazione.120

 

Dal Centro Socio-abitativo i residenti traevano inoltre reali possibilità di integrarsi ed intraprendere percorsi di vita autonomi, lo stesso Alphonse ci racconta che, poco dopo il suo arrivo presso il centro, ha trovato lavoro come insegnante d’inglese tramite le relazioni che è riuscito ad intessere, grazie alla rete dell’associazione Shaka Zulu, con gli operatori del Caritas.121

Sul finire del primo decennio degli anni 2000 ha inizio la parabola discendente del Vittorio occupato, in coincidenza col periodo in cui lo stesso ha catalizzato su di sé un incessante proliferare di progetti ed idee (provenienti sia dalle istituzioni sia dalla società civile) circa la sua riqualificazione. Questi progetti, se da un lato hanno inserito il centro nel dibattito sociale ed istituzionale, dall’altro lo hanno costantemente minacciato di imminenti chiusure e sgomberi: nel 2008 la giunta comunale di Alemanno chiude il Teatro del Lido (con evidenti ripercussioni negative sul morale degli organizzatori del Vittorio occupato che con il teatro collaboravano), mentre la giunta municipale di Vizzani mobilita l’esercito e sgombera la chiesa dell’ex-colonia, “quartier generale” di tutto il Vittorio occupato;122 nel 2009 la chiesa di Fasolo viene rioccupata dal collettivo L’Officina per poi essere, nel 2010, nuovamente e definitivamente sgomberata da forze dell’ordine in assetto antisommossa ed assegnata alla Comunità di Sant’Egidio.123 Tutto ciò ha causato una notevole diminuzione, in termini di bacino d’utenza e capacità di attrazione ed aggregazione, della popolazione locale che usufruiva dei servizi offerti dal Vittorio occupato.124

Finisce così l’esperienza dell’occupazione della chiesa dell’ex-colonia che sancisce la dissoluzione del collettivo L’Officina, le cui tracce si perdono definitivamente nel 2012.

La fine di un interessamento attivo del collettivo verso il Centro Socio-abitativo si ripercuote negativamente anche sull’associazione Shaka Zulu, la cui presenza dei suoi referenti locali (punto di riferimento per la totalità dei membri stranieri) si dirada sempre più:

Dal 2005/2006 i dirigenti della Shaka Zulu, Luca Faggiano ed altri ragazzi italiani, hanno cominciato un po’ a tirarsi indietro perché hanno avuto altre attività fuori, non lo so, forse si sono stufati o forse sono cresciuti e non sono più venuti in riunione come prima. Piano, piano hanno rallentato senza dirci niente, hanno lasciato questo spazio vuoto, hanno creato un buco e noi aspettiamo sempre qualcuno fuori che viene e che convoca riunione, che organizza eccetera, eccetera.125

 

Il diradarsi dei referenti italiani nella partecipazione alle attività dell’associazione si riflette negativamente sull’organizzazione interna del centro, garantita dalle assemblee dei residenti;126 a quest’ultime, soprattutto a partire dal 2007,127 si registrava una sempre più crescente diminuzione di presenze e, oltretutto, un buon numero dei residenti che vi prendevano parte non venivano adeguatamente coinvolti ad assumere un ruolo attivamente partecipe:

 

Alle assemblee non partecipavano tutti: alcuni li dovevi costringere, altri non capivano. Poi Luca le fissava per il giorno stesso e magari erano fuori a lavoro; lui parlava di politica e loro non capivano: molti erano arrivati qua da posti senza strade, senza lampioni e quindi vedevano ‘sto posto e, io mi immedesimavo, rimanevano allucinati; poi devi ammettere che vengono da paesi lontani, alcuni erano un po’ obbligati a venire alle assemblee.128

 

Le assemblee, così private di costanza ed efficacia, vengono indette sempre meno e, nel giro di pochi anni, Shaka Zulu si dissolve del tutto: «l’associazione Shaka Zulu non esiste più; non esiste più nel senso che è un’associazione che non ha più tenuto l’assemblea da anni.»129

Con la dissoluzione del capitale umano messo in campo sia dall’associazione Shaka Zulu, sia dal resto del Vittorio occupato, vengono a mancare le assemblee che governavano l’organizzazione e il funzionamento del centro e, con loro, anche la totalità dei servizi offerti dallo stesso: i locali adibiti ai servizi, in breve tempo, si trasformano in alloggi occupati da famiglie in emergenza abitativa e il Centro Socio-abitativo si trasforma in un dormitorio che continua ad esistere, e resistere, come mero insieme di residenti, più che entità organica.

 

2.2.3 Il Centro Vittorio

L’esperienza del Centro Socio-abitativo autogestito, proseguita analogamente a quella del Teatro del Lido, nonostante fosse sfociata in una realtà proficua in cui gli spazi occupati erano diventati, oltre che sede di un centro di prima accoglienza e socio-abitativo, anche un luogo di integrazione, aggregazione, formazione e svago, ha conosciuto un esito divergente rispetto a quello vissuto dal vicino teatro; quest’ultimo, infatti, seppur in maniera travagliata, ha avuto una legittimazione istituzionale certa, acquisendo ufficialmente lo status di teatro comunale;130 il Centro Socio-abitativo, invece, dopo una relativamente breve stagione di legittimazione di fatto, si trova oggi in una situazione di continua precarietà, dettata sia dai numerosi tentativi di delegittimazione portati avanti con le minacce di sgombero degli alloggi da parte delle istituzioni, sia dall’assenza di referenti, tra i residenti, che possano facilitare l’interlocuzione con le amministrazioni.

L'ex-colonia, in generale, non differisce molto da quel che era durante le occupazioni; a parte la dissoluzione del Vittorio occupato e, di fatto, dell’associazione Shaka Zulu, i servizi presenti nello stabile sono mutati di poco rispetto i primi anni del 2000: sono aumentati con la riapertura del Teatro del Lido e l’installazione del Centro di salute mentale dell’ASL e dell’Istituto di Cultura Islamica, mentre è stato rimosso il Corpo della Polizia Municipale (spostato ad altre sede). Lo stabile si presenta oggi come una struttura che, già dall’esterno, riporta la dicotomia tra istituzioni e le progettualità dal basso rappresentate dal Centro Socio-abitativo: lampante è la differenza tra gli stabili ristrutturati, in cui risiedono i servizi legittimati dalle istituzioni (sopracitati - vedi anche 1.2.2), e lo stabile al civico 184 visibilmente in stato di degrado strutturale, in cui si trova il Centro Socio-abitativo, comunemente noto oggi come “Centro Vittorio”.131

Dal sito istituzionale del Municipio X si apprende che l’ex-colonia, attualmente, continua a svolgere un servizio di pubblica utilità con un «alloggio temporaneo per persone meno abbienti»132; non viene specificato, però, se si faccia riferimento al Centro Socio-abitativo, eredità del Vittorio occupato, o all’alloggio temporaneo di accoglienza notturna fornito in gestione alla Caritas unitamente alla mensa (vedi 1.1.4). In ogni caso il Centro Vittorio, quale centro socio-abitativo, è completamente assente da qualsiasi citazione nei circuiti informativi istituzionali. Le poche informazioni sul Centro Vittorio, provenienti dalle reti formali, sono reperibili in un corpus di articoli giornalistici, per lo più relativi alla stampa locale, spesso approssimativi e privi di fonti ripercorribili, in cui il centro è citato esclusivamente in relazione ai numerosi tentativi di sgombero che ha subito negli ultimi anni.

Si procederà dunque ad offrire una descrizione di contesto del luogo in relazione alla popolazione residente e allo stato degli spazi e dei servizi, con l’ausilio, prevalentemente, di fonti qualitative prevenute dal circuito delle reti informali.

 

La popolazione residente

Sulla base dei dati qualitativi forniti da Comparin, nel 2014, presso il Centro Vittorio vivevano circa trecento persone, per lo più di origini africane ed asiatiche. Le nazioni d’origine maggioritarie erano: Mali, Niger, Costa d’Avorio, Egitto, Tunisia e Marocco, per la parte africana; Pakistan e Bangladesh, per la parte asiatica. A queste si aggiungevano tre italiani e una famiglia rom.

Questi individui erano per lo più uomini adulti scappati dai loro paesi d’origine per sfuggire a conflitti e condizioni di estrema povertà e pericolo. Buona parte di loro sono approdati in Italia lasciando nella loro patria moglie e figli, nella speranza di trovare un lavoro ed inviare le rimesse ai familiari e di ricongiungersi con questi, in Italia o Europa, nell’imminente futuro; altri, in minor parte, vivevano presso il centro con le proprie famiglie (si contavano, infatti, un piccolo numero di donne e bambini).

Per quanto concerne il loro status giuridico, la maggior parte dei residenti del centro, soprattutto gli africani, era costituita da richiedenti asilo in cerca di occupazione; ricerca, quest’ultima, ostacolata dalla burocrazia legata alle pratiche di richiesta asilo che prevedono l’impossibilità, per i richiedenti, di lavorare per i primi sei mesi dalla data di formulazione della domanda. La parte asiatica dei residenti, invece, in particolare i bangladesi, viveva una situazione meno drammatica rispetto ai coinquilini africani, potendo contare su un’estesa ed efficace rete di connazionali in loco che, attivamente, li supportava per l’ottenimento del visto lavorativo.

Particolarità della popolazione del centro era l’alto indice di ricambio della stessa, rimasto costante fin dall’esperienza del Vittorio occupato (vedi 1.2.2). Gli africani soprattutto, non appena acquisivano il permesso di soggiorno, tendevano a lasciare il Centro Vittorio per altre mete: preferita da molti era la Francia e, una volta lasciato l’alloggio presso il centro, questo veniva immediatamente rioccupato da un connazionale o conoscente.

Attualmente, da stralci di stampa, ci è dato sapere che presso il Centro Vittorio sono presenti, in base al censimento istituzionale del 22 giugno del 2015 «centodieci occupanti di varie nazionalità, soprattutto africana, dei quali sette privi di documenti»133 e che «lo stabile è occupato da anni, l’ultimo intestatario che l’aveva in concessione è residente a Londra dal 2001.»134 Questi dati però sono palesemente troppo approssimativi e orientati a sfavore dei residenti per essere assunti come descrizione di senso plausibile del luogo (oltretutto sottostimati dato il margine di errore dovuto alla probabile non presenza di tutti gli effettivi ospiti del Centro durante le rilevazioni censuarie). Dai dati qualitativi rilevati in fase di ricerca sul campo, infatti, sappiamo che il numero dei residenti del Centro Vittorio si aggira sulle centoventi, centotrenta unità,135 e che, rispetto ai dati rilevati da Comparin (2014), rimane invariata la composizione della popolazione per nazionalità di provenienza. Rispetto al 2014, però, si registra una consistente diminuzione nel numero dei residenti, fatta eccezione per la popolazione rom che è aumentata, in parte, per effetto delle nascite del nucleo familiare residente di origine (che ha contribuito all’aumento del numero dei nuclei familiari e dei minori presenti nella struttura) e, in generale, per un maggior afflusso di rom dalle diverse cittadinanze, nello specifico: «ci sono 7/8 nuclei familiari, di cui 3/4 sono romeni, croati e moldavi.»136

Rispetto agli anni del Vittorio occupato, inoltre, nonostante il costante indice di ricambio, una parte della popolazione (sopratutto quella residente presso il centro fin dagli anni della sua fondazione) risulta, come è ovvio, generalmente invecchiata.

Per quanto concerne infine la condizione giuridica dei residenti, rispetto ai dati di Comparin (2014) e basandoci suoi dati del censimento istituzionale del 22 giugno 2015, si registra un aumento nelle regolarizzazioni degli status, mentre invariata è la differenza, in fatto di integrazione, tra la popolazione africana e quella asiatica: ancora attiva ed efficace è la rete di supporto comunitario alla popolazione bangladese del centro, la maggior parte della quale gode di visti lavorativi ed è dedita ad attività di vendita ambulante.137

 

Lo stato degli spazi e dei servizi

Il degrado del Centro Vittorio, come già detto, ampiamente visibile dall’esterno della struttura e in contrasto con il resto dello stabile, si ripercuote anche all’interno dell’edificio dove, negli ultimi anni, comune per i visitatori era la sensazione di totale abbandono e senso di provvisorietà degli spazi (Comparin, 2014).

La situazione attuale appare immutata e, per certi versi, persino peggiorata, non essendoci stato alcun intervento rilevante di ristrutturazione, sia esso proveniente dalle istituzioni o dai residenti stessi.138 La parte comune versa in condizioni di estremo abbandono: il cortile esterno posto davanti l’entrata è sporco ed ospita rifiuti ingombranti, quali vecchie reti e materassi; l’accesso al pianoterra, come quelli ai piani superiori, è chiuso con lucchetti e riservato ai soli residenti; le scale buie e sporche ospitano un ascensore in disuso e presentano i segni evidenti di infiltrazioni e muffa per l’intonaco ammalorato.139 Proseguendo all’intero dei piani si notano: ai piani inferiori, lunghi corridoi bui discretamente puliti e, negli ultimi livelli, piccole terrazze, prese dall’incuria del tempo (ai cui angoli è visibile la crescita di erbacce) e lunghe file di camere di piccole dimensioni (per un totale di circa un centinaio distribuite su tutti piani) dove, in condizioni precarie, vivono i residenti.140

Già a partire dagli ultimi anni, i locali comuni al pianoterra che ospitavano i servizi versavano in stato di abbandono e degrado ed erano stati occupati, diventando spazi in cui poter alloggiare: la cucina non era più funzionale, al pari della mensa e del bar, com’anche la lavanderia, le cui lavatrici erano ormai tutte non più funzionanti;141 restava attiva soltanto la scuola di italiano, grazie all’impegno costante di un professore volontario, rimasto a svolgere il proprio servizio nonostante la dissoluzione del Vittorio occupato (Comparin, 2014). Anche il cortile esterno è stato oggetto di occupazione da parte di una famiglia rom e, nel 2014, sgomberato dalle forze dell’ordine.142 Rispetto alle rilevazioni di Comparin, gli unici spazi comuni ancora presenti all’interno del centro erano i locali adibiti ad aule scolastiche che, attualmente, risultano anch’essi occupati ed utilizzati come alloggi dalla popolazione rom del centro.143 Anche la scuola di italiano dunque, è venuta a mancare, unitamente a tutti gli altri servizi, lasciando come unici spazi comuni solo le scale, i corridoi e le piccole terrazze.

Oggi, dunque, il Centro Socio-abitativo è:

 

una struttura logora che andrebbe ristrutturata e l'ufficio tecnico non interviene se non per casi legati all'acqua o alla corrente e, anche in quel caso, interviene poco e tardi; c'è molto un fai da te, anche per risoluzione di problemi ordinari, c'è un degrado inteso come sporcizia, presenza di topi, scarafaggi e quant'altro, c'è difficoltà a tenere questo spazio pulito, non ci sono più gli spazi comuni. Un tempo c'era un bar multietnico, la lavanderia, c'è stata la scuola di italiano per stranieri, per 16 anni, che era stata fatta da un volontario e aveva un pool di insegnanti tutti volontari e italiani. Tutti questi spazi sono stati occupati a causa dell'emergenza abitativa e, quindi, non c'è più un luogo fisico, se non l'androne delle scale o il balcone al 2° piano, per incontrarsi. Da una parte si capisce l'emergenza abitativa, dall'altra c'è difficoltà a disciplinare le esigenze: arriva il singolo che ha il fratello che non ha più lavoro e non solo s’infila nell'ufficetto e l'ufficetto non c'è più, ma non cpiù lacondivisionedelle necessità e quindi c'è un'anarchia totale.144


 

Privato degli spazi comuni di condivisione ed aggregazione e, soprattutto, di spazi in cui poter dare continuità ai servizi, il Centro Vittorio vive oggi una condizione di estrema precarietà che lo pone alla stessa stregua di un dormitorio in cui gli individui residenti, un tempo popolazione di un centro socio-abitativo autogestito, hanno perso i connotati di comunità e si avvicinano sempre più ad essere un’insieme di persone che non condividono nulla se non lo spazio in cui dormono.

 

3. «DA QUELLA PARTE DI OSTIA»:

La costruzione della marginalità


 

Tentare di comprendere cosa significhi abitare il Centro Vittorio non può prescindere, innanzitutto, dal vagliare come questo sia percepito e descritto da chi si trova esterno a questa realtà poiché l’identità del centro, in linea con il concetto ampio di identità, si costruisce nel rapporto tra interno ed esterno, tra il “noi” e l’alterità. Per tal motivo, si procederà in questo capitolo ad esporre la percezione che i cittadini di Ostia hanno circa il Centro Vittorio, ovvero le rappresentazioni e narrazioni etiche di questo luogo, dal momento che queste determinano, quanto meno in parte, le modalità con le quali è possibile, per i residenti, abitarne gli spazi.

Inizialmente ci si soffermerà sulla memoria che i cittadini lidensi hanno del Centro Vittorio, come vedremo, fatta di alterazioni, rimozioni e censure, in base alla quale questo luogo è un simbolo identitario per l’intera comunità, l’ultimo baluardo della recente storia lidense; successivamente si fornirà una cornice di senso alla carenza di conoscenza che la comunità lidense ha del Centro Vittorio e ai giudizi e pregiudizi che la stessa produce su di esso, i quali concorrono a tracciare linee di confine, interne alla città, il cui esito è la costruzione di una marginalità in cui il Centro Vittorio ne è il simbolo.

 

3.1 Memorie, rimozioni e censure

Il tentativo di vagliare il livello di memoria storica, legata al Centro Vittorio e posseduta dalla collettività lidense, si scontra innanzitutto con la denominazione stessa del luogo. Se comunemente ci si riferisce alla struttura come “Centro Vittorio” (vedi 2.2.3), non è inconsueto che alcuni cittadini lidensi, soprattutto quelli appartenenti alle fasce anziane della popolazione, disconoscano volutamente tale appellativo, in favore di uno storicamente più completo, rivendicando per il luogo la sua origine di colonia dedicata ad un reale; non è raro, infatti, che diversi cittadini, alla domanda: “Come si ricorda il Centro Vittorio?”, rispondano infastiditi: «Ma quale? Il Centro Vittorio Emanuele vorreste dire!»145.

Nonostante tali rivendicazioni possano far presagire una salda memoria storica dei lidensi circa il Centro Vittorio, nel sondarne la consapevolezza in merito alla funzione originaria espletata dalla struttura, si registrano diverse lacune e non è inconsueto che l’ex colonia, nei casi in cui se ne rintraccino le origini, venga confusa con quello che era il collegio della Marina “IV novembre”. Il collegio, progettato dall’architetto Giuseppe Boni ed inaugurato nel 1936, fu concepito per ospitare trecento allievi orfani dei dipendenti degli enti locali e, al pari dell’ex colonia marina, era fornito di una palestra attrezzata, di un’infermeria, di una biblioteca, di una sala convegni e di una chiesa.146 La straordinaria similitudine tra le due strutture ha fatto sì che oggi diversi cittadini di Ostia, nel narrare la storia dell’ex colonia, riferiscano che questa, in passato, «era un ospizio, un collegio della Marina per i figli del tubercolo, per i figli di chi era stato in guerra e per i figli dei soldati»147 accomunando, in tal modo, due differenti strutture storiche della città di Ostia e producendo narrazioni creative in merito alla funzione originaria dell’ex-colonia.

In generale, l’ex colonia rappresenta per i cittadini lidensi un importante manufatto storico, poiché è: «l’unica struttura rimasta che sta in piedi oltre ad Ostia antica»148; va tenuto presente, infatti, che a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale e dell’occupazione tedesca, molte importanti strutture del tempo, simbolo della città, furono distrutte, come ad esempio lo stabilimento balneare “Roma” (vedi 2.1.2).

Oggetto di forti dissapori, nelle narrazioni dei cittadini, è la cappella dell’ex-colonia, chiusa nel 1983 ed occupata nel 1992 da profughi somali e, nel 1999, assegnata alla comunità di Sant’Egidio che, però, ne ha preso il pieno possesso solo nel 2010, poiché l’edificio era occupato dal Collettivo L’Officina (vedi 2.2.2). Come riferitoci da un referente della Comunità di Sant’Egidio, e disconosciuto o taciuto dalla maggioranza, la prima occupazione della chiesa, data la situazione emergenziale in cui versavano i profughi, sarebbe avvenuta con il tacito accordo del Municipio: «tra l’altro fu una sorta di accordo anche con il municipio[…] si riaprì, buttarono le chiavi dal Municipio e si riaprì»149; successivamente, ai profughi subentrò il Collettivo L’Officina, che vi rimase sino al 2010, e la Comunità di Sant’Egidio scelse di non sgomberare gli occupanti, sia per una generale incapacità, da entrambe le parti, di stabilire una contrattazione, sia per una politica di tolleranza da parte della comunità religiosa.150 Se per il referente della Comunità di Sant’Egidio la cappella, negli anni dell’occupazione del Collettivo L’Officina, era «un po’ deturpata e c’era qualche danno»151, per alcuni cittadini lidensi, che ribadiscono con forza di non aver mai messo piede al Centro Vittorio, la chiesa: «è stata distrutta dagli extracomunitari che non sono gente di chiesa»152. Narrazioni simili emergono anche da operatori di servizi interni al Centro Vittorio, che conoscono la struttura ma mal sopportano i loro vicini stranieri: «[la chiesa] è stata occupata da comunità di extracomunitari, di extracomunicati153. Si opera così una rivendicazione della cappella a luogo simbolo dell’identità lidense, in seno ad una cultura occidentale cattolica assunta come riferimento; parallelamente, si disconosce il ruolo ufficioso delle istituzioni nella prima occupazione e si identificano i residenti del Centro Vittorio come “extra”: al di fuori sia della comunità (extra-comunitari), sia della religione cattolica (extra-comunicati).

Per comprendere al meglio come si sia giunti a tali narrazioni oggi, va detto che la cappella è, oltre che simbolo della passata ed attuale Ostia cattolica, anche il simbolo del Vittorio Occupato, da essa, infatti, ha preso avvio l’occupazione del Centro Vittorio e il Centro Socio-abitativo (vedi 2.2.2); per tal motivo, questo luogo è stato oggetto di strumentalizzazioni al fine di legittimare o delegittimare tutta l’esperienza dell’occupazione del Centro, senza operare debite distinzioni tra la prima occupazione dei profughi, emergenziale e avvenuta d’accordo con le istituzioni, e la seconda occupazione da parte del Collettivo L’Officina. Inoltre, se da un lato le frange di estrema destra di Ostia, CasaPound154 soprattutto, insistono sulla sacralità del luogo violata: «la chiesetta interna, mai sconsacrata, usata come birreria “alternativa” dal centro sociale.»155, unitamente a referenti di servizi interni al Centro Vittorio in collisione con i residenti del Centro Socio-abitativo: «C’era questa chiesa qui, abbandonata, che era una cosa meravigliosa! Hanno fatto di tutto dentro! Loro, quando siamo entrati, ci facevano i rave party! Hanno distrutto tutto all’interno»156; dall’altro lato, liberi cittadini riferiscono, invece, che la cappella è stata sconsacrata e,157 solo successivamente, occupata e resa luogo di aggregazione giovanile senza eguali ad Ostia, molto più efficace rispetto all’attuale funzionalità di chiesa, tout court, gestita dalla comunità di Sant’Egidio (vedi 2.2.2).158

Sia nel caso in cui la Chiesa sia stata sconsacrata o che, al contrario, non lo fosse stata e sia stata violata nella sua sacralità, ciò che risulta interessante da rilevare è come le narrazioni in merito ad essa ci offrano, in primo luogo, significati di valore negativo attribuiti ai residenti del Centro Vittorio, in secondo luogo ci fanno comprendere come tali descrizioni servano a legittimare o delegittimare il tentativo, portato avanti durante l’occupazione, di dar nuova vita al luogo attribuendogli una funzionalità sociale: mentre la legittimazione proviene da cittadini di Ostia che usufruivano dei servizi del Vittorio occupato, emblematico è, invece, che la delegittimazione provenga da una realtà, quale quella di CasaPound, che è nata proprio da esperienze di occupazione.159

Eletto a luogo simbolo dell’identità storica del Centro Vittorio, al pari della Chiesa, è anche il famigerato sottopasso che collegava l’ex colonia con la spiaggia antistante (vedi 2.2.1), rivendicato da CasaPound quale luogo custode della memoria storica del ventennio fascista: «perché in quello che una volta era un sottopassaggio attraverso il quale i bambini della colonia potevano arrivare al mare in tutta sicurezza, oggi si nascondono scrivanie, armadi e documenti del Ventennio».160

Sia nel caso della cappella che del sottopasso, quello che viene narrato, in sostanza, è un furto della memoria del luogo, in particolare della sua identità storica, che sarebbe stato perpetrato dal Vittorio occupato e, soprattutto, dagli “extracomunitari/occupanti”, ai danni dei cittadini lidensi.

Se per la Cappella e il sottopasso la lacuna nella memoria storica coinvolge solo parte del Centro Vittorio, una generale perdita di memoria storica si registra per l’intera struttura, assumendo una portanza rilevante, e riguarda la destinazione d’uso dell’ex colonia.

Fonti istituzionali riportano che l’ex colonia è stata progettata e costruita per volontà delle istituzioni governative del tempo ed intitolata al re Vittorio Emanuele III (vedi cap.1), tuttavia è diffusa la narrazione per la quale la struttura sarebbe stata donata al Comune di Roma da casa Savoia per scopi sociali. Mentre per alcuni si tratta di un’erronea convinzione,161 per altri questa rappresenterebbe la cifra distintiva e l’identità storica dell’intero luogo che si esplicherebbe nella sua destinazione d’uso a fini esclusivamente sociali.

Particolare risulta il fatto che a condividere questa versione storica sarebbero sia gli oppositori del Centro Socio-abitativo, principalmente gli esponenti di CasaPound,162 sia i sostenitori della realtà abitativa presso il Centro, come Don Franco De Donno, presidente della Caritas di Ostia e da anni impegnato nella difesa e rivalutazione del Centro Socio-abitativo, il quale ci racconta che:

 

la realtà della Vittorio Emanuele, per il testamento del Re allora, e della Regina mi sembra, l’aveva concessa al Comune per finalità di ordine solidale, sociale, infatti, prima c’era la colonia per i bambini i cui genitori erano malati di tubercolosi e venivano accolti lì per un motivo solidale.163

 

Di frequente si fa riferimento, infatti, ad un vero e proprio testamento in cui veniva espressa la volontà dei Savoia a lasciare l’ex colonia in eredità al popolo, con la clausola che questa venisse utilizzata per soli fini sociali; in merito Don Franco De Donno ci riferisce che, qualche anno fa:

 

Abbiamo fatto le ricerche a quei tempi, al catasto, se non ché non abbiamo trovato questo testamento, che comunque c’è, è stato fatto, non l’abbiamo trovato proprio fisicamente. […] quell’edificio è stato donato e destinato solo per scopi di solidarietà, non per scopi né politici né di lucro.164

 

Sia che si tratti di una leggenda, sia che questa costituisca, invece, una grave censura da parte delle istituzioni, ciò che è rilevante è il fornire una ricostruzione storica, poco importa se vera o falsa, in cui l’ex colonia è narrata quale luogo donato alla popolazione e a servizio della stessa. Si rintraccia, dunque, un’esigenza della comunità stessa ad impadronirsi della struttura, in quanto lascito, e a renderla bene pubblico e, al contempo, bene di pubblica utilità, conferendogli una destinazione d’uso definitiva e immutabile, per la quale essa sia per sempre asservita alla comunità.

Nonostante tale esigenza, una parte dei cittadini lidensi attribuiscono giudizi di valore negativo a quei servizi operanti nell’ex colonia, come la Caritas, che di fatto rispondono all’esigenza popolare di connotare la struttura come polo di servizi solidali: «Inizialmente c'erano preti e suore per carità, ma la carità poi si e' trasformata in vandalo e non va bene!»165 Appare chiaro come una parte di lidensi non sia soddisfatta degli attuali servizi sociali attivi nella struttura ed associ parte di questi al Centro Socio-abitativo e al degrado generale dell’intero stabile. Si rintraccia, infatti, una sorta di “abuso di carità” che avrebbe causato il degrado del Centro Vittorio e, di conseguenza, accanto alla necessità di attribuire al luogo una destinazione d’uso esclusivamente sociale, va connessa anche un’esigenza, dei cittadini, di selezionare, oltre che le modalità, l’utenza alla quale il centro dovrebbe rivolgersi che, in base a queste rappresentazioni, si configurerebbe come un polo di servizi sociali selettivo e rispondente soltanto ad una parte della comunità locale.

Non è raro inoltre che i servizi sociali attualmente attivi presso il centro siano, in alcuni casi, oltre che delegittimati, totalmente disconosciuti dai cittadini, i quali descrivono il Centro Vittorio come:

una bellissima struttura, costruita al tempo del fascio, dove c'erano tutti i servizi, una grossa funzionalità, non mancava niente: asilo, nido, ci stavano scuole, le colonie, ragazzi che si spostavano da una città all'altra, perché venivano per il mare; erano servizi che lo Stato allora dava, cosa che oggi non ci sono più.166

 

Si evince come, per alcuni cittadini lidensi, l’attuale Centro Vittorio sia privo di servizi sociali di pari efficacia rispetto al passato e che tale mancanza sia imputabile ad un apparato statale poco efficiente.

La ricostruzione storica del luogo da parte dei cittadini lidensi opera, oltre che per aggiunte e modifiche spesso orientate da giudizi di valore e pregiudizi, come abbiamo visto finora, anche attraverso rimozioni e vere e proprie censure; questo è il caso dell’esperienza del Vittorio occupato (vedi 2.2.2) che, se non delegittimata, viene del tutto rimossa:

 

Il Centro Vittorio me lo ricordo perché era una colonia estiva; una colonia estiva fatta da Vittorio Emanuele, insomma ce sta il nome, nell’era fascista, […] nel tempo c’è stato qui quello che c’è stato: la guerra, è stato chiuso ed è stato aperto poi dal Centro anziani.167

 

Accade, dunque, che una lunga stagione di occupazione venga rimossa dalla storia del luogo e non riconosciuta, nel bene o nel male, per quel che ha rappresentato, ovvero un’innegabile momento storico saliente per il Centro Vittorio.

La censura si aggrava ancor di più col dimenticare il degrado in cui versava la struttura negli anni di abbandono, intercorsi tra la chiusura e l’occupazione, e nel non riconoscere a quest’ultima un’azione di riqualificazione del luogo, ma soltanto di distruzione; diffusamente si tace, infatti, su chi abitava o frequentava il Centro Vittorio prima del Vittorio occupato:

 

ci stavano famiglie di tossici, anche perché nelle pareti ho trovato scritte. Tu sai che Ostia ponente è stata il centro dello spaccio. C’era tutta gente che è stata sgomberata dai quartieri di Roma, tutta gente disagiata, tutti dediti a qualsiasi cosa.168

 

In generale, dalle narrazioni operate dai cittadini lidensi, quello che emerge è una ricostruzione storica dell’ex colonia Vittorio Emanuele III in cui l’esperienza del Vittorio occupato è delegittimata, se non del tutto omessa, mentre è enfatizzata la natura di luogo pubblico a servizio della comunità. Dunque la rivalutazione della destinazione d’uso della struttura, in senso sociale, messa in atto dall’esperienza dell’occupazione prima, e dalle istituzioni negli ultimi anni (con l’assegnazione dei servizi attualmente attivi), non appare ancora sufficiente a soddisfare le aspettative sul luogo manifestate dalla popolazione locale. Il dato che dovrebbe far riflettere, dunque, è la dilagante tendenza a rappresentare il luogo per difetti e mancanze, unitamente all’incapacità di trascendere la situazione di fatto ed immaginare per il sito, sulla base delle sue enormi potenzialità, una riqualificazione che, come avvenuto in passato con il Vittorio occupato (vedi 2.2.2), non sia unicamente strutturale, ma anche sociale.

 

 

3.2 Giudizi e pregiudizi di una realtà disconosciuta

Da dati raccolti dal Teatro del Lido,169 nell’ambito di attività di sondaggio incentrata sul valutare le preferenze della popolazione lidense riguardanti la programmazione teatrale, contenente una parte dedicata interamente al Centro Socio-abitativo, emerge un interessante spaccato delle attuali rappresentazioni che i lidensi producono in merito al Centro Vittorio. Da questi dati, dalla parte relativa ai quesiti a risposta multipla, ci è dato sapere che, sul campione preso in esame,170 la maggioranza degli intervistati ritiene che il Centro Socio-abitativo sia abitato per la maggioranza da stranieri, mentre poco più della metà ritiene sia un luogo occupato e la restante parte sostiene che esso sia, invece, uno spazio regolarmente occupato ed assegnato per via istituzionale. Poco più della metà dei soggetti intervistati afferma di essere interessato a conoscere gli abitanti del centro e le loro storie di vita, mentre gli altri si dichiarano non interessati a conoscere questa parte di popolazione loro concittadina.

Dai quesiti a risposta aperta, riguardanti l’opinione generale dei cittadini in merito al Centro Vittorio, emergono quattro tendenze nelle quali gli intervistati si distribuiscono quasi equamente: le prime due riguardano principalmente gli aspetti strutturali e gestionali della struttura, le ultime due, invece, si concentrano maggiormente sull’utilizzo sociale del bene.

La prima tendenza è quella che vede il Centro Vittorio sottoutilizzato e malamente conservato: i cittadini di questo gruppo sostengono che la struttura versi in condizioni non idonee alla sua monumentalità poiché non conservata adeguatamente e poco sfruttata per le sue potenzialità, in quanto colma di spazi in disuso; per tanto gli intervistatori ritengono sia necessaria una politica di ristrutturazione e di maggiore utilizzo del bene.

La seconda tendenza è quella relativa alla gestione del bene: i cittadini di questo gruppo ritengono che il Centro Vittorio sia un luogo troppo caotico e poco organizzato, gestito malamente dalle istituzioni, che andrebbe controllato e regolamentato in maniera più efficiente.

Le due tendenze relative all’uso sociale dell’ex colonia, invece, fanno emergere due visioni opposte circa il luogo: una tendenza vede parte dei cittadini intervistati affermare che il centro rappresenti una buona possibilità di aiuto per bisognosi di cibo ed abitazione, un punto di riferimento per gli immigrati e, perciò, avanza la necessità di mantenerlo quale spazio residenziale per quest’ultimi; l’altra tendenza, al contrario, è rappresentata da quei cittadini che sostengono che l’ex colonia sia una splendida struttura violentata dagli stranieri e che sia indegno che ci sia ancora una parte occupata e non sgomberata e, perciò, che dovrebbe tornare in possesso degli italiani, anziché essere utilizzata dagli stranieri.

In generale, quello che emerge dall’analisi di questi dati è, innanzitutto, un malcontento generale dei lidensi circa l’attuale situazione in cui versa l’ex-colonia, secondariamente, uno scarso riconoscimento dei servizi del terziario attivi nella struttura e la denuncia alle istituzioni e agli stranieri: i primi, per aver gestito male lo stabile, i secondi, per averlo deturpato. Nello specifico, le istituzioni sono tacciate di mancato espletamento dei loro doveri, mentre i residenti del centro sono riconosciuti unicamente nel loro status di stranieri, anziché di abitanti, a tutti gli effetti, del territorio di Ostia.

Le rimostranze verso le istituzioni pervengono dai cittadini di Ostia in maniera costante anche nei dati raccolti in fase di ricerca sul campo, intensificate dal generale clima di disillusione vissuto dalla comunità a seguito dello scandalo di Mafia Capitale (vedi 2.1.1).

La maggior parte delle lamentele rivolte alle istituzioni circa il Centro Vittorio attengono alla sfera del bilancio municipale e all’utilizzo e gestione dell’intera struttura dell’ex colonia, descritta come:

 

un manufatto storico e qui ce dovrebbero venì, adesso hanno fatto dei lavori sopra, e ci dovrebbero venire: l’Ufficio tecnico, che stava lì davanti, poi ci dovrebbero tornare anche i Vigili, che stanno in via Capo d’armi, eh insomma pare che, a parte tutto, dovrebbe essere sfruttato in questo sistema qua, perché i vigili, che tu sappi lì pagano un milione e duecento mila euro! L’anno! Di affitto in quella palazzina in Via Capo d’armi, il che è una cosa assurda dai… Co tutti ‘sti locali che c’hanno qua, è una cosa proprio da spezzare i capelli! Insomma, qui le strutture comunali e statali ce stanno per creare queste cose, perché buttare ‘sti soldi qua?171

 

Costante nelle narrazioni dei cittadini è anche il crescente degrado della struttura, privata di luoghi simbolo quali la cappella, e la necessità di aumentarne i controlli al suo interno per arginare gli effetti negativi rintracciabili in una cattiva gestione orientata esclusivamente all’assistenzialismo:

 

è una struttura mandata alla malora: ci sta la mensa dei poveri, è vero ci stavano i vigili, ci sta una chiesetta distrutta, ci vanno a dormire tutti quelli che vengono da Roma non mi sembra una cosa tanto giusta, oppure sarebbe giusto che comunque qualcuno controllasse.172

 

La logica di securizzazione prevale su ogni interesse a conoscere gli abitanti del centro, tanto che, cittadini che non hanno mai frequentato la struttura o i suoi residenti, affermano che: «il centro dentro non l'ho mai visto, però le persone magari dovrebbero essere un po' piùcontrollate.»173

La presenza del Centro Vittorio nel quartiere di Ostia ponente è concepita come un fattore di rischio, sia dai cittadini sia, soprattutto, dai commercianti della zona: «non la vedo una zona molto sicura avere un centro di questo tipo qua.»174 Tali logiche permangono anche nei casi in cui i residenti del Centro Vittorio vengano descritti come non responsabili della delinquenza del quartiere, producendo narrazioni contraddittorie: «[i residenti] so che non portano problemi nella loro zona; però la sera io non ci girerei personalmente.»175, ciò nonostante venga riconosciuto al centro un miglioramento negli ultimi dieci anni e la zona sia vista come «più tranquilla».176

Il Centro Vittorio, nella storia recente di Ostia, è stato eletto a simbolo del degrado del quartiere dove risiede e ciò ha dato adito a mappature della città in cui è evidente una netta separazione tra la zona sud, ben vista, e la zona nord, separata e distinta dalla prima per il degrado e la delinquenza dilagante: «quando uno dice: “vado da questa parte di Ostia”, questa parte di Ostia tradizionalmente è sempre stata la parte peggiore, adesso è molto risistemata, però non è mai stata… era un po’ il Bronx!»177 Decisiva per questa percezione del quartiere è la presenza del Centro Vittorio,178 in particolare dei residenti del Centro Socio-abitativo, mal visti da una parte, non irrilevante, dei cittadini di Ostia:

 

li manderei ognuno a casa loro. Il problema più grosso è che è un ammasso di delinquenti, mascalzoni, tutta gente che è finanziata comunque giornalmente dallo Stato: mangiano gratuitamente, sporcano non puliscono. A che serve? […] sono tutti delinquenti, dalla alla zeta, meno il 4 o 5% che penso siano poveri disgraziati, il resto è tutta gente sfruttata. Io non sono razzista, ma sono hitleriano, capito? […] se tu sei straniero e ti comporti bene, bene, se tu vieni qui a distruggere, non sta bene. Se tu scappi dal paese tuo e paghi 10000 euro chi te li finanzia non lo so, […] poi vieni qui e vieni a fare il mascalzone, perché con quei soldi non sei rimasto a casa tua?179

Non è inconsueto che alcuni cittadini lidensi dichiarino apertamente le loro posizioni xenofobe e fasciste, fornendo giudizi di valore immotivati, dunque pregiudizi, considerando che gli stessi dichiarano di non aver mai frequentato il Centro Vittorio o di essere entrati in contatto con chi vi abita. Appare chiaro come, da questa tipologia di narrazioni, venga costruito il binomio stranieri/delinquenti, costante nelle narrazioni estremiste e latente nelle descrizioni del centro operate da cittadini più moderati, come emerso nelle narrazioni fin qui citate. Tale binomio è frutto soprattutto di un mancato contatto, che possa dirsi efficace, tra la popolazione italiana e quella straniera di Ostia. Ciò che emerge dalle narrazioni dei cittadini finora riportate è, infatti, una forte carenza di conoscenza del Centro Vittorio e dei suoi residenti, riscontrabile anche dalle narrazioni degli operatori degli attuali servizi sociali attivi presso l’ex colonia, come nel caso di un referente della Caritas che afferma: «Li insomma, io ho poche conoscenze nel senso che, sicuramente, è molto chiuso180

In generale, quello che emerge è una chiusura alla conoscenza dei residenti del centro da parte sia dei cittadini lidensi sia dei servizi dell’ex colonia; tuttavia, seppur esigui, non mancano i casi di cittadini che, in costante contatto con gli stranieri residenti in città, offrono interpretazioni globali circa la pessima reputazione di cui gode il quartiere nord della città, rintracciandone le motivazioni in una più generale condizione sociale di chiusura verso gli stranieri; come ci racconta Elena, una cittadina lidense, insegnante volontaria presso la scuola per stranieri del Centro Vittorio:

 

La percezione è che questa zona qui […] è brutta, è mal frequentata, punto. […] io quando ci passo ci passo, insomma, abbastanza spesso, non mi sembra di aver mai visto situazioni criminali o comunque cose del genere. […] Ma quella è una percezione che non dipende solo dal Centro, dipende un po’ da tutta l’opinione pubblica nazionale che, magari, qui ad Ostia si convoglia lì, ma così come si convoglia in altri posti d’Italia, che magari sono simili. È che comunque viviamo in un momento in cui è molto più forte l’opinione pubblica contro, che l’opinione pubblica a favore dell’integrazione, quindi eccolo lì che si sviluppa in questo senso; credo che sia questo il motivo per cui è questo quello che percepiscono. Mi sento dire: “eh! vai ad insegnare agli stranieri, agli immigrati, così questi ci rubano il lavoro!”.181

 

Elena riesce a scindere il costante binomio stranieri/delinquenti frequente nelle narrazioni dei lidensi, grazie al suo essere in contatto quotidiano con gli stranieri di Ostia. Imprescindibile per un’analisi del degrado del quartiere di Ostia ponente e per una piena conoscenza e rivalutazione del Centro Vittorio è, dunque, una partecipazione alla vita del centro e dei suoi residenti ed utenti:

 

Quel luogo forse bisognerebbe farlo conoscere, cioè bisognerebbe entrare nella vita delle persone che ci vivono, nel senso che, se i cittadini di Ostia, come di qualsiasi altro quartiere, entrassero nelle motivazioni che hanno spinto quelle persone a vivere lì, perché non hanno un altro posto, perché sono sfuggite da determinate situazioni, allora forse si riuscirebbe a farlo conoscere.182

 

4. «IL CENTRO VITTORIO È FATTO DI MURI»: Vivere la marginalità

 

 

Il Centro Vittorio è una realtà concepita e costruita, intenzionalmente, come marginale rispetto al territorio in cui risiede; questo determina il modo con cui questa realtà si rapporta con ciò che le sta attorno, ovvero la comunità e il territorio di Ostia, e il modo con cui, la stessa, si autodefinisce e regola la convivenza dei suoi residenti.

Nell’ottica di comprendere cosa significhi vivere in un contesto marginalizzato, in questo capitolo si procederà ad analizzare la qualità dei rapporti che il Centro Vittorio intrattiene con l’esterno e il tipo di relazioni presenti al suo interno.

Il primo paragrafo sarà dedicato alla valutazione delle relazioni che il Centro Vittorio intrattiene con l’esterno, nello specifico: i rapporti tra il centro ed i servizi presenti nell’ex-colonia, la cui qualità può ostacolare o, viceversa, favorire l’integrazione dei residenti del centro nel territorio di Ostia; i rapporti tra il centro e le istituzioni, nonostante siano per lo più assenti o conflittuali, hanno suscitato tra i residenti del centro interessanti processi partecipativi volti alla costruzione di un’interlocuzione con l’amministrazione locale; i rapporti tra il centro e il territorio, i quali risultano essere minati dai giudizi e pregiudizi che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, la comunità lidense ha prodotto sul Centro Vittorio.

La qualità delle relazioni che il Centro Vittorio intrattiene con l’esterno si ripercuote sulle relazioni che, invece, si instaurano all’interno di esso. Per questo motivo, nel secondo paragrafo, si procederà ad un approfondimento circa i rapporti interni al Centro Vittorio, nello specifico: le relazioni che intercorrono tra i residenti del centro, spesso di tipo conflittuale e fazioso e che possono degenerare in forme di esclusione ed autoesclusione sociale; le relazioni tra i residenti e il centro, in grado di determinare le aspettative e gli interessi che i singoli residenti hanno in merito al luogo in cui abitano, il loro grado di attaccamento di a quest’ultimo e l’eventuale senso di comunità che dovrebbe scaturire dall’esperienza di convivenza dei residenti all’interno di una realtà che, seppur marginalizzata, è stata originariamente concepita e costruita come centro socio-abitativo.

 

4.1 Le relazioni del Centro Vittorio con l'esterno

4.1.1 Le relazioni con i servizi

La marginalizzazione del Centro Vittorio si palesa innanzitutto nell’assenza di relazioni che intrattiene con i servizi presenti nella struttura dell’ex-colonia e, nei casi in cui queste siano intessute, nella loro qualità ed efficacia. L’analisi delle relazioni presenti e assenti tra il Centro Vittorio e i servizi dell’ex-colonia evidenziano due tendenze principali: un nucleo di reti che contribuiscono ad isolare e marginalizzare il Centro Vittorio e un nucleo di reti che, al contrario, tendono ad incrementare processi di integrazione dei residenti del Centro con il territorio. Del primo gruppo fanno parte tutte quelle reti potenziali ma assenti, deboli, limitate nella loro capacità d’azione o in cui si producono o riproducono rapporti conflittuali; del secondo, invece, fanno parte quelle reti intenzionalmente intessute in risposta ai bisogni e alle aspettative di integrazione provenienti dal Centro.

 

Le relazioni che incrementano la marginalizzazione

Per quanto concerne il primo gruppo di reti, una netta chiusura verso la possibilità di intrecciare una relazione con il Centro Vittorio proviene dal Centro Anziani, il cui referente, alla domanda se ci fossero rapporti con questa realtà, risponde con un perentorio: «Assolutamente no!»183. Il Centro anziani, pur rivolgendosi ad un target di età che si riscontra in porzione esigua tra la popolazione del centro socio abitativo, costituisce un’occasione non sfruttata di porsi quale alternativa ricreativa per alcuni degli individui residenti e, di conseguenza, con il suo atteggiamento di netta chiusura, contribuisce alla marginalizzazione di questo luogo.

Diverso e maggiormente complesso è, invece, il rapporto tra il Centro Vittorio e la Caritas, in merito al quale un referente di quest’ultima ci riferisce che:

 

Ci sono molte persone di loro [del Centro Vittorio] che vengono qui ad usufruire dei nostri servizi, tipo la mensa e il centro di ascolto; con alcuni c'è un rapporto, per cui, quando ci sono difficoltà, vengono a chiedere aiuto su come gestire alcuni casi. Li ci sono 7/8 nuclei familiari, […] a loro per esempio li abbiamo aiutati un pochino.184

 

In generale, dunque, le azioni assistenzialistiche della Caritas sono limitate, sia per quanto concerne i singoli che nei confronti di entità più grandi, quali i nuclei familiari. I rapporti tra la Caritas ed il Centro Vittorio sono esigui anche nella misura in cui il servizio di assistenza rintraccia nelle istituzioni la responsabilità di intessere una rete con il Centro maggiormente efficace, nonché nel rapporto indiretto che il servizio ha con il Centro, dal momento che si interfaccia con esso tramite referenti comunali e il presidente della Caritas cittadina Don Franco:

 

Lì c'è Don Franco, che ha creato questo comitato di lavoro, e Marco Noli, che è l'assistente sociale del territorio che si dovrebbe occupare un po’ di quel centro abitativo. Con loro si cerca di lavorare su quelle che sono le possibilità e le potenzialità. Adesso con la nuova giunta commissariata non so quale è l'idea su questa struttura, a livello politico fanno, stanno facendo delle valutazioni.185

 

Il rapporto che la Caritas intrattiene con il Centro Vittorio, poiché prevalentemente indiretto e rivolto ai singoli residenti e non al Centro quale entità unica, non ha un’efficacia tale da incidere in possibili azioni volte ad arginare i processi di marginalizzazione di questo luogo nel suo complesso inoltre contribuisce a rendere costante la scarsa conoscenza circa esso e il vissuto dei suoi residenti, riducendo la qualità delle azioni che il servizio rivolge a quest’ultimi:

 

Lì trovare una situazione di sanatoria e capire quali possano essere le politiche di integrazione sarà difficile; allora: se non c’è un gruppo di lavoro, a diversi livelli, per andare a vedere caso per caso, sarebbe da mettersi lì, parlare con le persone caso per caso e poi, in base alla situazione dei singoli, intraprendere percorsi specifici; perché per chi ha il permesso di soggiorno, chi è regolare, chi ha determinate caratteristiche, si può fare un lavoro di rivalutazione, riqualificazione, inserimento lavorativo; per chi ha problemi di natura abitativa, bisogna capire se possono accedere a percorsi di politiche abitative. Va valutato caso per caso, perché, fino a quando si pensa in maniera globale, è difficile anche gestire il numero di persone così alto, invece, caso per caso si entra nello specifico.186

 

Nonostante tale impostazione privilegi l’approccio verso il singolo, il referente riconosce come sia necessario accostare, alla presa in carico del singolo, un’attenzione alla collettività, rappresentata dai residenti del Centro Vittorio, e come tale azione si configuri come azione politica:

 

È vero che sono decisioni politiche, ma poi la politica è fatta da rapporti tra persone; il gruppo è fatto di persone quindi bisogna capire le singole persone; siccome lì non è un unico gruppo, ma credo siano raggruppate per etnie e lingue, ci sono esigenze diverse. Quindi è capire il fenomeno nel suo complesso […] per poter adeguare le risposte, perché una risposta generale non potrebbe essere adeguata per i singoli e la risposta per i singoli, sicuramente, potrebbe essere diversa rispetto alla situazione del gruppo. Quindi avere quella capacità di flessibilità tra una visione di insieme e la specificità. Quindi è questa, credo, la difficoltà; perché poi, chi decide a livello politico non ha la visione del singolo, e chi ha la visione del singolo non sempre ha la possibilità di decidere a livello politico; c'è questa, diciamo, schizofrenia del sistema per cui […] le associazioni che stanno a contatto con i singoli possono fare delle cose, ma non c'è una linea continua. Ci sarebbe da lavorare assieme: aspetto politico, generale, amministrativo, assistenziale. Se la persona viene presa in carico in maniera globale si affida pure, se no c'è la diffidenza; la diffidenza perché sente che qualcuno lo vuole aiutare però poi, nel frattempo, c'è uno che lo vuole cacciare.187

 

Un approccio valido sarebbe, dunque, quello di costruire una rete tra i servizi, le istituzioni e il Centro Vittorio, in grado di contrastare la diffidenza dei residenti di quest’ultimo dettata dalla mancanza di una linea politica unica a contrasto delle marginalità, la quale non consente di acquisire un’adeguata conoscenza del contesto:

 

la diffidenza da parte delle persone che stanno lì non permette di capire quali possano essere le reali esigenze che maturano lì, all'interno, e quindi di trovare anche delle soluzioni assieme, cioè: quando la persona viene e chiede, ci si attiva per, ma non sempre è cosi facile arrivare al nocciolo del problema.188

 

Tale diffidenza, tuttavia, è frutto anche dei rapporti tra i residenti, ovvero dalle relazioni interne che governano il Centro, in cui: «Sono subentrate modalità di autogestione un po’ più autoreferenziali, dove è un po’ più difficile entrare»189.

L’efficacia dei servizi offerti dalla Caritas, dunque, è minata non soltanto dal modo in cui il servizio si interfaccia con il Centro, ma anche dai rapporti che intercorrono tra i residenti di quest’ultimo. In merito al grado di utilizzo della mensa offerta dalla Caritas, ad esempio, sono emersi conflitti interni al Centro non di poco conto, come narrato da alcuni residenti:

 

Mosi: La Caritas, è lì che noi andavamo a mangiare prima…

Idris: No, ma adesso non andiamo a mangiare più lì.

Mosi: Non mangiamo più!

Mod.: Perché?

Mosi: Perché hanno chiuso//

Sekou: No, c’hanno detto che c’è uno rumeno, cioè uno rumeno mi ha detto, un polacco proprio: “la Caritas è per noi, non è per voi!”//

Mosi: Lì vanno solo i rumeni a mangiare, noi non andiamo più!

Sekou: Ah va beh, questo si rivela la guerra dei poveri, la guerra dei poveri!

Idris: È grave, molto grave; ci sono bambini e ragazze che non possono andare più a mangiare, ma loro hanno bisogno di andare a mangiare!190

 

Disconoscere le dinamiche interne al Centro implica, dunque, non poter attivare azioni adeguate di contrasto ai conflitti che ostacolano l’uso di servizi di vitale importanza per i residenti. Diretta conseguenza di questa carenza è una perdita di efficacia di servizi che, nonostante siano stati concepiti per favorire processi d’integrazione, non rispondendo in maniera adeguata e sufficiente ai bisogni degli individui ai quali sono dedicati, diventano uno dei fattori della marginalizzazione che si propongono di contrastare.

Una simile distorsione degli intenti originari dei servizi dell’ex-colonia si riscontra anche nel caso della Biblioteca Elsa Morante che, in quanto ente comunale, dovrebbe offrire attività dedicate all’intercultura, come riferitoci da una responsabile:

 

noi abbiamo questa sezione di libri in lingua, perché comunque le biblioteche di Roma hanno sempre avuto questo... hanno un ufficio centrale che si occupa dell'intercultura; noi facciamo anche scuola di italiano per stranieri, corsi di italiano per stranieri che fanno capo a questa organizzazione centrale dell'intercultura e prestiamo attenzione a tutte le realtà straniere che sono presenti a Roma; abbiamo anche costituito un fondo libri in lingua straniera, per chi vuole leggere ancora o mantenere la propria lingua […] Quindi, ecco, per dire che noi questo interesse per gli stranieri e sopratutto per dare la possibilità agli stranieri di avere informazioni, conoscenza, arricchirsi, avere la possibilità di integrarsi, noi ce l'abbiamo sempre avuto, come tutte le biblioteche, noi in particolare perché avevamo il centro socio-abitativo qui accanto.191

 

Le politiche e le azioni progettuali volte ad incrementare l’integrazione sono dunque predisposte dalle istituzioni, tuttavia non sono adeguatamente e sufficientemente attivate perché il Centro Socio-abitativo è una realtà i cui connotati non sono più riconosciuti dal servizio bibliotecario:

 

Purtroppo ultimamente è diventato solo un disturbo, è vissuto come un disturbo dal personale e dagli utenti, perché quando c'è la musica a tutto volume in estate, oppure accendono la carbonella e arriva il fumo perché devono preparare le pannocchie, chiaramente risulta solo un disturbo; alla fine, purtroppo, non c’è la possibilità di arricchirsi con conoscenze e culture diverse, come dovrebbe essere, perché sono troppo lasciati abbandonati, ad un autogestione che è difficile che possa nascere tra realtà diverse che convivono.192

 

Si è delineata, dunque, una situazione conflittuale verso la quale nessuna azione volta al dialogo è improntata dal servizio, ne consegue che la presenza del Centro Socio-abitativo è riconosciuta solo come fattore di disturbo. Un diretta ed estrema conseguenza di tale approccio è la delegittimazione, da parte della biblioteca, di una realtà tutt’altro che passata, seppur mutata, e l’assenza di volontà ad intessere un qualsivoglia dialogo denota un’intenzionale cesura del rapporto con il centro, il quale è reso muto e, perciò, annullato.

In sostituzione ad azioni volte al dialogo diretto, il servizio bibliotecario (come la Caritas) demanda alle istituzioni e al mondo dell’associazionismo, la responsabilità della gestione del Centro Vittorio ed ha costruito una rete, con la Caritas e la Comunità di Sant’Egidio, nell’intento di mantenere efficienti alcuni dei servizi rivolti alla popolazione straniera:

 

ci dovrebbe essere l' istituzione presente; per istituzione intendo dire il Comune o un'associazione importante a cui viene assegnata, perché per esempio con la Caritas […] stiamo facendo dei corsi di informatica con gruppi di persone della Caritas, però sono organizzati, c'è la Caritas che sta dietro (sono loro che selezionano il personale) e stanno già in un percorso d'integrazione, sono persone che stanno cercando lavoro, sono seguite e noi gli diamo l'opportunità di fare un corso di informatica […] o il corso di italiano per stranieri che anche la Caritas fa, cerchiamo di coordinarci avendo orari diversi e se magari qualcuno non può frequentare il nostro corso, per problemi di orari, può andare da loro oppure anche da Sant'Egidio. Una rete su questa cosa cerchiamo di farla quando c'è qualcuno con cui ti puoi rapportare, quando non c'è nessuno, accogli solo le persone che vengono individualmente e spontaneamente perché gli servono i servizi.193

 

Si evince che i suddetti servizi d’integrazione siano votati ad una logica in cui l’efficienza prevale sull’efficacia per una serie di motivi: sono generali, ovvero dedicati all’intera popolazione straniera residente nel Comune e non includono azioni tarate sulle specificità della popolazione del Centro Vittorio; la presa in carico è mediata da altri servizi (Caritas e Comunità di Sant’Egidio), perciò non vi è un rapporto diretto con quanto richiesto in origine dall’utenza e non è possibile raggiungere quei potenziali utenti che rimangono fuori dal bacino d’utenza dei servizi che mediano (che risultato cospicui se si considerano, come abbiamo visto, i conflitti interni che impediscono a parte dei residenti del Centro Vittorio di usufruire del servizio di mensa della Caritas); sono dedicati prevalentemente a chi è già inserito in un percorso d’integrazione, perciò il loro obiettivo generale non è quello di aumentare i percorsi di integrazione ma unicamente di potenziarli.

L’assenza di una relazione che includa un dialogo proficuo lascia un vuoto di rappresentanza del Centro Vittorio che i servizi bibliotecari non intendono colmare di propria iniziativa; ne consegue che il centro viene riconosciuto come entità unica solo nella sua accezione negativa, ovvero di fattore di disturbo, e le azioni d’integrazione improntate dal servizio registrano sporadici riscontri positivi soltanto in risposta ad individuali e spontanee iniziative da parte dei singoli residenti del centro. Quest’ultimo è il caso di Alphonse, l’unico tra tutti i residenti incontrati, ad usufruire in maniera costante dei servizi bibliotecari; egli fa luce su uno dei limiti di tali servizi, ovvero il loro disconoscere le reali condizioni di vita della popolazione del Centro Vittorio: «io vado spesso alla biblioteca, ci sono però delle persone qui che non sanno leggere e non sanno scrivere, quindi la biblioteca non serve a loro.»194 Da questa brevissima narrazione si evince come sarebbe necessario modulare i servizi bibliotecari in accordo con le reali esigenze dei residenti, attivando, ad esempio, corsi di alfabetizzazione preliminari al corso di italiano per stranieri.

I limiti dei servizi d’integrazione offerti dalla biblioteca, dunque, emergono nel momento in cui si rilevano i bisogni dei residenti del Centro Vittorio. Prestare ascolto alle esigenze dei residenti è uno strumento utile anche per far luce sulle potenzialità dei servizi, delle volte, non riconosciute dagli operatori dei servizi stessi. Uno dei pochi servizi, ad esempio, dimostratosi ai residenti del Centro Vittorio, oltre che efficiente anche efficace è la biblioteca per i ragazzi che, paradossalmente, proprio perché non limitata alla sola popolazione straniera, ha rappresentato un percorso d’integrazione di successo per parte della popolazione giovane che vive nel centro e,195 per tal motivo, potrebbe rappresentare una buona prassi da tenere in considerazione.

Fin qui abbiamo analizzato delle tipologie di relazioni, tra i servizi e il Centro Vittorio, solo parzialmente e sommessamente conflittuali; tal volta, invece, la mancanza di dialogo conduce a rapporti apertamente conflittuali che danno adito ad un clima di tensione difficilmente gestibile, come nel caso del rapporto tra il Centro Vittorio e l’ostello della gioventù Litus.

L’ostello dichiara di non avere alcun rapporto con i residenti del Centro Socio-abitativo, dal momento che offre un servizio dedicato ad un’utenza non residente nel territorio comunale (ben diversa, dunque, dai residenti del Centro); tuttavia, pur non essendoci i presupposti per un rapporto servizio/utente, queste due realtà occupano spazi attigui che li obbligano ad intrattenere relazioni di vicinato:

 

Non ci sono rapporti, ognuno fa il lavoro suo e basta, perché in mezzo poi ci sono delle realtà incredibili. […] c’è il degrado, tutto, e quindi ognuno si fa i fatti suoi, non c’è integrazione né collaborazione, solo muri! Per difendersi soprattutto! […] Basta affacciarsi e si vedono i problemi! […]perché se loro stanno lì, puliti e buoni, a noi che ce// anzi! Si potrebbe anche fare… no? Ma è proprio impossibile! Perché quando tu ti affacci e vedi capre morte e tutto quello che c’è, insomma, ti affacci incavolato.196

 

I residenti del Centro sono, dunque, portatori di un bisogno d’integrazione che, poiché non soddisfatto, emerge prepotentemente in un abuso degli spazi che impedisce una civile condivisione degli stessi ed ostacola una normale esecuzione del servizio dell’ostello che, d’altra parte, temendo il confronto con gli scomodi vicini (a meno che non stiano confinati nel perimetro di loro competenza “puliti e buoni”), innalza muri metaforici e di fatto.197

Per l’ostello, come per la biblioteca, il principale ostacolo al dialogo con il Centro è rappresentato dal vuoto di rappresentanza che si è venuto a creare al suo interno, nonché dalla mancata volontà dei servizi, in generale, di interfacciarsi propositivamente con la situazione di fatto, seppur carente di referenti forti. A tal proposito, parlando dell’assegnazione della struttura all’associazione Shaka Zulu (vedi 2.2.2), due operatrici dell’ostello riferiscono che il Centro Socio-abitativo risulta essere, formalmente, ancora assegnato ma: «è come se non lo fosse perché non c’è più nessuno, insomma non c’è un coordinamento, non c’è niente; anzi: uno scoordinamento198 e, in linea con l’atteggiamento della biblioteca, demandano alle istituzioni la risoluzione del conflitto con il centro:

 

tu non puoi fare niente, se non scrivere al Sindaco e al Prefetto che sono immobili: vengono ogni tanto, vedono, e poi tutto resta così; ma la cosa grave è che noi perdiamo soldi: tutti quelli che non entrano sono soldi persi! Non si riuscirà mai a fare una cosa bella come avevamo in mente: il progetto che avevamo in mente non possiamo farlo, perché ci sono tutte queste realtà che abbiamo intorno.199

 

Il prevalere degli interessi economici sulla volontà di agire in maniera propositiva, per intessere un dialogo fruttuoso con i residenti del Centro, è parzialmente comprensibile, se si tiene conto che i servizi offerti dall’ostello non sono sociali, bensì economici; tuttavia, obiettivi sociali, quali ad esempio la costruzione di una rete con il Centro che favorisca l’integrazione dei residenti, non dovrebbero essere esclusi dagli intenti del servizio, dal momento che la loro assenza si ripercuote negativamente sui profitti. Inoltre, a risentirne negativamente, oltre ai profitti, sono le azioni di progetto pensate originariamente per l’ostello che, non essendo state accompagnate da un’analisi di contesto adeguata, si rivelano fallimentari o irrealizzabili. Tale analisi di contesto, preliminare e necessaria per ogni azione progettuale, sarebbe stata facilitata se a monte fossero stati coinvolti attivamente i residenti del Centro che, al contrario, sono stati intenzionalmente esclusi:

 

In un certo senso siamo stati isolati dagli altri. Io ho litigato con questi della Valtour200, perché quando sono state fatte le trattative, a parte che non erano di Ostia, a parte che ce l'avevamo noi, […] io avevo espresso il desiderio che i ragazzi di questo posto andassero a lavorare e questi dell'ostello hanno preso un ragazzo africano non del centro, ma da fuori, per fare le pulizie. Io conosco bene questo posto, sono stata dentro anche durante i lavori e avevo un buon rapporto anche con le ditte.201

 

Nella progettazione dell’ostello, dunque, non vi è stata alcuna considerazione né del contesto sociale, nel quale l’attività sarebbe stata inserita, né del capitale umano che, già coinvolto attivamente nella riqualificazione degli spazi, avrebbe sopperito all’estraneità al territorio dei fautori del progetto; inoltre non vi è stata alcuna azione, successiva l’avvio del servizio (seppur facilmente attuabile), volta ad integrare i residenti del centro nelle attività dell’ostello. Conseguenza di questa esclusione, oltre il comprensibile senso di frustrazione dei residenti, è l’emerge di un clima conflittuale causato da un comune sentire, da parte dei residenti, di essere stati derubati di spazi ai quali avevano investito materialmente ed emotivamente.

Abbiamo visto come le relazioni fin qui analizzate risultano essere invalidate, nella loro efficacia, dalla mancanza di un dialogo costruttivo tra i servizi ed il Centro, nonostante ciò alcuni residenti di quest’ultimo, più dei referenti dei servizi, si distinguono nell’assumere un atteggiamento propositivo al quale bisognerebbe prestare attenzione:

 

Io penso che anche loro [i servizi] possono aiutarci, perché sono i più vicini a noi. Si dice che quelli che sono vicini hanno gli stessi problemi: […] se c’è casino al Vittorio, quelli del Litus non dormono bene e quelli della biblioteca non possono lavorare tranquillamente; quindi serve un collegamento tra di noi per imporre la pace.202

 

Ascoltando le narrazioni dei residenti emerge un bisogno sia di dialogo con i servizi, lungi dall’essere soddisfatto, sia di reinterpretare gli spazi dell’ex-colonia quale luogo da vivere collettivamente:

 

Direi che tutti dovrebbero ascoltarci, tutti dovrebbero, perché è importante anche per lo svolgimento del loro lavoro: basta incentivarli e fargli capire che sono importanti anche loro, sono importanti perché fanno parte di uno stesso ambito, è casa comune.203

 

Le relazioni che favoriscono l’integrazione

Accanto alle reti assenti, deboli e/o conflittuali che incrementano l’esclusione sociale dei residenti del Centro Vittorio, si registrano esempi di relazioni di fatto o potenziali che, al contrario, contribuiscono (o potrebbero contribuire) a favorire l’integrazione. Si tratta di relazioni che i residenti del Centro Socio-abitativo intrattengono con i servizi offerti dall’Istituto di Cultura Islamica, dalla Comunità di Sant’Egidio e dal Centro di salute mentale.

L’Istituto di Cultura Islamica, al quale ci si riferisce comunemente con “moschea”, offre servizi di lingua, quali lezioni di arabo e corsi di italiano per stranieri, e rappresenta un polo attrattivo per i musulmani che versano in condizioni di disagio; come spiegatoci dal suo Imam: «La moschea è un luogo abitativo: le persone che vivono per strada, il primo posto che cercano è proprio la moschea.»204 Nonostante ciò, il principale obiettivo della moschea è perseguire azioni volte a legittimare l’islam (quale religione al pari delle altre) nel tessuto comunale, tramite attività205 di informazione e divulgazione.206

Come gli altri servizi, la moschea, riferendosi ai residenti del Centro Vittorio, demanda alle istituzioni la responsabilità di attivare azioni volte alla loro integrazione («Si dovrebbe cercare di inserirli in qualche modo, sia per il lavoro che per l'alloggio; le istituzioni li hanno fatti entrare e quindi devono pensare a loro.»207), limitandosi ad offrire loro supporto spirituale: «Per i musulmani, adesso, c'è il problema occupativo, compito nostro è invitare la gente a pregare.»208

Sulla base delle osservazioni partecipanti effettuate preso il Centro Vittorio,209 la maggioranza dei residenti del Centro Vittorio professano la religione islamica e, pur nelle limitazioni fin qui analizzate, i servizi offerti dalla moschea non sono irrilevanti se si considera, per l’appunto, il maggior numero di musulmani; altresì non bisogna sottovalutare quanto il supporto spirituale ed emotivo possa favorire questi individui nei loro percorsi d’integrazione, i quali sono, oltre che politici, innanzitutto percorsi esistenziali. Tuttavia il supporto ai residenti offerto dalla moschea non è sufficiente ampio ed incisivo da poter essere assunto come variabile positiva nei processi di integrazione che riguardano il Centro Vittorio nella sua organicità.

Analogamente alla moschea e alla biblioteca, la Comunità di Sant’Egidio ha incluso nei suoi programmi progettuali attività volte a favorire l’integrazione:

 

abbiamo una scuola di italiano per stranieri e ci sono molti immigrati di religione islamica; […] qui c’è una testimonianza di una convivenza possibile, […] e l'idea della scuola è proprio quella: prima di tutto quella di comunicare, di insegnare una lingua che è un passo fondamentale verso l'integrazione; tu ti puoi integrare qua, ma se non so qual è il tuo pensiero, perché non lo sai esprimere… e poi in queste classi multietniche c'è un grande rispetto l'uno dell'altro, c'è un'attenzione sempre per ogni festa, per ogni cultura, per ogni religione, c’è un’idea proprio di un futuro.210

 

Il servizio è rivolto soprattutto alla popolazione straniera di religione islamica ed è agevolato, nella sua esecuzione, dai rapporti collaborativi che la Comunità intrattiene con l’Istituto di cultura islamica.211 Diversamente da quanto rilevato per la biblioteca, però, la Comunità di Sant’Egidio fornisce un servizio che trascende il mero obiettivo di educare gli stranieri alla lingua italiana, coinvolgendo una rosa di azioni i cui intenti sono quelli di creare percorsi di coesistenza pacifica tra le diversità. Tali azioni, tuttavia, sono generali (poiché rivolte alla totalità della popolazione straniera presente sul territorio) e risultano essere limitate nel momento in cui la Comunità si rapporta in maniera diretta con Centro Vittorio:

 

noi spesso andiamo trovarli là, [...] le persone che gestivano la chiesa erano le stesse persone che gestiscono, almeno allora erano le stesse, che gestivano il Centro Socio-abitativo; sono cambiate oggi però, in realtà, un po’ c'è il discorso della vecchia guardia che è un po’ rimasto: “voi siete quelli che ci siete venuti a togliere la casa”. In realtà, noi non abbiamo levato la casa a nessuno, noi siamo stati dieci anni ad aspettare prima che ce la dessero.212

 

Il clima di conflitto, nato con la fine dell’occupazione della chiesa e l’assegnazione di questa alla Comunità di Sant’Egidio (vedi 2.2.2), seppur sommariamente sanato, permane in una parziale e sommessa diffidenza, di una parte dei residenti, nei confronti della Comunità. Tuttavia la comunità, grazie ad una strategia in cui centrale è il dialogo, ha saputo costruire una relazione con i residenti del Centro:

 

io personalmente conosco le persone che vivono là, alcune di loro che vengono alla messa qua, […] alle Palme abbiamo fatto una cosa carina: era un po’ l'idea di costruire proprio una festa di popolo, allora noi siamo andati un po’ in giro per Ostia a distribuire gli ulivi, in segno di pace e di amicizia, molto semplicemente, così qualcuno si è ricordato che era domenica delle palme; siamo andati anche al Vittorio, da qualche amico, e devo dire che hanno gradito anche i non cristiani, hanno gradito il segno di pace, il nostro segno di pace. Basta un poco per superare questa idea vecchia che noi gli volevamo togliere la casa.213

 

Quella della Comunità di Sant’Egidio con il Centro Vittorio è, dunque, una relazione che nasce in un terreno maggiormente conflittuale rispetto alla biblioteca e all’ostello; nonostante ciò, la Comunità, ponendosi in ascolto dei residenti, ha saputo intessere un rapporto efficace con quest’ultimi, seppur limitato a sporadici eventi e spesso indirizzato a singoli residenti. La declinazione cristiana della Comunità di Sant’Egidio, però, non gli permette di intessere relazioni profonde con la parte di residenti non cristiani, nonostante le risposte di quest’ultimi verso essa siano positive e i buoni rapporti con la moschea. Esiste, dunque, un fondo di resistenze, dettate dalle confessioni religiose, che non permette di smantellare completamente la diffidenza dei residenti e/o a costruire un rapporto con il Centro che non sia limitato alle sole relazioni individuali.

Per quanto riguarda invece il Centro di salute mentale, il Centro Vittorio intrattiene scarsi rapporti con questo servizio; in generale i residenti del centro, essendo per la maggioranza stranieri irregolari, preferiscono affidare le proprie cure a realtà non istituzionali (come la Caritas) che gli garantiscono un accesso gratuito ai farmaci;214 il supporto per afflizioni non somatiche, inoltre, non è contemplato da questi individui quale bisogno primario, sebbene, nei fatti, lo sia e costituisca anche una tangibile condizione d’emergenza:

 

I problemi sono molto diversi, hanno tutti bisogno: ci sono quelli che sono disperati completamente ed hanno perso la voglia di vivere, ci sono anche quelli che non escono dal Centro Vittorio per mesi e mesi, perché sentono una sconfitta. Essendo che stando lì, non sentono nessuna esigenza quotidiana pressante e non sentono neanche quella voglia di stare fuori. Ci sono tante persone che hanno problemi psicologici, ma io penso che serve un approccio molto molto discreto per poter scoprire e curare, anche se si vede subito: quando c’è una rissa, per una piccola cosa o una piccola parola, e diventa grave.215

 

Il Centro di salute mentale rappresenta, pertanto, una delle relazioni che potenzialmente potrebbe favorire l’inclusione sociale dei residenti del Centro ma che, nei fatti, non è sfruttata, sia a causa di disinformazione dei residenti in merito ai servizi offerti ed ai diritti da loro posseduti in termini di accesso alle cure, sia per una mancata intenzione di contatto con il centro da parte dell’istituzione sanitaria. Questa relazione possibile ma assente è tutt’altro che nulla poiché, assieme alle reti fin qui analizzate, è indicativa di carenze che se colmate, potrebbero ostacolare la crescente marginalizzazione vissuta dal Centro Vittorio.

Le reti fin qui analizzate (siano esse potenziali, deboli, limitate o conflittuali) sono accomunate dalla tendenza ad assumere il Centro Vittorio come insieme di individui che si approcciano ai servizi in forma singola e di propria spontanea volontà e/o come una realtà priva di un’organicità tale da potersi interfacciare, alla pari, con il servizio. L’unica realtà che si discosta dalla tendenza è rappresentata dal Teatro del Lido che si rapporta da anni con il Centro Vittorio quale centro socio-abitativo e realtà collettiva organica.

Ripercorrendo la storia del teatro attraverso le narrazioni del suo operatore di rete, si evince come questa si sia intrecciata più volte con quella del Centro Vittorio:

Storicamente abbiamo coinvolto, dal 2002 al 2008, gli abitanti del centro in progettazioni comuni, quindi nel primo quinquennio c'è stata molta condivisione: spettacoli costruiti insieme, poi distribuiti anche in tutta Italia, e processi generati dentro la scuola con incontri con gli studenti. Fino al 2008, la vita dentro il centro abitativo era molto molto più vitale, c'erauna capacità di incontrareilquartiere elacittà; poi, invece, si è andata disperdendo purtroppo, fino alla crisi attuale.216

 

La crisi attuale vissuta dal Centro Vittorio mette alla prova il rapporto collaborativo con il teatro, tuttavia, sebbene con il centro:

 

[…] non c'è una dialettica, diciamo, ufficiale, perché la comunità del centro socio abitativo è spezzata, frammentata, molto, molto fragile, e quindi incapace di esprimere una visione e un desiderio di collaborazione, ci sono domande sparse che vengono da diversi cittadini che abitano lo spazio, domande di condivisione delle problematiche e magari domande intrinseche diprogettazione comune.217

 

Le intenzioni di collaborazione del Teatro del Lido con il Centro Vittorio, dunque, non vengono meno con la presa di coscienza delle problematiche che affliggono quest’ultimo; al contrario il Teatro, riconoscendole ed analizzandole, riesce a prestare attenzione alle richieste implicite che il Centro muove e a concepire proposte progettuali ad esso dedicate:

 

L'anno scorso abbiamo messo su il laboratorio “Enea” sugli immigrati e sulle loro storie di vita, che ha portato ad un racconto di varie biografie; quest'anno cercheremo di rimetterlo in piedi e cerchiamo anche di proporre una programmazione attenta alle esigenze interculturali, sulla sensibilizzazione della conoscenza delle culture altre.218

 

Il laboratorio “Enea”, tuttavia, ha rappresentato un’occasione persa per il Centro Vittorio, dal momento che non ha raggiunto la partecipazione che il Teatro aveva preventivato: in primo luogo, per l’assenza di un trattamento economico correlato; secondariamente, per i rapporti conflittuali tra i residenti del Centro. Alphonse è stato uno dei pochi residenti del centro a partecipare ai primi incontri del laboratorio, prima di abbandonarlo, e ci spiega quali sono state le motivazioni alla base di questa sua scelta:

 

Il laboratorio era molto interessante ma mi sono tirato indietro per un motivo: il motivo è che quelli che sono al Vittorio non vogliono farsi avanti quando si tratta di una cosa del genere, però sanno scegliere tra chi favorire e chi non proteggere. […] Una persona maltrattata, in una comunità così, quando va in una scena dà il meglio di sé, però, dentro, non è contenta, perché dove vivo ti maltrattano: è come una forzatura e se tu non vai, avrai delle conseguenze.219

 

Alphonse, dunque, pur essendo interessato all’attività teatrale, decide di non proseguire questa esperienza poiché vissuta come una costrizione e un abuso da parte degli altri residenti, i quali, non avendo un ritorno economico, decidono di non parteciparvi ma, allo stesso tempo, riconoscono la necessità che ci sia una presenza del Centro presso il teatro, affinché si possa portare in scena le problematica vissute in questo luogo, perciò costringono alcuni residenti a fare le veci di tutto il Centro:

 

se non sono voluti venire era proprio perché non c’è un trattamento economico allegato a questa opera, quando c’è un trattamento economico legato a questa opera loro non mi informano; mi capisci? Allora lavano le mani e mi mandano d’avanti.220

 

Il laboratorio “Enea”, dunque, pur essendo concepito per favorire l’integrazione dei suoi partecipanti, non avendo dialogato in profondità con i residenti, non ha tenuto conto dei bisogni materiali della maggior parte di loro; inoltre non ha colto la portanza della conflittualità presente nei rapporti tra questi individui che, di fatto, ha precluso la possibilità di partecipare ai laboratori anche a coloro i quali erano interessati a farlo (indipendentemente dalla presenza o meno di un trattamento economico). In questo caso si è prodotta l’assurda condizione, opposta alle tendenze precedentemente analizzate (Caritas e biblioteca), per la quale il Centro Vittorio viene integrato ed il singolo marginalizzato.

Nel tentativo di proporre una programmazione attenta alle esigenze del territorio, il Teatro del Lido ha organizzato dei tavoli partecipati, aperti a tutte le realtà del terzo settore ed i cittadini di Ostia, mediante i quali imbastire le future attività teatrali, anche nell’intento di «proporreuna programmazioneattentaalleesigenzeinterculturali»221; tuttavia, nessuno dei residenti del Centro Vittorio ha preso parte a questi tavoli. Alcuni riportano di non esserne venuti a conoscenza, come Alphonse che, se fosse stato presente, avrebbe potuto offrire un contributo prezioso al processo partecipativo:

 

Essendo africano, io mi aspettavo un teatro che dimostra la perplessità della cultura africana, anche la politica africana, messa in teatro. Mi aspettavo che quel Teatro poteva essere un centro dove una volta all’anno, due volte all’anno, un africano con me poteva prendere il microfono e dire alla gente cosa esiste politicamente da noi. Quando si parla di Boko Haram, per esempio, nessuno sa l’origine, sappiamo soltanto che uccide la gente e nessuno sa veramente la storia della Nigeria, da dove queste cose sono provenute e come fare a risolvere. Questa carenza c’è anche mediaticamente: quando alla televisione, parlano superficialmente di queste cose. Un altro esempio è l’immigrazione: è nota da noi tutti, tutti sanno che ci sono degli sbarchi, ma non si parla mai di quali sono i progetti, di come si concepisce questa missione di lasciare il paese e come possiamo sradicare questa tendenza. […] Il senso è che il teatro non entra in diversi temi che toccano la quotidianità, […] servono temi appropriati al tempo che noi viviamo.222

 

Indipendentemente dalle preferenze artistiche del singolo, la volontà del teatro di proporre una programmazione attenta alle esigenze interculturali è venuta meno, sia per un mancato dialogo profondo con i residenti del Centro ed un’analisi delle conflittualità presenti al suo interno, sia per l’assenza di iniziativa dei singoli residenti che, intimiditi o più semplicemente disinteressati, non sono riusciti a porsi oltre i conflitti ed offrire un contribuito al teatro e, soprattutto, a darsi e a dare al Centro in cui vivono una possibilità di visibilità nel territorio.

Nonostante i limiti, i fallimenti e le difficoltà fin qui fatte emergere, il rapporto tra il Teatro del Lido e il Centro Vittorio è da considerarsi proficuo poiché il primo dimostra di avere i requisiti per riuscire ad interloquire con il Centro Vittorio assumendolo come realtà organica, pur non essendo essa, nei fatti, realmente coesa. Le esperienze del Teatro possono essere considerate delle best practices perché sono in grado, quanto meno negli intenti, a mantenere uno sguardo progettuale: il teatro conosce la storia del Centro e le sue problematiche e, al contempo, ne riconosce le potenzialità e ne intravede un futuro.

Le due tipologie di reti, quelle che incrementano la marginalizzazione e quelle, all’opposto, che favoriscono l’integrazione, non è inconsueto che coesistano, s’intersechino o si sovrappongano, dando esito a rapporti diversi e difficilmente definibili. Questi rapporti, infatti, poiché spesso multipli e contraddittori, generano esiti inaspettati per i quali, nel medesimo tempo, il singolo è integrato ed il Centro marginalizzato o viceversa. Tali dinamiche dipendono, principalmente, dal modo in cui il Centro Vittorio si muove all’interno di questi rapporti e dalla maniera in cui questo è assunto, nella relazione, dal servizio. Generalmente, se i residenti usufruiscono dei servizi in maniera individuale, l’esito è quello di un rapporto che sopperisce a bisogni primari (Caritas e Centro di Salute mentale) e secondari (biblioteca) della persona ed incrementa l’integrazione - sebbene soltanto al livello del singolo o, nel caso dei servizi gestiti da confessioni religiose (moschea e comunità di San’Egidio), a livello di settori della collettività (solo i cristiani, solo i musulmani) che, in ogni caso, sono da intendersi quali insieme di individui indipendenti gli uni dagli altri poiché agiscono in forma singola. Se nella relazione che si costruisce tra il centro e il servizio, il primo è assunto come collettività legittima, le diversità interne sono incluse ed accettate durante il processo conoscitivo e si avrà un incremento dell’integrazione (teatro), pur con il rischio della marginalizzazione di alcuni soggetti; al contrario, se il Centro è disconosciuto e delegittimato, l’esito sarà quello della produzione di un rapporto esplicitamente conflittuale che sfocerà in processi tangibili di marginalizzazione (ostello).

 

4.1.2 Le relazioni con le istituzioni

Le relazioni del Centro Vittorio con le istituzioni sono sostanzialmente relazioni recise, a partire dall’indebolimento del modello di autogestione, con la dissoluzione dell’associazione Shaka Zulu (vedi 2.2.2), e dalla diminuzione del coinvolgimento delle amministrazioni nella vita del centro. La delegittimazione del Centro Vittorio, dunque, ha inizio con il defilarsi delle istituzioni in quel processo sperimentale che ha portato questo luogo a diventare un centro socio-abitativo autogestito (vedi 2.2.2), all’epoca unico nel suo genere; le istituzioni, infatti:

 

si sono limitate ad affidare questo spazio all'associazione Shaka Zulu e poi, sostanzialmente, lo hanno un po' abbandonato alla lorosorte e quindi la comunità, finché ha avuto capacità di reggersi sul modello dell'autogestione, è andata avanti, grazie soprattutto alla presenza e al supporto dei militanti italiani che si sono impegnati, in maniera diciamo molto generosa; dopo di che, quando questo nucleo, nel 2007-08, è andato via, viene risucchiato da altre problematiche […] e le istituzioni, su questo, sono state totalmente assenti.223

 

L’assenza delle istituzioni, privando il Centro Vittorio di supporto, ha concorso al declino dell’autogestione:

 

dal 2008-2010 il centro è stato abbandonato, con il cambio di regime diverso, con il crescere della parte fascista della destra, perché stanno crescendo, e con la giunta comunale che non ha potuto rispondere. C'è stato un lassismo nel rispetto verso questo posto e verso gli altri perché il comune e le istituzioni non si sentivano in grado di ristrutturare i posti e, così, si facevano leva su quelli che stanno lì, di andare via; poi la crisi pure ha complicato tutto: i fondi non sono più stanziati e quelli che sono stanziati vengono gestiti male, questo ormai lo sappiamo.224

 

Se l’assenza delle istituzioni, da un lato, ha concorso al degrado della struttura, dall’altro ha permesso il perpetrarsi di un clima di relativa calma, nonostante il lassismo generale, fino al 2014, anno in cui le istituzioni tornano ad avere voce in capitolo sul centro mediante una politica fatta di tentativi di revocare, a questa realtà, l’assegnazione della gestione degli spazi, e minacce di sgombero coatto dei residenti. Il clima di precarietà, che tale politica ha generato all’interno del Centro Vittorio, ha incentivato alcune realtà del terzo settore lidense e il centro stesso, ad intessere una rete di collaborazione per la creazione di un coordinamento del, e per, il Centro Socio-abitativo, al fine di interloquire con le istituzioni.

 

La revoca dell’assegnazione e le minacce di sgombero

I tentativi di revoca dell’assegnazione fanno leva su un generale furto della memoria delle passate amministrazioni:

 

Noi l'assegnazione c’è l'abbiamo, ma l'anno scorso sono venuti e ci hanno denunciato, […] ci hanno mandato dei vigili per fare il censimento e io gli ho presentato le carte: essendo l'unica dell'associazione, ci hanno fatto un verbale di occupazione quindi non si capisce se è stato assegnato o no. Questi sono i giochetti che fanno loro.225

 

Una modalità ormai consolidata negli ambiti amministrativi è quella dell'obliterare quanto progettato dai precedenti quadri istituzionali, in forza di una logica di delegittimazione del vecchio a favore del nuovo che, inevitabilmente, porta ad una perdita totale di quanto costruito in precedenza. Il Centro Vittorio non sfugge a questa dinamica e si ritrova, così, vittima di politiche ambigue che lo hanno gettato in un profondo smarrimento identitario; ciò ha innescato una serie di processi di delegittimazione del luogo, da parte delle istituzioni, a cui i residenti non riescono a porre un freno.

La revoca dell'assegnazione degli spazi al Centro Socio-abitativo, formalmente, non trova riscontro in alcuna decisione amministrativa ufficiale, tuttavia di fatto si è maturata nel tempo con varie azioni politiche di delegittimazione del centro e dei suoi residenti: dinieghi nei rinnovi dei permessi di soggiorno; minacce imminenti di sgombero; censimenti che, di fatto, si sono rivelati essere perquisizioni dalle dubbie modalità.

In merito ai dinieghi nei rinnovi dei permessi di soggiorno, si registra un aumento esponenziale del tasso di irregolari, tra i residenti del Centro Vittorio, in coincidenza all’emergere delle pretese istituzionali sul centro,226 in netto contrasto, quindi, con quanto riportato dalle istituzioni stesse durante l’ultimo censimento (vedi 2.2.3). In considerazione delle variabili prettamente individuali, relative alle revoche dei permessi di soggiorno, non è possibile stabilire un nesso diretto tra le politiche di rivendicazione del luogo da parte delle istituzioni, e i dinieghi alle richieste di permanenza sul suolo nazionale; tuttavia, l’impossibilità di rinnovare i permessi ha innescato un processo di perdita di autorità sia del singolo residente, sia del Centro Socio-abitativo, nella contesa riguardo l’assegnazione di quest’ultimo che, di conseguenza, avalla la delegittimazione generale del centro e favorisce la rinegoziazione dei termini per la sua gestione. I residenti, privati dello status che gli garantiva di vivere legittimamente sul territorio, da gestori del centro sono diventati, formalmente, oltre che clandestini, degli occupatori abusivi del luogo, poco importa se per anni abbiano legittimamente autogestito quest’ultimo e se lo stesso fosse il loro domicilio e, spesso, la loro residenza, istituzionalmente riconosciuta.227 Il cambio di status della maggioranza dei residenti del centro, seppur formale, è difficile da accettare, soprattutto in considerazione della lunga permanenza nel luogo, e in generale sul territorio, di questi individui:

 

Le istituzioni dicono che vogliono recuperare questo posto per darlo ai cittadini; […] Io lì mi sono fatto una domanda: ma perché le persone che ci abitano non sono cittadini? No, perché, lo vogliono restituire, diciamo, per fare degli uffici per la polizia, da quanto ho saputo, così da poter essere utile ai cittadini, invece, per loro che ci vivono? non serve a loro in quanto cittadini?228

 

In sostanza, la gestione del centro non è stata riconosciuta, al pari di qualsiasi altro lavoro regolare, sufficiente come requisito per mantenere lo status di cittadino e, di conseguenza, ciò ha ostacolato la regolare autogestione del posto per un minore coinvolgimento dei residenti, trovatisi, dall’oggi al domani, a vivere una situazione schizofrenica per la quale risultano essere, al medesimo tempo, cittadini di fatto e clandestini ed abusivi per le istituzioni.

L’indebolimento del modello di autogestione ha avallato le rivendicazioni delle istituzioni, palesatesi, nell’agosto del 2014, in una perquisizione del luogo, con il pretesto di eseguire dei censimenti:

 

Un giorno è arrivata, alle sette di mattina, tutta la caserma dei vigili ad Ostia dicendo che stavano facendo dei censimenti, […] invece erano denunce che noi siamo qui abusivi, che noi dovevamo uscire da qui.229

 

I residenti erano soliti ricevere le visite da parte dei vigili per le procedure riguardanti le loro richieste di residenza, per cui la loro reazione immediata è stata quella di non reagire all’incursione, ritenendola uno dei tanti controlli di routine; successivamente, avendo compreso che “il censimento”, di fatto, era una minaccia di sgombero:

 

abbiamo preso avvocati per capire che cosa è successo, che cosa rischiamo e chi era questa gente e come mai non hanno fatto censimenti normali, invece, hanno fatto denuncia a una comunità; noi non abbiamo spaccato porte ed entrato abusivamente, questo posto è stato assegnato […] La seconda cosa che abbiamo fatto, abbiamo chiesto incontro con presidente di municipio, tre assessori, di affari sociali, assessori lavoro sociale, per chiedere come mai si sono comportati così senza dirci niente.230

 

Il tentativi di interlocuzione con le istituzioni sono molteplici: i residenti hanno presidiato il Municipio tre volte, altrettante sono state le occasioni in cui il sindaco non si è presentato agli appuntamenti loro concordati e, in una di queste occasioni mancate, i residenti hanno dovuto subire anche un presidio contro di loro realizzato da CasaPound.231A sei mesi dalla perquisizione, i residenti sono stati ricevuti dal sindaco:

 

Siamo andati al Comune e abbiamo incontratoil presidente del municipio Tassone. […] e c’era tutta la giunta, facevano riunione con lui, perché la giunta era incazzata con lui perché non sapevano niente di questa loro operazione e chiedevano anche loro spiegazioni; quindi, in quella riunione, […] lui ha accettato che vedrà la situazione da qui a sei mesi; abbiamo detto lui: “guarda, ritirate questa denuncia che avete fatto qui perché non è legale, non è legale, noi non siamo abusivi, e poi datemi i fogli del protocollo dove dice che il Vittorio è stato assegnato dal Municipio, perché questo esiste!”232

 

Spaccate al loro interno e ree di aver obliterato l’assegnazione del Centro Vittorio, le istituzioni mancano alla loro promessa, anticipati dallo scandalo di “Mafia Capitale” (vedi 2.1.1) e dall’arresto del sindaco. Si vanificano, così, gli impegni presi nei confronti dei residenti e gli innumerevoli sforzi di quest’ultimi per stabilire una relazione con le istituzioni. Tuttavia, “Mafia Capitale”, in un certo senso, dona ai residenti più risposte di quante ricevute fino ad allora:

 

Hanno fatto questa cosa, questo tentativo, alcuni Mafia Capitale per prendere questo posto e portare i rifugiati! Per avere questo posto e farne un centro d’accoglienza. Ci stava dietro quello famoso, quello della cooperativa,233 insieme con la complicità del presidente del Municipio. Noi siamo fortunati perché lo scandalo di “Mafia Capitale” ha messo occhi su di loro: […] la prima voce di sgombero e la prima operazione di sgombero è stata Mafia Capitale, erano loro dietro questa cosa.234

 

I residenti, dunque, sentendosi vittime dell’infiltrazione mafiosa nella giunta municipale, accolgono positivamente lo scandalo di “Mafia Capitale”, anche nella speranza che ciò sposti l’attenzione dell’opinione pubblica sulle istituzioni e li liberi dal fardello di essere strumentalizzati dalle malefatte dell’amministrazione e costantemente resi capri espiatori di colpe a loro non imputabili.235 Tuttavia, tale speranza ha durata breve, poiché, alla vigilia del commissariamento municipale, il Centro Vittorio è protagonista di un nuovo “censimento”,236 le cui plateali modalità (gran numero di agenti in tenuta anti-sommossa, cani antidroga, pattuglie e camionette)237, sono quelle di un vero e proprio blitz.

Durante l’azione delle forze dell’ordine, i residenti presenti riportano di aver tentato, invano, di interagire con gli ufficiali:

 

Oggi loro sono arrivati con i cani e tutto quanto ed ho detto: “Qual è il problema?” e loro hanno detto: “Siamo qui per fare i controlli”, ho detto: “Va bene, posso sapere quello che chiedete?”, […] “Posso vedere il mandato del giudice? Che ha mandato voi qua per controllare tutte le cose?” – “Il mandato non l’abbiamo” – “E chi vi ha mandato?” – “Il Sindaco Marino” – “Ma il sindaco è il primo cittadino, può mandare senza seguire le regole?” […] e dicono: “Il signor Marino può fare come gli pare, può mandare chiunque e possono venire a controllare chi siete qua”, allora mi sono detto, se è così veramente mi dispiace, perché così non è, perché oggi chiunque porti una divisa, viene qua e ci dice: “Io sono un vigile” e controlla le persone, e la sicurezza nostra? […] Loro hanno detto che possono fare quello che gli pare a loro, nessuno che possa impedirglielo, perché questo palazzo è del Comune e il Comune può entrare qua quando vuole. Io dico: “Si, va benissimo” ma non è che noi qua siamo abusivi, loro l’hanno assegnato!238

 

Unitamente alla frustrazione di non ricevere risposte, vi è anche rammarico nel subire una violazione del proprio domicilio e non vedersi riconosciuto il diritto alla sicurezza propria e del luogo in cui si abita. I residenti, inoltre, soffrono per la condizione di impotenza che sono costretti a vivere, acuita dal timore che una loro eventuale reazione gli si possa ritorcere contro:

 

non ti spiegano proprio niente e non vogliono neanche che tu fai una domanda, domandi e ti creano un problema: ti arrestano, ti mandano lì, in commissariato, e poi come fai? E poi ti creano pure un casino con le tue pratiche. Ecco perché nessuno di noi vuole avere problemi, ecco perché qui tanti di noi sono zitti, perché sappiamo che […] c’hanno potere, possono fare quello che vogliono e noi non possiamo fare niente.239

 

L’elevato senso di frustrazione ed impotenza, inevitabilmente, porta i residenti a covare rabbia nei confronti delle istituzioni, dalle quali si sentono traditi e per le quali provano una profonda sfiducia:

 

Io li evito perché finisco sempre alla questura, io li evito perché a me delle prese per il cu// delle stupidaggini, uno che c’ha il diritto di mettere pace tra la cittadinanza e ti mette fuoco! Io ti vado contro perché tu non sei un educatore, tu c’hai il diritto di un educatore, tu c’hai il vestito dello Stato che deve mettere pace, sicurezza, deve educare la cittadinanza, tu non devi venire come un aggressore, se vieni come aggressore io mi presento come ( ) “coniglio con coniglio, leone con leone” questo è il mio detto, e poi non me ne frega niente dove vado a finire, chi sei, non me ne frega niente, però è la mia dignità, è l’unica cosa che posseggo dopo tanti anni, è la mia cosa! Non è che sono arrivato ieri che dico “va bene se è così…” no, ho capito che non cambia! ((batte il pugno sulla mano)).240

 

Il diritto, violato, al riconoscimento di pari dignità rispetto ad ogni altro cittadino e il bisogno, disatteso, di un’interlocuzione alla pari con le istituzioni (accusate di abuso di potere e prevaricazione dei diritti della persona), conduce i residenti a sentirsi delegittimati in quanto persone ed innesca sentimenti di profonda collera:

 

siamo esseri umani, possiamo sbagliare, per questo c’è la legge! […] noi non possiamo impedire che lo Stato italiano venga a controllare, ha il diritto al cento per cento di farlo, perché noi viviamo qui in Italia e dobbiamo rispettare la legge italiana, come rispettiamo la nostra legge al nostro paese; ma anche loro devono avere rispetto totale nei nostri confronti. […] Io conosco la legge italiana e conosco tutta la Costituzione italiana che dice come ci si deve comportare, allora pure tu devi sapere che io c’ho il mio diritto e il mio dovere, ma se tu non vuoi capire questo, allora facciamo guerra.241

 

Fulcro delle rimostranze dei residenti ed oggetto di aspre critiche sono, in sostanza, le modalità con cui le forze dell’ordine hanno condotto le perquisizioni, più che l’autorità in sé delle istituzioni di svolgere le stesse. Inoltre, l’ampio dispiegamento di forze dell’ordine, durante il blitz, è stato tale da destare critiche e sospetti anche negli stessi cittadini di Ostia testimoni della vicenda, i quali hanno definito l’azione come:

 

un'azione di controllo spropositata e mai vista ad Ostia e, soprattutto, operazioni del genere non sono mai avvenute in merito ai sequestri di beni confiscate alla mafia e in tutte le operazioni avvenute per “Mafia Capitale”; è come se l'amministrazione abbia quasi inscenato, per dare anche un qualche messaggio alla luce della proposta di sgombero di qualche giorno fa nell'articolo242 pubblicato sul giornale “La Repubblica”.243

 

Il sospetto, comune sia per i residenti del Centro che per parte della popolazione lidense, è che il blitz facesse parte di una strategia politica dei commissari per spostare l’attenzione dagli scandali di “Mafia Capitale” al Centro Vittorio, rendendo quest’ultimo un capro espiatorio.

Il centro sarebbe stato, dunque, strumentalizzato per la rappresentazione di un cambio di rotta politico e per avallare le proposte di sgombero anticipate nelle dichiarazioni244 di Alfonso Sabella;245 gli stessi risultati dell’incursione sono messi in dubbio a favore di questa tesi:

 

È dalla dichiarazioni di Sabella che è partito il processo di sgombero, […] infatti, sono venuti varie volte per trovare un motivo valido per sgombrare; ad esempio quando sono arrivati e hanno detto che hanno trovato 500 grammi di marijuana, però gli abitanti dicono che non l'hanno trovata all'interno, ma all'esterno del socio-abitativo. Quindi questo era uno dei piani, dal mio punto di vista, per trovare la scusa giusta per poterli mandare fuori.246

 

La risposta immediata dei residenti del centro al blitz è stata quella di stilare un comunicato stampa,247 al fine di contrastare la dilagante diffamazione di cui sono stati resi vittime, innanzitutto dalle istituzioni e, successivamente, dai media; tuttavia il comunicato, sebbene inviato ad una ampia rosa di testate giornalistiche e tv locali, ha avuto scarsissima pubblicazione (in forza anche della linea a sfavore dei residenti adottata dai media stessi) di conseguenza tale azione ha avuto un impatto pressoché nullo sulle istituzioni e sull’opinione pubblica.

 

Il coordinamento del Centro Socio-abitativo

Il comunicato stampa del Centro Vittorio, oltre che ai media e alle istituzioni, muoveva esplicita richiesta di supporto a tutto il terzo settore lidense, affinché il centro potesse costruire un dialogo con l’amministrazione comunale e municipale; nonostante non sia stato adeguatamente divulgato, il suo messaggio ha raggiunto la Caritas locale, nella persona del suo presidente Don Franco De Donno, il quale ha deciso di mobilitarsi:

 

L’esigenza è partita dal dare una specie di identità a questo gruppo, a questa realtà, perché se no, veniva considerata una kasbah, veniva considerata qualcosa di confuso […] un dormitorio senza nessuna socializzazione e controllo, cose che una volta c’erano… Una volta era proprio evidente che c’era una volontà di socializzazione, attraverso la scuola di italiano, attraverso gli incontri culturali, attraverso il bar stesso. […]Io mi sono allertato perché loro, in questo modo, potrebbero essere preda di qualunque avvoltoio, considerando anche le istituzioni avvoltoi!248

 

L’allerta del parroco ha fatto si che, in breve tempo,249 si costituisse una rete con realtà del terzo settore sensibili alla causa del Centro Vittorio, tra le quali il Teatro del Lido, il cui operatore di rete ha proposto di costruire un comitato e un’assemblea pubblica per coinvolgere le energie presenti sul territorio ed interfacciarsi con le istituzioni:

 

per chiedere quali siano le intenzioni rispetto agli spazi; ciò nasce da questa esigenza di capire se c'è un futuro o meno dentro il Centro Vittorio; […] e dal fatto che c'è la spinta della città a sgomberare gli spazi occupati concepiti come spazi insicuri, illegali o semi-illegali.250

 

L’obiettivo comune della rete del terzo settore, infatti, è quello di costruire un coordinamento del Centro Vittorio in grado di avviare un dialogo con le istituzioni affinché queste, anziché minacciare di sgomberare coercitivamente il centro, progettino soluzioni sostenibili all’emergenza abitativa dilagante sul territorio comunale, poiché: «Sgombero vuol dire strada, senza alternativa! Almeno, così come si fanno a Roma, gli sgomberi sono senza alternativa.»251

L’attenzione di questa neo-costituita rete verso le sorti del centro, ha sollecitato i residenti a riflettere criticamente sul passato, il presente e il futuro del luogo in cui abitano; ciò li ha condotti, innanzitutto, a riconoscere quanto il modello di autogestione del Centro Socio-abitativo sia fallito, secondariamente, a mettere da parte la sfiducia nei confronti delle istituzioni, in favore della costruzione di un ponte con le amministrazioni per ricevere supporto:

 

Vediamo ora l'inadeguamento di questa cosa che si chiama l'autogestione, perché, alla fine, sta diventando un centro di bullismo e di prepotenza, tutto dovuto al fatto che le istituzioni qui chiudono gli occhi. A volte dico che da soli non ce la faremo, […] ci vogliono le istituzioni dietro ogni amministrazione del luogo, se non ci sono, ognuno si sente debole.252

 

Nel riconoscere il fallimento del modello di autogestione, i residenti chiedono alle istituzioni la legittimazione del Centro Vittorio, come realtà sociale organica, ed un maggiore coinvolgimento nella cura, oltre che materiale, anche sociale del centro:

 

La nostra richiesta è che ci considerino come comitato, come una comunità di un centro socio-abitativo non abusivo. Chiediamo che il Municipio apra attività culturale e sociali, anche perché non puoi avere più di centoventi immigrati e non fare niente, nessuna attività culturali, nessun dialogo, nessuna cosa, ci sono bambini, ci sono anche lavoratori. La gente che lavora al Comune ha un ruolo sociale di cura della struttura; assessore affari sociali, assessore culturale, tutta questa gente deve avere attività correlative con la comunità di Vittorio come prima c’erano, come eravamo prima.253

 

L’interesse di alcune realtà del terzo settore, nonché le riflessioni critiche dei residenti sul centro, costituiscono le premesse che hanno innescato una serie di incontri ed assemblee finalizzate alla redazione di una lettera per chiedere alle istituzioni un incontro con il coordinamento del centro. L’importanza di questi incontri e di queste assemblee si rintraccia, più che nella redazione della lettera, nel aver rappresentato un tentativo di costruire un processo, partecipato e negoziale, che permette di far luce sulle criticità e le potenzialità della comunità del Centro Vittorio.

Uno dei primi scogli che il nascente coordinamento ha dovuto affrontare è stato quello dell’assenza di referenti del centro che potessero rappresentare quest’ultimo durante le riunioni con la rete del terzo settore:

 

Sostanzialmente ci sono stati incontri con alcuni residenti sparsi, purtroppo, poiché senza una rappresentanza elettiva della comunità; quindi ci sono state anche delle incomprensioni, perché i leader di comunità, quelli più riconosciuti, non sono stati coinvolti, diciamo non c'è stata una circolazione interna delle informazioni. Quindi, ci sono state varie occasioni di incontro da Don Franco e, soltanto questa estate, c'è stato un chiarimento sugli obiettivi di questi incontri, di questa lettera da mandare a Sabella254 e alle istituzioni, per avere un incontro sul futuro del centro. Anche questo processo di dialogare è stato frastagliato, perché, non essendoci nessuno che rappresentiqualcosa,tranne se stesso, è difficile mettere insieme tutte le componenti di un'assemblea che non c'è più. Quindi, con grande fatica, un processo di mesi si poteva fare in una settimana, se ci fosse stata una rappresentanza.255

 

Per questo motivo:

 

ci sono stati un paio di incontri dentro la struttura per cercare di sensibilizzare tutti sugli obiettivi e superare le incomprensioni. I leader di comunità di un tempo, ad un certo punto, hanno preso di petto la situazione ed hanno […] cercato di velocizzare il processo, però, più che ruoli ufficiali, non si può parlare di ruoli non essendoci la rappresentanza, c'è un clima di grande disorientamento, anche un po' di rassegnazione, non c'è quel clima di reattività che, invece, caratterizzava il centro, negli anni precedenti, ogni volta che c'erano degli allarmi, o possibili interventi contro il centro. C'è sempre stata una capacità reattiva, invece, in questo caso, anche assegnare i ruoli è difficile, per cui succede che singoleindividualità tendono a prendersilo spazio, però non viene riconosciuto dagli altri e quindi è difficilissimo avere un dialogo senza la rappresentanza ufficiale.256

 

Seppur con qualche riserva circa l’efficacia della rappresentanza del centro, va riconosciuto che quest’ultimo ha saputo trasformare le difficoltà nel dialogo con la rete, in momenti utili per sperimentare tentativi di costruzione concertata di un gruppo di referenti: a seguito della richiesta precisa, mossa dalla rete, di interfacciarsi con dieci rappresentati del centro,257 i residenti, per la prima volta dalla dissoluzione dell’associazione Shaka Zulu (vedi 2.2.2), hanno organizzato diverse assemblee interne per l’individuazione dei propri portavoce. I dieci referenti, scelti durante queste assemblee, sono rappresentativi sia dei gruppi etnici (ad esempio ci sono rappresentati rumeni, rom, italiani, africani, ecc.), sia dei gruppi sociali (c’è chi rappresenta i nuclei familiari, chi le donne, ed altri ancora, i residenti più anziani) presenti nel centro.258 Uno di questi rappresentati ci ha riferito, inoltre, come la scelta dei referenti sia stata presa anche in funzione di esperienze e competenze personali, quali ad esempio il coinvolgimento nella passata esperienza di autogestione (affinché sia custodita la memoria del luogo) e il possesso di competenze in fatto di politica (affinché possa esserci uno dialogo alla pari con le istituzioni):

 

abbiamo coinvolto la gente che ha sempre lottato e che sta qui da molto tempo, che sa cos’è la burocrazia, come sono in Italia, cos’è la differenza tra un leghista e Forza Italia, tra un Alfano e un Cinque Stelle, e poi serve uno che capisce non soltanto le cose che dicono, ma anche le cose che non dicono durante una riunione: quella è l’importanza!259

 

I referenti, così scelti, condensano tutto ciò che la popolazione del Centro Vittorio attualmente è: un insieme, culturalmente e socialmente eterogeneo, di persone con una memoria del luogo da difendere; inoltre, poiché i rappresentanti sono stati scelti tra quelli capaci di cogliere le retoriche politiche dell’implicito e del non detto, il centro è un luogo in cui permane un residuo di diffidenza verso le istituzioni, nonostante la voglia di intessere un dialogo con le stesse.

Il Centro Vittorio, munitosi cosi di referenti, entra a pieno titolo nella rete per la costituzione del coordinamento ed inizia, tramite delle riunioni organizzate da Don Franco, ad interfacciarsi con le realtà coinvolte. Ben presto, però, emerge un’ulteriore ostacolo alla nascita del coordinamento: parte dei residenti del centro non ha accettato di buon grado la presenza, nella rete, della Comunità di Sant’Egidio, per i trascorsi conflittuali con questa realtà durante la stagione dell’occupazione e, in generale, ha guardato con sospetto anche l’ipotesi di allargare la rete ad altri servizi dell’ex-colonia, non intrattenendo con questi buoni rapporti (vedi 4.1.1).

Nonostante le difficoltà, si è giunti alla formazione di un coordinamento e il processo partecipativo è proseguito con la redazione della lettera alle istituzioni, la quale ha seguito le consuete fasi di negoziazione e rinegoziazione tipiche di tutte le scritture collettive e partecipate: «Abbiamo fatto, mi sembra, tre riunioni, in cui io la lettera l’ho presentata, poi è stata corretta, è stata emendata e poi è stata ripresentata.»260

La lettera viene inviata all’allora delegato sindacale Alfonso Sabella ma, a causa del concomitante insorgere del commissariamento sindacale e, successivamente, del commissariamento prefettizio (vedi 2.1.1), non riceve alcuna risposta:

 

In questo momento manca l'interlocutore politico perché ci sono stati questi avvicendamenti commissariali, quindi, adesso, siamo sempre alla fase zero, in cui ci deve essere una richiesta d’incontro con il nuovo commissario prefettizio. Mancando una giunta comunale in questa fase, penso che sia un momento molto, molto difficile, in cui ci può anche essere un'accelerazione nel processo di sgombero, da parte della prefettura o della questura, perché, quando non c'è una parte politica, non si sa mai cosa succede, […] qualcuno nel centro percepisce che c'è una situazione di pericolo, ci sono richieste di alcuni, che sono un po' più illuminati, che capiscono che qualche tipo di reazione va messa in campo, ma non si va molto oltre e questo non è sufficiente per ricostruire la comunità e un'assemblea che funzioni.261

 

L’instabilità politica a livello municipale, dunque, si ripercuote negativamente sul processo partecipativo finora analizzato, ed acuisce il senso di precarietà vissuto dai residenti del centro che si trovano privi di interlocutori istituzionali e supporto politico:

 

Il commissariamento è un ostacolo pericoloso per noi perché, se vogliono fare sgombero, non esistono partiti politici che ci avvisano o danno noi supporto; […] questi arrivano un domani, il prefetto con la polizia, e sgomberano, così, e non abbiamo nessun movimento politico d’appoggio.262

 

In assenza di risposte da parte delle istituzioni, Don Franco De Donno opta per una generica lettera263 aperta, in cui denuncia l’assenza delle istituzioni nell’interloquire con le realtà disagiate di Ostia, tra le quali, per l’appunto, il Centro Vittorio.

La lettera ha avuto una discreta circolazione tra i media locali, tuttavia non ha ricevuto alcuna risposta da parte delle istituzioni.

4.1.3 Le relazioni con il territorio

La natura delle relazioni con i servizi presenti nell’ex-colonia (vedi 4.1.1) e l’assenza di un’interlocuzione con le istituzioni (vedi 4.1.2) si ripercuote negativamente sulle eventuali relazioni che il Centro Vittorio intrattiene con il territorio e la comunità lidense e, di conseguenza, sulla possibilità di integrazione sia del singolo residente sia del centro, in quanto tale, nel tessuto cittadino. La precarietà nei processi di integrazione ha inizio con la dissoluzione dell’associazione Shaka Zulu (vedi 2.2.2), a causa della quale:

 

La visibilità che avevamo nel 2002 si è persa e i rapporti con i residenti italiani e tra le diverse comunità, che convivono all'interno del Vittorio occupato, sono diventati sempre più sporadici: oggi ognuno pensa per sé.264

 

L’instabilità dello status politico dei residenti, ovvero la perdita dei requisiti che garantivano loro una presenza sul territorio regolamentata (vedi 4.1.2), è un’altra delle cause che ha portato all’interruzione di quegli itinerari d’integrazione intrapresi con la possibilità di svolgere, sul territorio, percorsi di formazione e lavoro. Ne consegue che buona parte dei residenti del centro non beneficia più di opportunità d’incontro con la comunità lidense, e, in alcuni casi, vive isolata dal mondo esterno:

 

sono delle persone chiuse: ci sono alcuni che stanno lì che non c’hanno amici italiani, quindi chiusi nella loro cultura, nelle loro aspettative della vita, ci sono proprio i muri, hai capito? E quello che fa paura è che, a volte, troverai lì delle persone che non sono mai state in un bar…265

 

In generale, la comunità di Ostia non è incentivata ad interagire con la comunità del Centro Vittorio a causa dei pregiudizi imperanti su quest’ultimo (vedi 3.2). Oltretutto, ad ogni perquisizione e minaccia di sgombero del centro, segue una disinformazione mediatica che invalida le poche relazioni dei residenti di quest’ultimo con la comunità lidense e ne impedisce di nuove:

 

Con le persone che ci conosciamo da tanto tempo va bene, ci sono quelli buoni e quelli cattivi, però adesso anche quelli che erano buoni con noi sono diventati cattivi, stanno cambiando: quando vedono i filmati che fanno su di noi, la gente inizia a cambiare.266

 

I residenti del Centro Vittorio soffrono per la cattiva reputazione attribuitagli dalla comunità lidense e, al contempo, subiscono anche il clima di razzismo generale venutosi a creare a seguito delle ultime ondate migratorie; ciò lascia nello sconcerto questi individui che, dopo anni passati in Italia, si ritrovano costretti a dover narrare nuovamente la storia del proprio viaggio che, poiché obliterata dall’opinione pubblica, li conduce a percorrere a ritroso, poiché invalidati, gli itinerari di integrazione intrapresi molti anni prima; tutto ciò, inevitabilmente, li induce a mettere in dubbio l’applicabilità e validità del concetto stesso di integrazione in Italia:

 

Un italiano che mi parla di integrazione a me mi fa ridere, perché è un popolo che all’estero non si è mai integrato, per dire, in Australia c’hanno la loro zona ecc., e chiedono integrazione qua… stanno lì [all’estero] in quel modo e sono tranquilli, sono integrati, mentre noi qui siamo disintegrati! […] che significa l’integrazione? A me deve dirmelo lui che significa integrazione! Me lo devono spiegare! […] L’integrazione significa che io devo diventare bianco? Noi siamo stranieri e siamo arrivati qua perché abbiamo un problema nel nostro paese, perché dai tempi del colonialismo, ad oggi con le multinazionali, i nostri paesi sono stati sfruttati e derubati; noi eravamo agricoltori e per colpa della Monsanto e delle compagnie petrolifere che hanno sfruttato il nostro terreno, siamo stati costretti a diventare nomadi […] noi, e tutti i migranti, siamo il risultato di questi sfruttamenti e delle guerre.267

 

I residenti dichiarano di essere stranieri ma, al contempo, rinnegano il loro status di origine e rivendicano il proprio diritto ad essere legittimati in quanto cittadini italiani poiché, nonostante ne mettano in dubbio la validità, hanno un estremo bisogno d’integrazione:

 

Adesso dov’è la società nostra? Dov’è l’Italia? Perché noi siamo qua da tanti anni, siamo italiani; io vissuto tanti anni qua, quanti ne ho vissuti al mio paese, noi siamo cresciuti qua e siamo italiani, e vedere il nostro paese che diventa così, razzista, mi fa veramente molto male, perché adesso non sentiamo più che siamo africani, noi viviamo qua e questo trattamento noi non lo meritiamo, […] non meritiamo di essere trattati come un peso per l’Italia.268

 

L’apparente contraddizione tra queste narrazioni è tipica della ambigua condizione di “doppia assenza” (vedi 1.2) che i residenti del centro sono costretti a vivere: «Dopo dieci anni è fastidioso… dovrei sentirmi a casa, ma per il modo in cui mi guarda negli occhi la gente, mi fa continuamente ricordare da dove vengo.»269 Questa condizione ambigua e contraddittoria, delle volte genera nell’individuo che la vive un malessere tale che, al bisogno di integrazione, si sostituisce un progetto di ritorno: «Dopo anni che sono qui, dopo questa situazione di stress mentale, ho il riscontro che il mio progetto di immigrazione è fallito e, quindi l’alternativa è il progetto di ritorno.»270

In definitiva, la generale assenza di rapporti tra il Centro Vittorio e la comunità lidense conduce al fallimento dell’integrazione che, a sua volta, genera forme di esclusione ed autoesclusione dal territorio, dal relegarsi entro le mura del centro, al progettare un ritorno in terra natia. Il risultato di questi processi è quello di un territorio sempre più virtualizzato che, al suo interno, sviluppa confini immaginari in cui potersi esiliare o venire esiliati.

 

 

4.2 Le relazioni interne al Centro Vittorio

4.2.1 Le relazioni tra i residenti

Con il fallimento del modello di autogestione (vedi 2.2.2), il Centro Vittorio è rimasto privato di quella capacità comunicativa che garantiva efficaci relazioni con il territorio e permetteva ai residenti di convivere pacificamente:

 

C'è stata unaritorsione,una sorta digorgo interno per cuinon c'è statala capacità dicomunicare trale variecomunità etnicheall'internodelsocio-abitativo:conflitti,alcunicasidiepisodibrutti, assassini, violenzedivarianatura. Tutti fenomenitipicidiuna comunità cheormaista con inerviscoperti e non dialogapiù, anzi,siconsuma conle propriecrisi interne,sfogando anche con attidiviolenza.271

 

La perdita dell’ordine sociale, ovvero il venir meno delle norme che regolavano i rapporti quotidiani all’interno del centro, e l’insorgenza di episodi di violenza, si riscontrano già a partire dagli ultimi anni di attività di Shaka Zulu (vedi 2.2.2) durante i quali i membri di quest’ultima perdono in autorità e falliscono nel gestire gli accessi al centro e nel selezionare i potenziali residenti:

 

Abbiamo pure dovuto buttare gente in malo modo, perche si è creato, si crea, un sistema mafioso. Perché tu che arrivi per ultimo sei soggetto alle persone più anziane. Noi lo evitavamo, ma succedeva, e quindi abbiamo creato un mostro! Abbiamo cacciato in malo modo, rischiando diverse volte di essere accoltellati: mi inseguivano con le catene...272

 

Un tasso di ricambio ingestibile e l’affermarsi di un clima di violenza hanno ostacolato il mantenimento di rapporti stabili e pacifici tra i residenti, favorendo l’emergere della legge del più forte:

 

Le assemblee, adesso, sono organizzate spontaneamente secondo il programma di quelli che sono più numerosi. […] Gli ivoriani, la parte africana, sono più potenti e prepotenti pure, organizzano e coinvolgono tutti. […] Ho criticato severamente, amaramente, anche questo modo di vedere e gestire le cose, perché non ci sono le regole scritte, non c’è ordine: ognuno lo vive [il luogo] secondo i muscoli, non secondo le idee. Non esiste più ordine perché, nel frattempo, non hanno ospitato quelli che vogliono l’ordine, ma una banda, proprio, una banda di briganti!273

Quando si apre un dibattito in merito alla rappresentanza, c’è l’ingerenza di alcuni individui, è come un colpo di stato, un golpe, non c’è democrazia: quando l’assemblea generale sceglie non tiene conto delle competenze, diventa una giungla! Quelli che hanno preso la legittimità non aprono al cambiamento. Nell’assemblea è come se un gruppo fa un’assemblea prima dell’assemblea […] pensano che la prepotenza si guadagna durante le assemblee e queste diventano un teatro…274

 

Il pregresso coinvolgimento attivo dei residenti nell’organizzazione del centro viene meno con il defilarsi dei referenti italiani dell’associazione Shaka Zulu: «Noi eravamo il risultato della loro rappresentazione»275 e il vuoto di rappresentanza creatosi ha permesso il prevalere degli interessi di un gruppo, più influente, su quelli della collettività, a discapito della sicurezza e della reputazione di tutta la comunità del Centro Vittorio:

 

Tra le cose che fanno, quasi tutti loro rubano, quasi tutti! Quelli che non rubano, comprano la merce rubata e la vendono: […] tanti arabi che rubano i telefonini poi li vendono al Vittorio! Alcuni vanno ai mercati e ai supermercati per rubare delle cose e, alla fine, le mettono in un cartone e le mandano in Africa.276

 

Ed ancora:

 

Fanno queste cose con impunità ed è una cosa molto, molto, molto, frequente al Vittorio. Al momento, non c’è una grande criminalità, però ci sono delle persone facilmente manovrabili e se c’è qualcuno che vuole fare del male, può passare tramite loro, perché ogni uomo può essere comprato, ma quello che fa la differenza è il prezzo! Io penso che c’è molto da fare, perché, dal momento in cui due, tre persone, quattro persone, fanno l’alleanza contro un altro, in modo di farlo stare male, c’è qualcosa che non va, perché fanno il male in gruppo. […] loro voglio dimostrare che sono prepotenti e che il mondo è il loro e perdono quella voglia di competere in modo onesto e di affrontare la vita: […] ecco perché i successi [del Centro Vittorio] sono pochi!277

 

Ad aggravare ulteriormente questa condizione è l’ascesa, tra il gruppo predominante, di leader che decidono esclusivamente sulla base degli interessi del proprio gruppo, chi ha il diritto di abitare presso il centro e gli accomodamenti negli alloggi dei residenti:

 

C’è una persona molto prepotente, che ho trovato lì dal lato africano; questa va fino, a volte, va ad approfittare delle persone più giovani, li introduce in una stanza di vecchi e chiede loro di dare fastidio a questi vecchi, soprattutto quando non sono dello stesso suo Stato, della sua cittadinanza. Quindi vogliono creare un Vittorio africano, solo per gli ivoriani! […] La regola era almeno tre persone in una piccola stanza, ma ci sono quelli che hanno una stanza tutta per loro e ci sono gli ivoriani che abitano in Francia che hanno il posto riservato! Fino a qualche mese fa, c’era un ivoriano che abita a New York che ha avuto la sua stanza chiusa per un anno, due anni, mentre noi siamo accampati lì in dieci in una sola stanza; addirittura ci sono i giovani, quelli che sono arrivati ieri, che occupano ognuno una stanza, da soli! Hai mai visto un’ingiustizia così? Allora, gridare lo posso fare, però sono da solo. Ho sofferto tanto psicologicamente. Ti fanno credere che tu non appartieni a questo posto...278

 

I “diritti di anzianità” sono, dunque, annullati in favore di discriminazioni su base etnica; ciò mette a rischio, oltre che la civile convivenza, anche la rappresentatività dei residenti più anziani e la loro utilità in quanto custodi della memoria sul luogo: «In diverse assemblee ho insistito per ripristinare i valori passati, ma nessuno mi ascolta.»279 Ne consegue che è messa a rischio anche la possibilità per il Centro Vittorio di essere legittimato, nella sua storia, ed efficacemente integrato nel territorio. Queste discriminazioni, inoltre, hanno favorito il segmentarsi della comunità del centro in molteplici gruppi, a seconda dell’identità etnica dei residenti; tutto ciò, inevitabilmente, favorisce il generarsi di conflitti interetnici:

 

perché fra di loro ci sono etnie diverse e, fra etnie, quando ci sta un unico capo, a qualcuno dà fastidio non veder riconosciuto un membro del proprio gruppo. Essendoci Italiani, Romania, Bangladesh, Egiziani, Marocchini, Costa d'Avorio, Senegalesi, del Mali, Congo, altre etnie dell'Africa; fra questi gruppi già c’è conflitto o si uniscono [sul piano globale, n.d.t.] e, infatti, anche all'interno, si sono formati dei piccoli clan, diciamocelo: c'è il clan del Costa d'Avorio, quello dei Senegalesi, quello dei zingari, quello della Romania eccetera.280

 

All’interno del Centro Vittorio, dunque, si verifica una riproposizione e reinterpretazione, in scala ridotta, di conflitti ed alleanze intra ed inter-etniche che si ritrovano sullo scacchiere internazionale; inoltre il dilagante razzismo, dal piano globale, si ripropone tra i residenti in forma di tribalismo:

 

Io non sono triste quando ricevo gli insulti razzisti e tutto quanto, ma sono molto triste quando è tribalistica. Io penso che il tribalismo è peggio del razzismo perché se per il razzismo è una cosa immediata, perché si vede subito la differenza dei nostri colori, si raccoglie subito che c’è una differenza, una differenza anche che è naturale; quando il razzismo è tra di me e un altro africano è tribalismo e fa più male! […] e quello che dovrebbe accomunare due persone che vivono insieme non c’è più.281

 

 

Per giunta, quando la generale discriminate del colore della pelle e dell’appartenenza etnica non è sufficiente per procedere con l’esclusione di un gruppo, o di un singolo residente, dal gruppo predominante, si fa ricorso ad ulteriori discriminanti, quali, ad esempio, la confessione religiosa. Questo è il caso di Alphonse, uno dei pochi residenti cristiani di origine africana:

 

Anche i senegalesi che ci stanno non è che si comportano molto bene, essendo persone della stessa cultura religiosa, trovano un campo, un’intesa comune, […] la predominanza africana è musulmana e questi […] da piccoli, sono cresciuti con questo odio verso i cristiani, anche quando ti parlano, davanti agli altri fanno finta, ma dentro, i cristiani a loro non piacciono e questo è l’inferno che vivo io in quanto africano ma cristiano!282

 

La segmentazione della comunità in gruppi etnici, il razzismo interno, il tribalismo, costituiscono le premesse per il generarsi di forme di esclusione ed autoesclusione di singoli residenti, o di parte di questi, dalla resto della collettività. In generale, all’interno del Centro Vittorio, esistono casi di esclusione del singolo dal gruppo dominante e casi di autoesclusione di un gruppo dalla comunità intera.

Il primo caso è quello, ad esempio, di Alphose: camerunense di nascita, cresciuto in Nigeria, di confessione cristiana, ma che preferisce definire sé stesso un intellettuale: «In fondo, io sono un intellettuale e se tu dovessi vivere in una comunità come la nostra, accettano difficilmente delle persone in grado di criticare, in grado di valutare, anche per il loro bene.»283Se ne deduce che il prevalere dell’identità personale su quella etnica e/o collettiva, unitamente all’essere una minoranza della minoranza e al non uniformarsi al gruppo predominante, è un fattore di rischio di esclusione sociale all’interno del centro.

Il secondo caso, invece, è tipico di quei gruppi etnici che, senza costrizione, si autoescludono dal resto della comunità e, nel contesto del Centro Vittorio, è rappresentato dal gruppo dei bangladesi:

 

ci sono quelli che non parlano neanche italiano, dopo venti anni, venticinque anni, quelli del Bangladesh che non parlano neanche e non voglio neanche sapere nulla; il loro unico problema è uscire da casa la mattina con la merce e poi tornare a casa; non vogliono neanche sapere se si deve pulire questa casa, […] hai capito? Per loro il centro non è un luogo della comunità.284

 

Nel caso dei bangladesi, il cui progetto d’integrazione è esclusivamente economico, a prevalere sull’identità collettiva sono gli interessi del gruppo che, nel nostro contesto, coincidono anche con l’identità etnica di questi individui (dal momento che l’identità si definisce e costruisce in base al contesto); di conseguenza, per questo gruppo, che già gode del supporto esterno della comunità locale di connazionali (2.2.3) il centro è unicamente un spazio strumentale al raggiungimento di specifici scopi, anziché un luogo collettivo e condiviso.285

L’immagine offertaci, fin qui, dalle narrazioni dei residenti, è quella di un Centro Vittorio chiuso verso l’esterno (vedi 4.1) e diviso al suo interno in compartimenti stagni, ognuno dei quali occupato da fazioni e gruppi, o singoli residenti, che si trovano esiliati da una collettività che stenta ad emergere ma che, proprio nel suo essere sommersa, determina lo stato attuale del centro e il generale senso di insofferenza verso le sue sorti:

 

tutte le cose che ci sono capitate è perché manca l’organizzazione, manca il dialogo! Il Vittorio è fatto di muri: le persone hanno costruito dei muri intorno a loro, e non vogliono neanche sapere la ragionevolezza di un argomento, sono lì, ed è difficile da cambiare, anche se stiamo lì a provare.286

 

4.2.2 Le relazioni con il luogo

Il modo con cui i residenti del Centro Vittorio si rapportano a quest’ultimo è determinato sia da un comune sentire il luogo, influenzato dai rapporti del centro con l’esterno (vedi 4.1); sia dalla qualità dei rapporti che intercorrono tra i residenti, ovvero dalle dinamiche di gruppo che generano conflitti o alleanze (vedi 4.2.1).

In generale, nel vivere presso il centro, i residenti sono accomunati dall’esperire una quotidiana e costante sensazione di precarietà, in conseguenza delle innumerevoli minacce di sgombero prive di proposte di alloggio alternativo (vedi 4.1.2). «Il rischio di sgombero c’è sempre, ma dove ci mandano?»287: è la domanda che si fanno tutti i residenti, alla quale le istituzioni non hanno ancora dato una risposta. Il clima quotidiano di precarietà, dunque, cresce con l’assenza di interlocuzione con le istituzioni e determina un generale senso di impotenza tra i residenti:

 

non ti spiegano proprio niente e non vogliono neanche che tu fai una domanda, domandi e ti creano un problema: ti arrestano, ti mandano lì, in commissariato, e poi come fai? E poi ti creano pure un casino con le tue pratiche. Ecco perché nessuno di noi vuole avere problemi, ecco perché qui tanti di noi sono zitti, perché sappiamo che […] c’hanno potere, possono fare quello che vogliono e noi non possiamo fare niente. Ma io mi dico, se fosse casa mia, così, sai come reagisco io? Ma qui non posso! Purtroppo!288

 

Al senso di precarietà, dunque, si aggiunge la frustrante sensazione di impotenza nel prendere consapevolezza di non avere autorità decisionale sul luogo; quest’ultimo pertanto, seppur abitato, non viene percepito come propria dimora. In altre parole il distacco che si genera tra i residenti e il luogo in cui vivono è causato dall’impossibilità di far prevalere gli interessi dei primi sul secondo e, dall’altro canto, dal prevalere degli interessi delle istituzioni:

 

Noi al Vittorio stiamo qui, ma sappiamo che quando gli italiani, quando il Comune, avrà i soldi e avrà il progetto per fare qualcosa di alternativo qui, in quel momento là, ci manderanno fuori! Fin quando non ci saranno i soldi, fanno finta di buonismo con noi, però, aspettano solo quelli: hanno cercato di fare scuola marina qui, hanno cercato di fare casinò qui, hanno cercato di fare Università qui, hanno cercato di fare la sede di Alitalia qui. Varie cose, e quando troveranno i soldi, faranno il progetto e quel giorno sarà l’ultimo giorno per noi qui, a prescindere se siamo una comunità o non siamo comunità. Sono loro che creano la situazione qui e che decidono!289

 

Il Centro Vittorio, inoltre, è un ricettacolo di molteplici interessi che provengono, oltre che dalle istituzioni, anche da parte della delinquenza locale, che ha un progetto di abuso del luogo per i propri traffici e, nella quotidianità, lo mette in atto frequentando il centro e rendendolo un luogo insicuro; ciò avviene con una modalità tale che parte dei residenti, stanchi di questa situazione, rivendicano il ruolo delle istituzioni nella risoluzione di tale problematica:

 

Loro vengono la notte, vengono la sera, chiunque, alle due di notte! Allora, loro [i vigili] vogliono veramente fare il loro lavoro? Allora devono cercare di sistemare queste cose! Perché non va bene, perché così da noi, vedete, non abbiamo più la sicurezza; perché qua la notte salgono la gente e senti rumori e non lo sappiamo chi è!290

 

Sia nel caso in cui gli abusi si consumino con la complicità dei residenti (parte dei quali è inserita in un circuito di compravendita di merce rubata -vedi 4.2.1-), sia nel caso in cui, invece, essi avvengano in maniera indipendente dal loro volere di quest’ultimi, la mancanza di messa in sicurezza dei locali aumenta il senso di precarietà vissuto all’interno del centro e, al pari delle minacce di sgombero e degli interessi progettuali da parte delle istituzioni, concorre ad aumentare il senso di precarietà vissuto all’interno del centro e il distacco dei residenti da esso.

Il distacco dal luogo, per i residenti, è un processo sofferto, se si considera che, originariamente, il centro rappresentava per loro un rifugio; i pregiudizi della comunità di Ostia (vedi 3.2), gli interessi delle istituzioni (vedi 4.1.2), la disinformazione dei media (vedi 4.1.3), e la perdita della memoria del luogo (vedi 4.2.1) hanno fatto sì che ci si dimentichi, spesso, che la realtà rappresentata dal Centro Vittorio è nata in risposta ad un’emergenza abitativa (vedi 2.2.2):

 

In quegli anni c'era un movimento, in quegli anni ’90, spinto dai comunisti, che facilitavano l'occupazione di edifici non abitati, abbandonati, per aiutare chi aveva disagio abitativo. Allora, questo movimento ha accresciuto i pensieri che uno non deve stare senza casa se ci sono edifici non abitati, perché il costo umano di questo disagio è molto alto, e invece di avere edifici abbandonati, meglio fare entrare delle persone che possono ridargli vita. […] Qui nel centro, man mano che il tempo passa, alcune persone si sono sistemate, alcuni sono andati via dall'Italia avendo trovato migliori possibilità, ma ci stanno molti che non sono riusciti a trovare una sistemazione.291

 

Ad oggi infatti, per alcuni residenti, l’emergenza abitativa non è stata ancora risolta, poiché le costrizioni materiali originarie sono rimaste costanti e, a queste, si sono aggiunti mutamenti sociali che ostacolano la possibilità di emanciparsi dal luogo; questo, ad esempio, è il caso di Costel, residente rom del centro da quasi due decadi:

[al Centro Vittorio] mi trovo bene perché non pago affitto e, per me che sono senza soldi, va bene. Poi, io stavo in un campo rom, nelle baracche, fino a quando avevo otto anni. Vivo qui da 17 anni, 17 anni che abito qui. Quando siamo arrivati eravamo in 5 fratelli e adesso ho pure un figlio. […] Io quando penso o sento il Centro Vittorio dico che è casa mia perché, rispetto alle baracche, è molto più pulito, non ti piove in testa, non passa il vento, questo è in cemento. Io ho fatto una vita da strada, ma adesso non voglio dormire sotto i ponti, se fossi da solo lo potrei fare, ma adesso ho una bambina.292

 

Ad oggi, dunque, il Centro Vittorio rappresenta ancora un rifugio e soprattutto un’emergenza abitativa che è costante sul territorio poiché, per quanti residenti riescono ad emanciparsi dai suoi alloggi, ce ne sono altrettanti che continuamente ne ricorrono; in altre parole, l’alto tasso di ricambio dei residenti (vedi 2.2.2) è indice di un fallimento delle politiche sociali riguardanti la casa che si ripete ormai da decenni.293 Le poche proposte avanzate dalle istituzioni, infatti, risultano non sostenibili per la maggior parte dei residenti, poiché destinate esclusivamente ad alcuni gruppi sociali o basate su una progettazione avulsa da un’appropriata analisi del contesto specifico:

 

quelli che hanno famiglia pensano che, se fanno sgombero, gli danno una casa popolare, invece non è così, non è così, perché l’esperienza mostra che, in almeno sette o sei sgomberi che hanno fatto a Roma, hanno pagato case per tre mesi e dopo hanno mandato a ‘ffanculo tutti, scusa il termine, ma così hanno fatto! Quindi noi abbiamo presente queste esperienze, però alcuni cretini qui vogliono avere casa, pensano: “voglio casa, voglio casa”, eccetera, eccetera, perché pensano che il Comune ti darà casa, […] guarda, non esiste, perché loro hanno fatto la proposta, l’assessore di prima, il presidente del municipio, hanno fatto la proposta che a quelli che hanno famiglia gli davano la casa se pagano ottocento euro, il Municipio parteciperà con quattrocento e a loro le altre spese, così. E invece uno che ha il problema di non avere neanche cento euro? Come può affrontare questo?294

 

La possibilità di avere un alloggio senza costi potrebbe indurre a credere che tale opzione possa rappresentare, sul lungo periodo, un fattore disincentivante alla ricerca di una soluzione abitativa stabile al di fuori del centro; alcuni residenti, del resto, hanno confermato questa tesi: «Qui si sta bene, non paghiamo luce, niente, stiamo di fronte al mare!»295; tuttavia, non sono pochi i residenti che, al contrario, proprio in forza del fatto di non sentire il centro come casa propria, vorrebbero avere l’opportunità di emanciparsi dai suoi alloggi e i pochi che potrebbero permetterselo ci hanno provato più volte senza successo:

 

Tu vai ad affittare una casa e non si fidano, perché ti fanno: “Tu c’hai il lavoro?” – “Si, c’ho il lavoro.” – “Ma tu c’hai il contratto?” – “C’ho il contratto”. Anche se dai tutto questo, no, non si fidano, non va! Capisci? Se non vai con una persona che è cittadino qua, un amico italiano, un’amica, se non c’hai una persona così, significa che non ti affittano una casa.296

 

Si evince come, qualsiasi siano le motivazioni alla base della scelta di abitare nel centro, non esistono per i residenti soluzioni per uscirne, non soltanto per via di costrizioni materiali, ma soprattutto per le condizioni sociali sfavorevoli che, di fatto, escludono questi individui dalla possibilità di integrarsi al territorio (vedi 3.2, 4.1.3). L’impossibilità ad emanciparsi dal centro, dunque, implica che i residenti intraprendano percorsi d’integrazione che, inevitabilmente, passano attraverso il luogo in cui abitano; il quale, però, non si presta all’incontro con l’esterno:

 

Lì, adesso, non si offre una palestra d’incontro, […] un punto di incontro con gli altri, con gli italiani, e per loro, chiaramente, diventa un circuito un po’ chiuso. Delle volte capita che si divertano assieme: [gli italiani, n.d.t.] vanno su, da un loro amico, comprano una bottiglia di birra… Ma la vita rimane lì e la vita è una sola.297

 

I residenti del Centro Vittorio, dunque, si interfacciano con la comunità di Ostia raramente, attraverso sporadiche occasioni di socializzazione limitate al perimetro dei loro alloggi, oppure, al contrario, esclusivamente al di fuori del centro: «Ho tanti amici […]ma se ci incontriamo al bar o ci diamo appuntamento da qualche parte va bene, ma farli venire qua non penso che lo vedono un bel posto.»298

Si evince come il territorio e il Centro Vittorio rappresentino due luogo antitetici, dove l’interazione tra le due comunità può avvenire solo se limitata ad uno dei due contesti; i residenti del centro, infatti, intrattengono un rapporto ambivalente con il luogo in cui abitano, per il quale: nel primo caso, il centro è vissuto come un luogo/rifugio che preclude, a chi vi si esilia all’interno, la possibilità di partecipare pienamente alla vita del territorio esterno; nel secondo caso, all’inverso, è il luogo ad essere escluso dall’incontro con la comunità esterna (possibile, invece, al di fuori delle mura del centro) e così diventa un mero dormitorio, strumentale per una vita altrove.

Il Centro Vittorio, sia esso un rifugio o un dormitorio, è comunque un luogo in cui abitare e la scelta di farlo o, al contrario, il desiderio di uscirne, s’inquadra in un contesto di necessità dei residenti, altamente diversificate. Questa diversificazione, di fatto, impedisce la costruzione di una mappa dei bisogni che possa essere strumento efficace di una progettazione rispondente alle necessità di tutta la collettività. Tale problematica è emersa, in maniera molto evidente, durante le assemblee organizzate per la creazione del coordinamento del Centro Vittorio (vedi 4.1.2):

 

Più che assemblee, sono stati momenti di tentativi di incontro con i rappresentanti delle varie comunità etniche interne al Vittorio; sono stati dialoghi difficili, perché si sono accavallate tante richieste diverse: la comunità non è più abituata a dialogare, questo è il problema, qui, ciascuno vienefacendo emergereilpropriobisogno, senzacapire chestanno dentro unarichiesta collettiva, quindi, anche in qui, un esito incerto. Non c'è una struttura dell'incontro, non c'è un ordine del giorno: è un continuo accavallarsi di paure, di percezioni anche poco corrispondenti, perché emergono sempre i problemi personali e non c'è una capacità di ricondurli ad un programma comune.299

 

Le criticità interne al centro (vedi 4.2.1), dunque, concorrono a delineare un quadro in cui si riscontra un prevalere degli interessi individuali su quelli collettivi e, in alcuni casi (data la faziosità che regola i rapporti tra i residenti), un prevalere degli interessi di gruppo su quelli dell’intera comunità. Il fatto stesso che la rappresentanza del centro (esito della costruzione del coordinamento del Centro Vittorio -vedi 4.1.2-), segua, tra le altre, la ripartizione per gruppi su base etnica, rappresenta un rischio per l’emergere degli interessi di una comunità coesa; difatti ad oggi non ci è possibile affermare che il centro ne sia munito e, date le forme di esclusione ed autoesclusione attive tra i residenti (vedi 4.2.1), non si rileva un grado di coinvolgimento collettivo tale da poter pensare ad una costruzione spontanea di un senso di comunità. Inoltre, dal momento che non tutti i residenti perseguono il riscatto della collettività, bensì, il più delle volte, solo quello individuale, si rileva uno scarso senso comune degli spazi e un quasi nullo attaccamento al luogo; ciò lascia i residenti in un doppio stato di estraneazione: sia al territorio circostante, sia al luogo che abitano. I residenti così, estranei da tutto, vivono un profondo senso di smarrimento:

 

Mosi: Siamo qui perché abbiamo avuto tutti quanti un sogno e siamo usciti dal paese per quel sogno, […] Io son scaduto qua… […] la speranza è che capita un miracolo o una fortuna, perché qui ormai, in tutti i modi, come ti muovi ti muovi c’è sempre una cosa che ti va male, sempre male, capisci? Poi tu non lo sai dove ti devi indirizzare…

 

Sekou: Non sai dove devi andare a buttarti.

 

Mosi: Non sai come devi fare, tu, piano, piano, ti crei quei piccoli problemi, uno qua, uno là, due, tre quattro, alla fine vai fuori testa, diventi una persona che si sfascia, diventi una persona che non ha vita sua.300

Lo smarrimento, dunque, lascia il posto ad un sensazione di stallo, di alienazione e di disperazione: «Noi siamo in stand-by, noi siamo cadaveri ambulanti che aspettiamo nessuno!»301; per questi individui, marginali agli altri e marginali a sé stessi, il sentirsi pienamente vivi è concesso solo come atto di rivoluzione:

 

Qui mi trovo bene più o meno, ma non si riesce a cambiare: sembra di stare in una rotaia dove puoi andare solo dritto, e intanto gli anni passano. […] Quando sei proprio nella merda, appena metti un po’ un piede fuori, o tiri su la testa, e senti qualcosa di diverso: quella è vita, la vita normale.302

 

 

Conclusioni


 

Il Centro Vittorio, già ad un primo sguardo, appare come una realtà marginale e subalterna rispetto al territorio di Ostia, a sua volta periferico e stigmatizzato come insicuro e politicamente corrotto rispetto al più ampio contesto comunale (vedi 2.1). Prendendo le mosse da questa condizione di partenza, si è rilevato come lo stato di marginalizzazione del Centro Vittorio sia frutto di rimozioni e censure nella memoria legata a questo luogo (vedi 3.1) e di un proliferare di pregiudizi, su di esso, da parte della comunità lidense (vedi 3.2). Successivamente è stato evidenziato come la marginalizzazione del Centro Vittorio è anche l’esito di costanti conflitti e negoziazioni operanti nelle relazioni che il centro intrattiene al suo esterno (vedi 4.1) e nelle relazioni presenti al suo interno (vedi 4.2). Per quanto concerne le prime, è stato dimostrato come la condizione di subalternità del centro dipenda, nello specifico, dal tipo e dalla qualità delle relazioni che il centro intrattiene:

- con i servizi presenti nell’ex-colonia, che hanno generato una contesto disomogeneo e irrelato che, nella maggior parte dei casi, ostacola l’integrazione dei residenti nel territorio e ne incrementa l’esclusione sociale (vedi 4.1.1);

- con le istituzioni locali, ree di intraprendere azioni coercitive che, perseguendo l’obiettivo di espellere dal territorio individui già esclusi dall’accesso alle sue risorse, preservano lo stato di disuguaglianza sociale (vedi 4.1.2);

- con il territorio, in cui palese è l’assenza di contatto tra la comunità locale e quella del centro, le quali coesistono nel medesimo territorio ma non lo condividono socialmente; ciò è causato sia da una mancata integrazione della popolazione del centro nel tessuto sociale cittadino, sia da una mancata integrazione della popolazione italiana nel contesto multietnico rappresentato dal centro (4.1.3); tale condizione genera una perdita di luoghi dell’accoglienza (di cui il territorio ostiense è carente) in cui invece l’incontro sarebbe possibile.

Per quanto concerne le relazioni interne al Centro Vittorio, è stato evidenziato come queste, al pari delle relazioni con l’esterno, concorrono a definire la subalternità del centro, sia nel caso dei rapporti tra i residenti, sia nel caso dei rapporti tra questi e il Centro Vittorio (inteso quale luogo in cui abitano).

Nel primo caso si è rilevato come il fallimento degli itinerari di integrazione sia imputabile, oltre che a fattori esterni, a conflitti ed alleanze su base etnica che hanno generato forme di esclusione ed autoesclusione dei residenti dal centro stesso (vedi 4.2.1). Tale condizione rende evidente come i residenti abbiano sviluppato l’incapacità di relazionarsi all’alterità di cui, loro stessi, sono portatori; ciò a causa della costruzione di nuove identità, generate senza memoria e, per tal motivo, messe in continuo dubbio rispetto alle identità d’origine. Il centro dunque, in linea con una dinamica di riproposizione del globale nel locale, ha fatto proprie le logiche di marginalizzazione imposte dall’esterno, di cui è vittima, riproponendole al suo interno sottoforma di tribalismo: come esito identitario di gruppi che, vivendo in un contesto di dissoluzione di istituzioni unificanti, si ritrovano in lotta per il controllo delle risorse del luogo.

Per quanto concerne invece le relazioni tra i residenti e il centro in quanto loro dimora (vedi 4.2.2), è stato rilevato come la condizione di “doppia assenza” esperita da questi individui abbia costituito il terreno fertile su cui hanno attecchito “identità a palinsesto” ed identità ibride: l’assenza di riferimenti stabili per i residenti, con i quali costruire percorsi esistenziali ed identitari duraturi, ha causato la perdita dell’identità collettiva e il prevalere di interessi individuali o faziosi. Doppiamente marginali, al territorio e a loro stessi, i residenti hanno perso dunque la loro identità di comunità e stentano a costruirne una nuova.

Sulla base delle evidenze fin qui riportate, è possibile affermare che oggi il Centro Vittorio, con la sua storia fatta di perdite (vedi 2.2.2), è un luogo dell'assenza: di servizi (sul piano delle risorse) (vedi 2.2.3); di relazioni, di memoria, di riferimenti, di referenti, di autorità, di legittimità e di comunità (sul più ampio piano sociale) (vedi 3, 4).

L’eredità della dissoluzione del Centro Socio-abitativo autogestito è uno scollamento tra i residenti e il luogo in cui vivono: il centro perde la sua originaria funzione di dimora ed è terreno di molteplici confini virtuali in cui si abita a vuoto.

Abitare il Centro Vittorio dunque si configura come una negazione dell’atto stesso di abitare, poiché risulta assente qualsiasi processo di costruzione e cura del luogo e/o di produzione di narrazioni (data la perdita di memoria interna -vedi 4.2- e il furto di memoria operato dall’esterno -vedi 4.1.2-).

Sebbene il centro non sia un luogo socialmente sentito, orienta comunque i vissuti degli individui che lo abitano in quanto ostacola i loro itinerari di integrazione al territorio. Per questi motivi è possibile affermare che il Centro Vittorio è un luogo in esodo verso la condizione di nonluogo, poiché:

  • non è relazionale, in quanto non stabilisce tra gli individui una reciprocità funzionale ad una comune appartenenza;

  • non è storico, poiché chi lo abita ha perso la consapevolezza delle proprie radici, per l’assenza di una leadership in grado di costituirsi custode della memoria del luogo;

  • è identitario, poiché in esso è in atto una rivendicazione delle identità individuali ed una reinterpretazione e negoziazione delle identità culturali d’origine, pur nella deriva al tribalismo.

Il Centro Vittorio è un nonluogo a divenire anche per il presentare alcune caratteristiche tipiche dei nonluoghi della miseria; esso infatti rappresenta un contesto nel quale l’identità è pericolosa per chi ci vive, poiché espone al costante rischio di esclusione, autoesclusione ed espulsione. Quest’ultima difatti è insita nella delegittimazione del centro da parte delle istituzioni (ad esempio attraverso i tentativi di sgombero) ed è asservita, per l’appunto, ad una rimozione della memoria del luogo (fatta dalle persone che ci abitano) che possa garantirne il furto.

Il Centro Vittorio rispetto ai nonluoghi tipici è anomalo perché: se da un lato mantiene l’aspetto di spazio antropoemico, per cui la socialità è disincentivata poiché l’alterità è respinta (date le dinamiche di esclusione ed autoesclusione interne); dall’altro lato ribalta la dimensione di spazio antropofago, poiché i residenti si comportano come se il centro sia effettivamente casa propria ma, nel viverci, non lo sentono come se fosse tale. Nello specifico, l’elemento di transito, tipico di ogni nonluogo, nel Centro Vittorio si sposta dal livello dell’azione al livello della percezione, per cui i residenti del centro, pur vivendo di fatto in un situazione di stallo, percepiscono le proprie vite come transitorie. Il Centro Vittorio può essere considerato dunque un nonluogo atipico, poiché le anomalie che presenta sono riconducibili alla condizione contraddittoria per la quale esso è concepito come dimora, ma esperito come nonluogo.

In definitiva è possibile affermare come l'odierno Centro Vittorio sia un palcoscenico in cui si inscena il dramma della surmodernità: un'incalzante processo di estraneazione dal territorio che causa una condizione di elevata marginalità sociale. A causa di queste condizioni, i residenti del centro risultano essere impossibilitati ad usufruire delle risorse del luogo in cui risiedono e del più ampio territorio che li ospita; pertanto, non potendo scegliere come meglio condurre la propria esistenza, vivere nel Centro Vittorio per questi soggetti equivale e vivere in una condizione di esclusione sociale che si configura come violenza strutturale. La drammatica conseguenza di tale condizione è l’aver tramutato i residenti in individui disgregati dal territorio: vivono residui di luogo e spazi dati da “inventare” e, concentrandosi sui bisogni istantanei non elaborati, stanno perdendo il desiderio di negoziare uno spazio familiare. Il risultato ultimo di questo trasformazione è l’aver reso i residenti sostituibili al territorio: fatti oggetto di strumentalizzazioni e resi preda degli interessi che, mossi dall'alto (da soggetti avulsi dal contesto), ricadono sul luogo in cui abitano.

Avanzare una proposta progettuale in un contesto complesso e in costante mutamento, come quello finora delineato, implica innanzitutto adottare un approccio organico con cui poter attivare azioni diversificate, per un’insieme eterogeneo di beneficiari:

  • i singoli residenti, portatori di bisogni primari individuali, la cui soddisfazione è preliminare affinché le azioni di progetto non siano limitate esclusivamente ad un livello emergenziale;

  • la comunità del centro, previa sua ricostituzione, affinché possano crearsi i presupposti per attivare azioni a contrasto dell’esclusione e della disuguaglianza sociale;

  • la comunità lidense, affinché sia possibile un’integrazione del centro nel territorio e possano attivarsi azioni a contrasto della marginalità sociale.

Sulla base dei beneficiari e di quanto emerso in sede di analisi di contesto, l’obiettivo generale di una possibile proposta progettuale dovrebbe essere quello di: incrementare il benessere generale del territorio, in termini economici e sociali, contribuendo ad arginare i fenomeni locali di disuguaglianza e marginalità sociale e incrementando processi di autopromozione degli individui, affermazione dei diritti sociali e promozione della cultura della partecipazione.

In relazione all’obiettivo generale e ai destinatari, è possibile individuare i seguenti obiettivi specifici:

  • diminuire il numero di individui senza dimora e senza occupazione; aumentare il benessere sociale procapite e, di conseguenza, diminuire il tasso di criminalità locale;

  • aumentare l’offerta di servizi multiculturali sul territorio; recuperare il capitale sociale e la memoria della comunità del centro;

  • messa in rete dei servizi interni all’ex-colonia; creazione di uno spazio sociale di incontro ed accoglienza; creazione di nuovi ed efficaci percorsi di integrazione.

I risultati conseguenti agli obiettivi specifici saranno:

  • soluzioni materiali volte al contrasto dell’indigenza e dell’emergenza abitativa dei residenti del centro, in grado di promuovere l’inserimento residenziale e lavorativo di questi nel tessuto cittadino;

  • ricostituzione di una comunità storica e coesa del Centro Vittorio; presa in carico collettiva della cura del luogo da parte dei residenti; offerta di servizi multiculturali alla comunità lidense, gestiti dai residenti, all’interno del centro;

  • collaborazioni efficaci tra i servizi dell’ex-colonia ed il centro; ulteriori e nuove occasioni di incontro tra la comunità del centro e la comunità lidense; trasformazione del centro in luogo sociale a servizio dell’esigenza d’integrazione, vicendevole, delle due comunità.

Possibili attività correlate ai sopraelencati risultati potranno essere:

  • ammodernamento ed adeguamento di parte degli spazi del centro da destinare ad abitazioni (evitando i costi per soluzioni residenziali ex novo); percorsi di formazione ed inserimento lavorativo dei residenti;

  • costituzione di un’associazione e/o cooperativa rappresentante gli interessi collettivi della comunità del Centro Vittorio, recuperando nell’organico del direttivo i residenti facenti parte dell’associazione Shaka Zulu; raccolta e divulgazione (ad esempio, attraverso la formula del teatro) delle storie di vita dei residenti passati e presenti; sorveglianza notturna e diurna, pulizia e piccole manutenzioni dei locali; corsi di lingua; corsi di etnomusicologia; sportello di assistenza legale; osteria multietnica; botteghe e laboratori di artigianato etnico;

  • progettazione sociale dei servizi dell’ex-colonia in partenariato con la comunità del Centro Vittorio; adeguamento di una parte del cortile esterno in spazio pubblico aperto; seminari, congressi, concerti, festival e cineforum sulla multiculturalità.

La sostenibilità delle azioni di progetto, fin qui ipotizzate, è possibile solo se coadiuvata da una presenza attiva delle istituzioni; affinché tale proposta progettuale possa configurarsi come progetto fattibile, infatti, l’amministrazione locale deve assumersi la responsabilità di diventare un interlocutore efficace con il Centro Vittorio, legittimando la sua comunità e i singoli residenti e garantendo una messa a sistema delle risorse territoriali che, senza supporto istituzionale, sarebbero brevi ed effimere.

La proposta meta-progettuale, suggerita in questa sede, è da intendersi quale bozza ad una più dettagliata e specifica progettazione sociale, possibile se si verranno a creare le suddette precondizioni istituzionali. Sebbene a grandi linee, tale proposta meta-progettuale potrebbe inserirsi in un più ampio contesto progettuale che vede la passata realtà del Centro Socio-abitativo ricostituita e convertita in un centro di servizi multiculturali che andrebbe a completare l’offerta proposta dagli altri servizi presenti nell’ex-colonia e, assieme a questi, potrebbe costituire un polo di servizi sociali quale risorsa, patrimonio e bene culturale di tutto il territorio di Ostia.

 

Appendice A

Fonti primarie

 

 

Stakeholders

 

  1. Vittorio* - cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015)

  2. Romano* - cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015)

  3. Cristina* - commerciante e cittadina di Ostia (intervista del 19 giugno 2015)

  4. Alphonse* - residente Centro Socio-abitativo (interviste del 19 giugno 2015 e del 12 febbraio 2016, interviste informale del 20 marzo 205 e del 16 ottobre 2015)

  5. Elena* - cittadina di Ostia, insegnante d’italiano per stranieri (intervista del 19 giugno 2015)

  6. Gianluca*, antropologo urbano e cittadino di Ostia (focus group informale del 22 giugno 2015)

  7. Giovanni*, referente comitato “Spiagge libere” e “Liberi tv”, cittadino di Ostia (focus group informale del 22 giugno 2015)

  8. Yousef*, imam del Centro di Cultura Islamica (intervista del 22 giugno 2015)

  9. Idris*, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015)

  10. Mosi*, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015)

  11. Sekou*, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015)

  12. Birama*, mediatore culturale per il Centro Socio-abitativo (intervista del 18 settembre 2015)

  13. Don Franco De Donno, presidente Caritas di Ostia (intervista del 16 ottobre 2015)

  14. Youssou*, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015)

  15. Filippo*, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015)

  16. Michela*, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016)

  17. Renata*, responsabile Biblioteca Elsa Morante (intervista del 1 aprile 2016)

  18. Vincenzo*, referente Centro di ascolto Caritas (Intervista del 4 marzo 2016)

  19. Fabiana*, referente Ostello Litus (focus group del 11 maggio 2016)

Veronica*, referente Ostello Litus (focus group del 11 maggio 2016)

21. Umberto*, referente Centro anziani e cittadino di Ostia (intervista del 11 maggio 2016)

  1. Luca*, referente Comunità Sant’Egidio di Ostia (intervista del 18 maggio 2016)

  2. Costel*, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 18 maggio 2016)

 

* Pseudonimo.

Osservazioni partecipanti:

 

 

  • Centro Socio-abitativo - Teatro del Lido - Istituto di cultura islamica (20 marzo 2015);

  • Tavoli partecipati Teatro del Lido (19 aprile 2015);

  • Città di Ostia (19 giugno 2015);

  • Città di Ostia - Centro Socio-abitativo - Istituto di cultura islamica (22 giugno 2015);

  • Caritas di Ostia - Teatro del Lido - Centro Socio-abitativo (16 ottobre 2015).

 

 

 

Note di campo:

 

 

  • 19 giugno 2015;

  • 22 giugno 2015;

  • 18 settembre 2015;

  • 16 ottobre 2015;

  • 19 ottobre 2015.

 

 

 

Altro:

 

  • Sondaggio semi-qualitativo, anno 2015, condotto da TDL.

 

 

Appendice B

 

 

 

Convenzioni per la trascrizione delle interviste

 

 

R ricercatore/intervistatore

I informatore/intervistato

Mod Moderatore (per i focus group)

MAIUSCOLO volume alto

Corpo minore volume basso

(.) pausa breve

(…) pausa più lunga

((risata)) passaggi non verbali, ad esempio: sorridendo, incrociando le braccia

( ) frasi o passaggi che non si riescono a capire/sentire; la distanza tra

le parentesi indica la lunghezza della frase che non si riesce a trascrivere

// quando una persona viene interrotta o si interrompe

[note] commenti del trascrittore, note, brevi spiegazioni

n.d.t. nota del trascrittore

(, : ; . !) punteggiatura limitata, solo laddove strettamente necessaria per rendere comprensibile l’intonazione nel testo

Corsivo enfasi su alcuni passaggi chiave, strumentale all’interpretazione del dato


 

Tra i turni di parola dei due soggetti va lasciata una riga di spazio

 

Allegato 1

 

 

 

COMUNICATO STAMPA

LE RAGIONI DEL CENTRO SOCIO ABITATIVO SHAKA ZULU: DIALOGO E SOLUZIONI SOSTENIBILI PER CHI VIVE IN EMERGENZA ABITATIVA

 

 

Le perquisizioni avvenute da parte delle forze dell’ordine in data 22 giugno presso il centro socio abitativo Shaka Zulu, all’interno della ex colonia Vittorio Emanuele, e le dichiarazioni della politica pubblicate sui mezzi di comunicazione, hanno avuto l’effetto di creare un clima di allarme e di discriminazione nei confronti della comunità di immigrati, che da oltre 15 anni risiedono nel centro abitativo, condividendo gli spazi anche con cittadini italiani in emergenza abitativa.

 

Intendiamo ribadire qui alcuni principi che vengono spesso travisati o addirittura omessi nelle dichiarazioni che riguardano la nostra esperienza.


 

  • Il Comune di Roma ha affidato tramite delibera capitolina (Assessorato alle periferie) il centro socio abitativo all’associazione Shaka Zulu, in seguito alla ristrutturazione dei locali avvenuta con i fondi del Giubileo sociale del 2000. Non è vero che siamo abusivi né che il centro sia occupato. Lo dimostra il fatto che la residenza della maggior parte degli abitanti della struttura è all’interno del centro socio abitativo, sul lungomare Paolo Toscanelli, 184.

  • Per molto tempo l’esperienza del centro socio abitativo ha rappresentato un percorso di inclusione e partecipazione, un percorso virtuoso di autogestione che ha sviluppato percorsi con la comunità locale tramite iniziative interculturali (festival, scuola di italiano per stranieri, residenza per campi di studio internazionali, laboratori di informatica, assemblee cittadine). E’ assurdo che i media e alcuni ambienti politici definiscano il centro come luogo di spaccio e di attività illecite. La nostra comunità piuttosto è composta di persone, provenienti da diverse etnie, che lavorano, sebbene in forma precaria e discontinua, che cercano lavoro, che studiano, che tentano dunque di inserirsi nella vita sociale ed economica del territorio.

  • Le perquisizioni di due gg. fa non hanno rinvenuto la presenza di droghe all’interno dei locali ma solo all’esterno nel giardino condiviso con altre strutture. E’ inaccettabile costruire e divulgare una immagine negativa che associa la nostra comunità con la criminalità e il traffico di droga. Non a caso le 5 persone fermate e portate in Questura sono state rilasciate il giorno stesso senza alcuni imputazioni.

  • I locali del centro socio abitativo non vengono mantenuti dall’ufficio tecnico, e sono stati abbandonati ad un processo di progressivo degrado, che la nostra comunità ha tentato di contrastare realizzando nel tempo piccoli interventi di manutenzione ordinaria.

  • Noi ribadiamo la volontà di continuare il dialogo positivo che avevamo avviato con la precedente amministrazione, per cercare insieme una soluzione alle difficoltà che abbiamo condiviso. Le difficoltà non si possono scaricare sulla pelle dei più deboli ma devono essere oggetto di politiche sociali da costruire insieme (assistenza abitativa, orientamento, inserimenti lavorativi, ecc.).

  • Il centro socio abitativo è sempre aperto al dialogo, ma è pur sempre una casa per chi una casa non ha. Abbiamo ricevuto ripetuti censimenti, a volte realizzati senza preavviso e alle cinque di mattina, con metodi discutibili, trattati come se fossimo malviventi invece che cittadini che vivono in condizioni di fragilità sociale.

 

Chiediamo alle realtà come la Caritas, la Comunità di Sant’Egidio, le associazioni di solidarietà presenti sul territorio, ma anche al commissario Sabella, al sindaco Marino, di dialogare con noi alla ricerca di soluzioni politicamente dignitose e umanamente sostenibili per la nostra comunità.

 

Il centro socio abitativo Shaka Zulu, presso la ex colonia Vittorio Emanuele

 

Roma 24/06/2015

 

Allegato 2

 

XXVI PREFETTURA DIOCESANA DI ROMA – OSTIA e ZONE LIMITROFE

CARITAS

LETTERA APERTA

UN PREOCCUPANTE SILENZIO POLITICO nel X° MUNICIPIO

La procedura di ‘emergenza’ ormai invalsa nell’Amministrazione sia di Roma Capitale che del X° Municipio è quella di passare sopra le teste dei cittadini, i quali , ormai privi di organi di partecipazione, sono tenuti all’oscuro dei rapidi e continui aggiornamenti di referenti istituzionali.

La riunione del luglio u.s. con il Prefetto Gabrielli in Sala consiliare aveva fatto ben sperare su una metodologia di partecipazione virtuosa delle realtà associative in vista del bene comune, ma tutto ormai fa parte di un momento del passato senza la promessa continuità di confronto: così – per quanto riguarda il dialogo con la Caritas di Ostia – sono rimasti in sospeso i contatti progettuali con il COORDINAMENTO TERRITORIALE IDROSCALO, con il PROGETTO DI INCLUSIONE LAVORATIVA e ALLOGGIATIVA dei ROM e dei senza dimora, con il COORDINAMENTO della realtà SOCIO-ABITATIVA nella ex COLONIA VITTORIO EMANUELE.Per la terza realtà attendiamo ancora risposta sulla richiesta di un primo colloquio tra Caritas e alcuni rappresentati del Centro Socio - abitativo e l’Istituzione.

Non sappiamo attualmente a chi rivolgerci! Chiediamo notizie sulle persone di competenza alle quali rivolgerci e – personalmente - mi permetto di suggerire in tempi relativamente brevi, una RIUNIONE IN SALA CONSILIARE durante la quale vengano presentati alle realtà associative i nuovi Commissari con le relative competenze.

Altrimenti la vita sul Litorale sta scorrendo in un preoccupante torpore e sonno che non corrisponde alla tradizionale vitalità delle buone pratiche da sempre espresse sul Territorio lidense e suo entroterra..

Spero che da questa mia lettera vengano risposte rassicuranti e tempestive, che alimentino la speranza di un reale cambiamento per la legalità e per la creatività solidale!

d. Franco DE DONNO, responsabile Caritas di Ostia


 

Roma lido, 12.10.2015

Bibliografia

 

Volumi e articoli


 

Abèlés M. (2001), Politica, gioco di spazi, Meltemi, Roma.

Appadurai A. (2001), Modernità in polvere, Meltemi, Roma.

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Bateson, G. (1999), Mente e Natura, Adelphi, Milano.

Bateson, G. (2001), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.

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Bauman Z. (2001), Voglia di comunità, Laterza, Roma.

Bauman Z. (2002a), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari.

Bauman Z. (2002b), Modernità liquida, Laterza, Roma.

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Materiale online


 


 

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La Repubblica (redazione) (2015), “Ostia, Sabella: Idea recupero ex colonia Vittorio Emanuele”, (17 giugno), La Repubblica, pubblicato in:www.roma.repubblica.it; (ultimo accesso: ottobre 2016).

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Bibliografia Master

 

Lezioni

 

Pistolese A.,Antropologia della marginalità urbana I, lezione modulo II, 18 gennaio 2015.

Pistolese A.,Antropologia culturale delle società complesse II, lezione modulo II, 18 gennaio 2015.

Pistolese A.,Sociologia urbana II: identità e dinamiche del territorio, lezione modulo III, 22 febbraio 2015.

Pistolese A.,Conformazione del territorio, culture locali, vita sociale, lezione modulo III, 22 febbraio 2015.

Pistolese A.,Teoria e metodi della ricerca-azione, lezione modulo IV, 21 marzo 2015.

Pistolese A.,Metodologia e tecniche della ricerca e della progettazione sociale, lezione modulo VIII, 19 settembre 2015.

Raffini A., Solaro V.,Metodi di mappatura del territorio e di diagnosi territoriale 2, lezione modulo IV, 22 marzo 2015.

Rami Ceci L.,Antropologia culturale delle società complesse I, lezione modulo II, 17 gennaio 2015.

Saba L.,Sociologia urbana I: la città e le sue rappresentazioni, lezione modulo III, 21 febbraio 2015.


 

Report Laboratori

 

Di Mauro G. O., Reportlaboratorio Teatro del Lido/Ostia (20 marzo 2015)

Ruggero C., Report laboratorio Teatro del Lido/Ostia (20 marzo 2015).

 

Sitografia


 

Siti istituzionali

 

Comune di Roma Capitale - www.comune.roma.it

Municipio X - www.comune.roma.it/pcr/it/xiii_territ_mun_xiii.page

Istituto Nazionale di Statistica - www.istat.it

Roma Statistica - www.comune.roma.it/pcr

Azienda Sanitaria Locale di Roma - www.aslroma.it

Ufficio scolastico regionale del Lazio - www.usrlazio.it

Teatro del Lido - www.teatriincomune.roma.it/teatro-del-lido-di-ostia


 

Città di Ostia

 

Ostia antica atlas - www.ia-ostiaantica.org

Storia di Ostia -www.grupponline.it

Ostia Lido - www.ostialido.it; - www.romamarittima.it


 

Terzo settore

 

Associazione Teatro del Lido -www.associazionetdl.it

Collettivo L’officina - www.officina-ostia.noblogs.org

Roma Multietnica -www.romamultietnica.it

1Il Teatro Furio Camillo ogni anno, a partire dal 2012, mette in scena “Black Reality”: un ciclo di spettacoli dedicato al tema della migrazione ed ai migranti, portati sul palcoscenico dagli stessi dopo un anno di laboratori teatrali.

 

2Secondo questa strategia di mappatura, dopo aver scelto l’area d’indagine, si prendono in considerazione una o due categorie di disagio sociale che incidono sul territorio di riferimento; successivamente, si rileva la rete delle risorse sociali che si trovano e/o incidono sull’area presa in esame, in relazione allo specifico target prescelto.

 

3Pistolese A, Antropologia culturale delle società complesse II, lezione modulo II, 18 gennaio 2015.

 

4Idem, Sociologia urbana II: identità e dinamiche del territorio, lezione modulo III, 22 febbraio 2015.

 

5Idem, Conformazione del territorio, culture locali, vita sociale, lezione modulo III, 22 febbraio 2015.

 

6Idem, Antropologia della marginalità urbana I, lezione modulo II, 18 gennaio 2015.

 

7Idem, Sociologia urbana II: identità e dinamiche del territorio, lezione modulo III, 2 febbraio 2015.

 

8Idem, Antropologia della marginalità urbana I, lezione modulo II, 18 gennaio 2015.

 

9Ibidem.

 

10Ibidem.

 

11Da intendersi quale insieme di principi, modalità e pratiche di gestione e governo di: enti del terzo settore, istituzioni, o, più in generale, di fenomeni complessi le cui ricadute sociali sono rilevanti.

 

12Saba L., Sociologia urbana I: la città e le sue rappresentazioni, lezione modulo III, 21 febbraio 2015.

 

13Pistolese A., Conformazione del territorio, culture locali, vita sociale, lezione modulo III 22 febbraio 2015.

 

14Ibidem.

 

15Saba L., op. cit.

 

16Rami Ceci L., Antropologia culturale delle società complesse I, lezione modulo II, 17 gennaio 2015.

 

17Saba L., Sociologia urbana I: la città e le sue rappresentazioni, lezione modulo III, 21 febbraio 2015.

 

18Pistolese A., Metodologia e tecniche della ricerca e della progettazione sociale, lezione modulo VIII, 19 settembre 2015.

 

19Callari Galli M. Pievani T., Ceruti M., Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma, 1998.

 

20Tentori, T., Il rischio della certezza, Studium, Roma, 1987.

 

21Pistolese A., Teoria e metodi della ricerca-azione, lezione modulo IV, 21 marzo 2015.

 

22Idem, Metodologia e tecniche della ricerca e della progettazione sociale, lezione modulo, 19 settembre 2015

 

23Idem, Teoria e metodi della ricerca-azione, lezione modulo IV, 21 marzo 2015.

 

24Idem, Metodologia e tecniche della ricerca e della progettazione sociale, lezione modulo VIII, 19 settembre 2015.

 

25Idem, Teoria e metodi della ricerca-azione, lezione modulo IV, 21 marzo 2015.

 

26Solaro V., Raffini A., Metodi di mappatura del territorio e di diagnosi territoriale 2, lezione modulo IV, 22 marzo 2015.

 

27Ibidem.

 

28Pistolese A., Teoria e metodi della ricerca-azione, lezione modulo IV, 21 marzo 2015.

 

29Ibidem.

 

30Ibidem.

 

31In linea con il senso comune, da qui in poi, ci si riferirà a tale parte di territorio con il termine generico di “Ostia”.

 

32Per i dettagli in merito ai dati qualitativi raccolti in fase di ricerca si rimanda alla sezione dedicata alle fonti primarie all’appendice A, pp. I-II.

 

33Delibera della giunta comunale di Roma Capitale n.1, dell’11 marzo 2013, disponibile in: https://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/delib_N_11_del_11_03_2013.pdf; e successive precisazioni in delibera, della stessa giunta, n.392, dell’8 novembre 2013, disponibile in: https://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/DGCDelib_N_392_del08112013.pdf.

 

34Treccani, Enciclopedia Italiana, vol. XXI, p.101.

 

36D’Amato D., (2013), Città nella - Analisi del contesto del X (ex XIII) Municipio di Roma, tesi di ricerca del Master in Progettazione Sociale e Gestione del Territorio “Tullio Tentori”, pp.13-15, pubblicata in: www.irmanet.eu.

 

37Il quesito è rimasto comunque aperto tra l’opinione pubblica per diversi anni: risale al periodo compreso tra il 15 marzo 2003 e l’8 febbraio 2004 un sondaggio online, lanciato dal portale ostialido.it, tramite il quale 669 votanti hanno risposto alla domanda “Ostia Comune si o no?” con 311 voti a favore, 321 contro e 37 indecisi; sondaggio disponibile in: http://www.ostialido.it/sondaggio/pag_completa.php.

 

38Delibera della giunta capitolina n.18, del 18 aprile 2011, disponibile in: https://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/REG_DEC_OSTIA_AC_18_2011.pdf.

 

39 “Ecco la “Mafia Capitale”: 37 arresti da parte del Comune. Indagato anche Alemanno”, (2014, 2 dicembre), La Repubblica, disponibile in: http://www.repubblica.it/cronaca/2014/12/02/news/mafia_roma_37_arresti_appalti_comune_alemanno-101964106/.

 

40Coarelli F., (2008),  I santuari, il fiume, gli empori, in “Storia Einaudi dei Greci e dei Romani”, vol. 13, p. 136, Einaudi, Milano.

 

41Treccani, Enciclopedia Italiana, vol. XXV, p.743.

 

42Ivi, vol. XXI, p.101.

 

43Ivi, vol. XXV p 743.

 

44 Sito istituzionale del Municipio X, sezione “Schede sul territorio”, sottosezione “La bonifica delle zone paludose”: http://www.comune.roma.it/pcr/it/xiii_schede_territ.page.

 

45Mancini L. (2014), “La colonia marina Vittorio Emanuele III a Ostia”, (20 luglio), Roma Capitale Magazine, pubblicato in: www.romacapitalemagazine.it/content/lista-categorie/arte-e-cultura/la-colonia-marina-vittorio-emanuele-iii-a-ostia.

 

46Storia di Ostia Lido in: http://www.ostialido.it/storia/index.php.

 

47Enciclopedia Treccani vol. XXV p.747.

 

48 Caporilli M., Lattanzi G., Mancini G., (2008), Il mare di Roma. Una storia da vedere. La più grande e affascinante città balneare d’Europa; Publidea ’95, Roma, passim.

 

49Ibidem.

 

50Ibidem.

 

51 Lorenzatti S. (1990), Ostia. Sintesi storica, in “Guida di Ostia”, Roma, 1990, passim.

 

52Idem, (a cura di) (2007), Ostia. Storia Ambiente Itinerari, Centro Studi Storici Ambientali Ostia, Roma, passim.

 

53Questi dati sono sottostimati poiché non rispecchiano la situazione demografica di fatto comprendente la popolazione straniera irregolarmente residente e l’incremento durante il periodo estivo, tuttavia possono offrirci un quadro di riferimento generale della demografia di Ostia Lido e della presenza di stranieri nel suo territorio.

 

54 Sito istituzionale del Municipio X, sezione “Il territorio”, sottosezione “Il territorio del Municipio X”: http://www.comune.roma.it/pcr/it/xiii_territ_mun_xiii.page.

 

55 Elaborazioni Ufficio di Statistica di Roma Capitale su dati Anagrafe anno 2015, pubblicati in “Roma Statistica”: http://www.comune.roma.it/pcr/it/rag_gen_pop_iscritta.page.

 

56Ibidem.

 

57Calcolata sul totale della popolazione straniera di Ostia Nord ed Ostia Sud; elaborazione mia, su dati alla fonte.

 

58Elaborazione incidenza percentuale mia a partire da: Elaborazioni Ufficio di Statistica di Roma Capitale su dati Anagrafe anno 2015, op.cit.

 

59Elaborazione incidenza percentuale mia su dati forniti da Istat (per la popolazione comunale - vedi: www.demo.ista.it/pop2016/index.html ) e da Elaborazioni Ufficio di Statistica di Roma Capitale su dati Anagrafe anno 2015, op.cit.(per la popolazione municipale).

 

60Questa tendenza si riscontrava anche per il 2014: il X Municipio registrava un’incidenza di popolazione straniera del 9,4%, nettamente inferiore rispetto a quella rilevata per altri municipi (che arrivavano a toccare picchi del 26,2% e del 17,6% rispettivamente nel I e nel XV) ed inferiore di tre punti percentuali anche della media comunale; fonte: Ragioneria Generale - I Direzione “Sistemi di pianificazione e controllo finanziario” - U.O. Statistica, (2015), L’immigrazione a Roma. La popolazione straniera residente- Anno 2014, pubblicato in:www.comune.roma.it.

 

61Ibidem.

 

62Come nota n°58.

 

63Come nota n°58.

 

64Come nota n°58.

 

65Come nota n°58.

 

66Elaborazioni Ufficio di Statistica di Roma Capitale su dati Anagrafe anno 2015, op.cit.

 

67Sito istituzionale del Municipio X, sezione “Uffici e servizi”, sottosezione “Servizi educativi”: http://www.comune.roma.it/pcr/it/xiii_servizi_edu.page; Ufficio scolastico regionale del Lazio: www.usrlazio.it.

 

68Sito istituzionale del Municipio X, op.cit.

 

69Azienda Sanitaria Locale di Roma: www.aslroma.it.

 

70Sito istituzionale del Municipio X, sezione “Uffici e servizi”, sottosezione “Attività ricreative”: http://www.comune.roma.it/pcr/it/xiii_cultura_spo.page.

 

71Ibidem.

 

72Lega Italiana Protezione Uccelli.

 

73Sito istituzionale del Municipio X, sezione “Il territorio”, sottosezione “Schede sul territorio”: https://www.comune.roma.it/pcr/it/xiii_schede_territ_14.page.

 

74Colonia marina Vittorio Emanuele III, disponibile in: www.grupponline.it.

 

75Ibidem.

 

76Sito istituzionale del Municipio X, op. cit.

 

77La colonia marina Vittorio Emanuele III ad Ostia, op. cit.

 

78Sito istituzionale del Municipio X, op. cit.

 

79Completata nel 1932, la cappella era collegata all’ala est e decorata con marmi policromi e, nell’abside, con affreschi di scene bibliche che rimandano l’immagine del Redentore a quella dei bambini ricoverati presso l’istituto. (Fonte: Colonia marina Vittorio Emanuele III, in: www.grupponline.it).

 

80Torelli Landini E., (2007), Roma. Memorie della città industriale. Storia e riuso di fabbriche e servizi nei primi quartieri produttivi, Palombi, Roma. passim.

 

81Cantalupo V., Ceraudo D., Frasca V., Mastrogiacomo S., (2009), La colonia marittima Vittorio Emanuele III, pubblicato in www.pism.uniroma3.it, p.2.

 

82Torelli Landini E., (2007), op. cit.

 

83Sito istituzionale del Municipio X, op. cit.

 

84Torelli Landini E. (2007), op. cit.

 

85Mancini L. (2014), “La colonia marina Vittorio Emanuele III a Ostia”, (20 luglio), Roma Capitale Magazine, pubblicato in: www.romacapitalemagazine.it/content/lista-categorie/arte-e-cultura/la-colonia-marina-vittorio-emanuele-iii-a-ostia.

 

86Torelli Landini E., (2007), op. cit.

 

87Scuola media Sangallo, La colonia marina “Vittorio Emanuele”, in “Studio del territorio”, pubblicato in: http://utenti.romascuola.net/mediasangallo/SitoArchimede2/TerritorioOstia2.html.

 

88Sito istituzionale del Municipio X, op. cit.

 

89Scuola media Sangallo,op. cit.

 

90Torelli Landini E. (2007), op. cit.

 

91Sito Ostia Antica Atlas, sezione “Edifici e architettura di Ostia”: http://www.ia-ostiaantica.org/news/edifici-e-architettura-di-ostia.

 

92Ibidem.

 

93Risale al 1998, infatti, un accordo di programma tra la Regione Lazio, il Comune e la Provincia di Roma, e l’Università di Roma Tre, che prevedeva un ampliamento di quest’ultima e un suo ricollocamento della parte centrale dell’ex-colonia (fonte: Elia B. (a cura di) (2011), Ostiense dal passato al futuro.: Trasformazioni edilizie dal 1970 a oggi, Gangemi Editore, Roma, pp. 62-63).

 

94Movimento laico, di ispirazione cattolica, dedito alla preghiera e alla comunicazione del Vangelo, che si definisce come "associazione pubblica di laici della Chiesa", nato nel 1968 oggi è diffuso in più di settanta paesi ed è riconosciuto come “Associazione internazionale di fedeli" dal Pontificio consiglio per laici.

 

95Torelli Landini E. (2007), op. cit.

 

96Il Teatro del Lido è uno dei cinque teatri presenti ad Ostia. Incluso nel progetto di Fasolo dell’ex-colonia e costruito contestualmente a questa, vanta una storia travagliata fatta di chiusure ed occupazioni. Il Teatro, infatti, è stato chiuso per oltre 25 anni, fino a quando, nel 1997, fu occupato da un gruppo di giovani ed artisti locali che hanno avviato un’intensa stagione teatrale e laboratoriale (fonte: “Il teatro del lido”, sezione “La storia” in: http://www.teatriincomune.roma.it/teatro-del-lido-di-ostia/la-storia-lido/).

 

97Villoresi L., “L’ostello cosmopolita di Ostia e sabato tutti al rave in fabbrica”, (2001, 9 febbraio), La Repubblica, disponibile in: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/02/09/ostello-cosmopolita-di-ostia-sabato-tutti.html.

 

98Il movimento nasce in Sicilia nel 1989, dall’occupazione dell’Università di Palermo, come forma di protesta contro la riforma Ruberti che prevedeva una trasformazione delle università italiane in senso privatistico. Tale movimento si estese in altri atenei italiani, a cominciare da La Sapienza di Roma.

 

99Villoresi L., op. cit.

 

100Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015); Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

101Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

102Ibidem.

 

103Comparin S. (2014), Il diritto all'abitare vissuto dagli immigrati dell'ex XIII Municipio, tesi di ricerca del Master in Progettazione sociale e gestione del territorio “Tullio Tentori”, pubblicata in: www.irmanet.eu; Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

104Villoresi L. (2001), op. cit; Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

105Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

106Una parte della ristrutturazione dei locali, nell’ala est, è stata a carico delle istituzioni, nell’ambito degli interventi previsti per il Giubileo del 2000 (Filippo operatore di rete Teatro del Lido - intervista del 19 ottobre 2015), un’altra parte è stata eseguita dai residenti stessi che hanno accomodato, con muri in cartongesso, i locali in cui vi era il Liceo Enriquez, ricavandone camere da alloggiare (Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu - intervista del 4 marzo 2016).

 

107Ibidem.

 

109Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

110Gianluca, antropologo urbano e cittadino di Ostia (focus group informale del 22 giugno 2015).

 

111Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

112Ibidem.

 

113Villoresi L., (2001), op. cit. ; Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

114A favorire, quanto meno inizialmente, l’attivazione dei servizi è anche il recupero di parte delle attrezzature dell’ex-colonia ancora presenti nella struttura: letti ed equipaggiamenti vari dell’antica palestra e medicheria; come ci riporta l’informatrice Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

115Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

116Ibidem.

 

117Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

118Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

119 Da qui in poi, per una maggiore comprensione delle citazioni alle interviste si rimanda alle “Convenzioni per la trascrizione delle interviste” contenute all’allegato B, p.I.

 

120Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 12 febbraio 2016).

 

121Ibidem et Idem, intervista del 19 giugno 2015.

 

122Cantiere sociale di Ostia (2012), Ostia: ex colonia Vittorio Emanuele bene comune, in: Città invisibile, “Ostia resta un cantiere sociale”, (2012, 22 ottobre), Comune info,disponibile in: http://comune-info.net/2012/10/ostia-resta-un-cantiere-sociale/.

 

123Sito del collettivo L’officina, sezione “Generale”: https://officina-ostia.noblogs.org/post/category/generale/.

 

124Giovanni, cittadino di Ostia e referente comitato “Spiagge libere” e “Liberi tv” (focus group informale del 22 giugno 2015).

 

125Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

126Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

127Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

128Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

129Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno).

 

130A partire dalla sua inaugurazione nel 2003, il Teatro assume la forma innovativa di teatro pubblico e partecipato, grazie anche ad un consorzio di associazioni attive nella programmazione teatrale. Nonostante ciò, il Teatro viene nuovamente chiuso nel 2008 e, ancora una volta, gruppi di giovani, artisti, ma anche studenti e cittadini (nonché ex lavoratori della struttura) formano un comitato ed occupano lo stabile rivendicandone l’apertura. Finalmente, nel 2013, il Teatro è messo a norma ed inserito nel “Sistema Case dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea”, entrando a pieno titolo nel Sistema dei Teatri di Cintura ed avviando percorsi di programmazione partecipata grazie soprattutto all’impegno dell’Associazione Teatro del Lido.

 

131Con la denominazione “Centro Vittorio” ci si riferisce, attualmente, sia all’intero stabile dell’ex-colonia Vittorio Emanuele III che, nello specifico, al Centro socio-abitativo (osservazione partecipante del 20 marzo 2015); ci si riferirà a quest’ultimo, nel resto dell’elaborato, con l’accezione di “Centro Vittorio”.

 

132Sito istituzionale del Municipio X, op. cit.

 

133Macinelli S., “Blitz dei vigili nell’ex-colonia: mezzo chilo di droga e 110 occupanti”, (2015, 22 giugno), Leggo, disponibile in: http://www.leggo.it/news/roma/ostia_blitx_ex_colonia_sequestrata_droga-1105289.html.

 

134Savelli F., “Ostia, blitz all'ex colonia Vittorio Emanuele: al suo posto la caserma dei vigili”, (2015, 22 giugno), La Repubblica, disponibile in: http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/06/22/news/ostia_blitz_dei_vigili_nell_ex_colonia_vittorio_emanuele-117416653/.

 

135Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015); Osservazione partecipante del 22 giugno 2015.

 

136Vincenzo, referente Centro di ascolto Caritas (intervista del 4 marzo 2016).

 

137Osservazione partecipante del 22 giugno 2015; Residenti Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

138Risale al 2014 una notizia relativa allo stanziamento di fondi per la ristrutturazione del secondo piano della struttura, tuttavia, ad oggi, non seguita da un appalto per i lavori (fonte: Stella M. G., “Ostia, ex colonia Vittorio Emanuele: un milione e mezzo per la ristrutturazione” (2014, 30 maggio), Ostia tv, disponibile in:http://www.ostiatv.it/ostia-ex-colonia-vittorio-emanuele-milione-e-mezzo-per-ristrutturazione-0062278.html).

 

139Osservazione partecipante del 20 marzo 2015; Di Mauro G. O., Report del 20 marzo 2015; Ruggero C., Report del 20 marzo 2015.

 

140Osservazione partecipante del 22 giugno 2015; Osservazione partecipante del 16 ottobre 2015; Nota di campo del 22 giugno 2015; Nota di campo del 16 ottobre 2015.

 

141Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno).

 

142Mancini G., “Blitz dei vigili, sgomberato il cortile degli orrori nel patio dell'ostello di Ostia”, (2014, 8 agosto), Il Messaggero, disponibile in: http://ilmessaggero.it/roma/metropoli/zingari_cortile_orrori_ostia_vigili_ostello_colonia_vittorio_emanuele-533924.html.

 

143Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

144Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

145Romano, cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

146Caporilli M., Lattanzi G., Mancini G., (2008), Il mare di Roma. Una storia da vedere. La più grande e affascinante città balneare d’Europa; Publidea ’95, Roma, passim.

 

147Romano, cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

148Vittorio, cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

149Luca, referente Comunità Sant’Egidio di Ostia (intervista del 18 maggio 2016).

 

150Ibidem.

 

151Ibidem.

 

152Ibidem.

 

153Umberto, referente Centro anziani e cittadino di Ostia (intervista del 11 maggio 2016).

 

154Movimento politico di ispirazione fascista.

 

155“La Colonia Vittorio Emanuele? Una polveriera”, (2007, 6 giugno), Il Giornale, disponibile in: http://www.ilgiornale.it/news/colonia-vittorio-emanuele-polveriera.html

 

156Veronica, referente Ostello Litus (focus group del 11 maggio 2016).

 

157Giovanni, cittadino di Ostia e referente comitato “Spiagge libere” e “Liberi tv” (focus group informale del 22 giugno 2015).

 

158Gianluca, antropologo urbano e cittadino di Ostia (focus group informale del 22 giugno 2015).

 

159CasaPound, infatti, nasce a Roma il 26 dicembre del 2003, come primo centro sociale di ispirazione fascista, con l’occupazione, di uno stabile nel rione Esquilino e, solo successivamente, diffondendosi con ulteriori occupazioni, diviene un movimento politico e si costituisce, nel 2008, come associazione di promozione sociale.

 

160Mancinelli S., “A Ostia immigrati e abusivi. Ecco la ‘polveriera’ in riva al mare”, (2014, 26 ottobre), Il Tempo, disponibile in: http://www.iltempo.it/cronache/2014/10/26/a-ostia-immigrati-e-abusivi-ecco-la-polveriera-in-riva-al-mare-1.1334588;
Esse C. (2016), “L’ex colonia, rifugio dei clan”, Duilio Litorale Romano, IV (3), 14-15, disponibile in: http://apledizioni.it/wp-content/uploads/bsk-pdf-manager/43_DUILIO_MARZO_2016__SITO.PDF.

 

161Colonia marina Vittorio Emanuele III, in www.grupponline.it.

 

162“La Colonia Vittorio Emanuele? Una polveriera”, op. cit.

 

163Don Franco De Donno, presidente Caritas di Ostia (intervista del 16 ottobre 2015).

 

164Ibidem.

 

165Vittorio, cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

166Ibidem.

 

167Umberto, referente Centro anziani e cittadino di Ostia (intervista del 11 maggio 2016).

 

168Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

169Sondaggio semi-qualitativo, risalente all’anno 2015, consistente nella somministrazione di una questionario misto (domande chiuse e domande aperte).

 

170Diciotto cittadini lidensi scelti a random.

 

171Umberto, referente Centro anziani e cittadino di Ostia (intervista del 11 maggio 2016).

 

172Vittorio, cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

173Cristina, commerciante e cittadina di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

174Ibidem.

 

175Ibidem.

 

176Ibidem.

 

177Elena, cittadina di Ostia ed insegnante d’italiano per stranieri (intervista del 19 giugno 2015).

 

178Ibidem.

 

179Vittorio, cittadino di Ostia (intervista del 19 giugno 2015).

 

180Vincenzo, referente Centro di ascolto Caritas (Intervista n°16 del 4 marzo 2016).

 

181Ibidem.

 

182Elena, cittadina di Ostia ed insegnante d’italiano per stranieri (intervista del 19 giugno 2015).

 

183Umberto, referente Centro anziani e cittadino di Ostia (intervista del 11 maggio 2016).

 

184Vincenzo, referente Centro di ascolto Caritas (Intervista n°16 del 4 marzo 2016).

 

185Ibidem.

 

186Ibidem.

 

187Ibidem.

 

188Ibidem.

 

189Ibidem.

 

190Idris, Mosi, Sekou, residenti Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

191Renata, responsabile Biblioteca Elsa Morante (intervista del 1 aprile 2016).

 

192Ibidem.

 

193Ibidem.

 

194Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

195Costel, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 18 maggio 2016).

 

196Fabiana, referente Ostello Litus (focus group del 11 maggio 2016).

 

197L’ostello (come la biblioteca) ha separato gli spazi di sua competenza da quelli del centro socio-abitativo con muri ed inferriate.

 

198Veronica, referente Ostello Litus (focus group del 11 maggio 2016).

 

199Fabiana, referente Ostello Litus (focus group del 11 maggio 2016).

 

200L’informatrice si riferisce al personale proveniente dalla Valtour che è stato parte attiva nella progettazione dell’ostello Litus ed è confluito nel suo organico.

 

201Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

202Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 12 febbraio 2016).

 

203Ibidem.

 

204Yousef, imam del Centro di Cultura Islamica (intervista del 22 giugno 2016).

 

205Tra le varie attività, degna di nota è la “Settimana di cultura islamica”, durante la quale, ogni anno, l’Istituto di cultura islamica, organizzata eventi informativi e ricreativi aperti a tutta la cittadinanza.

 

206Yousef, imam del Centro di Cultura Islamica (intervista del 22 giugno 2016).

 

207Ibidem.

 

208Ibidem.

 

209Osservazioni partecipanti del: 20 marzo 2015, 19 giugno 2015, 22 giugno 2015 e 16 ottobre 2015.

 

210Luca, referente Comunità Sant’Egidio di Ostia (intervista del 18 maggio 2016).

 

211Ibidem; Yousef, imam del Centro di Cultura Islamica (intervista del 22 giugno 2016).

 

212Luca, referente Comunità Sant’Egidio di Ostia (intervista del 18 maggio 2016).

 

213Ibidem.

 

214Idris, Mosi, Sekou, residenti Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

215Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

216Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

217Ibidem.

 

218Ibidem.

 

219Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

220Ibidem.

 

221Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

222Ibidem.

 

223Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

224Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 12 febbraio 2016).

 

225Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

226Birama, mediatore culturale per il centro socio-abitativo (intervista del 18 settembre 2015).

 

227Osservazioni partecipanti del: 20 marzo 2015, 19 giugno 2015, 22 giugno 2015 e 16 ottobre 2015.

 

228Birama, mediatore culturale per il centro socio-abitativo (intervista del 18 settembre 2015).

 

229Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

230Ibidem.

 

231Idris, Mosi, Sekou, residenti Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

232Ibidem.

 

233Vedi 2.1.1.

 

234Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

235Idris, Mosi, Sekou, residenti Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

236Osservazione partecipante del 22 giugno 2015.

 

237Ibidem.

 

238Idris, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

239Mosi, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015)

 

240Sekou, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

241Idris, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

242Ostia, Sabella: Idea recupero ex colonia Vittorio Emanuele”, (2015, 17 giugno), La Repubblica, disponibile in http://roma.repubblica.it/dettaglio-news/-/38634.

 

243Gianluca, antropologo urbano e cittadino di Ostia (focus group informale del 22 giugno 2015).

 

244Ostia, Sabella: Idea recupero ex colonia Vittorio Emanuele”, op. cit.

 

245Le dichiarazioni di Alfonso Sabella hanno riacceso il dibattito pubblico in merito alla legittimità del centro socio-abitativo e fomentato le posizioni xenofobe tra l’opinione pubblica, in particolar modo tra i movimenti di estrema destra come Casapound (vedi: Il Faro (redazione) (2015), “Casapound risponde a Sabella sulla colonia Vittorio Emanuele III”, (19 giugno), Il Faro, pubblicato in: http://www.ilfaroonline.it/2015/06/18/ostia/casapound-risponde-a-sabella-sulla-colonia-vittorio-emanuele-iii-55197.html).

 

246Birama, mediatore culturale per il centro socio-abitativo (intervista del 18 settembre 2015).

 

247Vedi: Allegato 1 pp. IV-V.

 

248Don Franco De Donno, presidente Caritas di Ostia (intervista del 16 ottobre 2015).

 

249Una prima rete informale si era già costruita nel luglio 2015, poco meno di un mese dopo dalla perquisizione del centro del 22 giugno 2015.

 

250Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

251Don Franco De Donno, presidente Caritas di Ostia (intervista del 16 ottobre 2015).

 

252Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 12 febbraio 2016).

 

253Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

254Vedi 2.1.1.

 

255Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

256Ibidem.

 

257Don Franco De Donno, presidente Caritas di Ostia (intervista del 16 ottobre 2015).

 

258Ibidem.

 

259Youssou, referente interno del Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015)

 

260Don Franco De Donno, presidente Caritas di Ostia (intervista del 16 ottobre 2015).

 

261Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

262Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015)

 

263Vedi: Allegato 2 p. VI.

 

264Abu, residente Centro socio-abitativo, cit. in: Comparin (2014).

 

265Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

266Idris, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

267Sekou, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

268Idris, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

269Abu, residente Centro socio-abitativo, cit. in: Comparin (2014).

 

270Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

271Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

272Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

273Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

274Idem, (intervista informale del 16 ottobre 2016).

 

275Idem, (intervista informale del 20 marzo 2016).

 

276Il residente fa riferimento ad un modello di economia interna, adottata principalmente dal gruppo degli ivoriani, per la quale, si accumulano oggetti di varia natura (comprandoli, trovandoli nell’immondizia o come residui di lavori di trasloco), per poi spedirli, collettivamente, alle famiglie d’origine in Africa. Questi residenti dichiarano fermamente che, in questa attività, si muovono nel completo rispetto della legalità e che, la stessa, rappresenti l’unica forma di sostentamento, che riescono ad avere, per sé e i loro familiari. (Idris, Mosi, Sekou, residenti Centro Socio-abitativo - focus group del 22 giugno 2015).

 

277Ibidem.

 

278Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

279Ibidem.

 

280Birama, mediatore culturale per il centro socio-abitativo (intervista del 18 settembre 2015).

 

281Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

282Ibidem.

 

283Ibidem.

 

284Ibidem.

 

285A causa dell’autoesclusione di questo gruppo, è stato difficile interagire, durante la mia ricerca, con residenti del centro originari del Bangladesh. Gli unici momenti di incontro che ho avuto con queste persone, sono avvenuti durante il focus group che ho organizzato presso il centro, a poche ore da una perquisizione dei locali, per indagare sulle minacce di sgombero e il livello di attaccamento al luogo dei residenti. In quest’occasione, nonostante il palpabile clima di incertezza e crisi, i residenti bangladesi, autoescludendosi dal confronto, si sono dimostrati disinteressati alle sorti del centro; le uniche interazioni sono finalizzate alla richiesta di informazioni in merito ad una multa, per occupazione di suolo pubblico, che avrebbero dovuto pagare (nota di campo del 22 giugno 2015).

 

286Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

287Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

288Mosi, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

289Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

290Idris, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

291Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 12 febbraio 2016).

 

292Costel, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 18 maggio 2016).

 

293Per un’analisi approfondita sulla realtà degli sfratti e sui servizi di contrasto al disagio abitativo nel X Municipio vedi: Comparin (2014).

 

294Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015)

 

295Michela, residente Centro Socio-abitativo ed ex-membro Shaka Zulu (intervista del 4 marzo 2016).

 

296Mosi, residente Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

297Alphonse, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 19 giugno 2015).

 

298Costel, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 18 maggio 2016).

 

299Filippo, operatore di rete Teatro del Lido (intervista del 19 ottobre 2015).

 

300Mosi, Sekou, residenti Centro Socio-abitativo (focus group del 22 giugno 2015).

 

301Youssou, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 16 ottobre 2015).

 

302Costel, residente Centro Socio-abitativo (intervista del 18 maggio 2016).

 


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